Migliaia di manifestanti manifestano pacificamente a Hong Kong (foto LaPresse)

Pechino non ha una soluzione reale per il problema Hong Kong

Giulia Pompili

La Cina vorrebbe risolvere in fretta la questione, ma sostituire l’hub finanziario con la limitrofa Shenzhen non funzionerebbe

Roma. La manifestazione pacifica alla quale hanno partecipato – secondo gli organizzatori ma anche secondo l’analisi delle immagini fatta dai media internazionali – circa un milione e settecentomila persone, domenica scorsa a Hong Kong, è la dimostrazione che la maggior parte di chi chiede maggiori garanzie sull’autonomia dell’ex colonia inglese non è aggressiva, e non si muove per distruggere. Ma dimostra anche, in modo più velato, che le minacce di Pechino hanno funzionato. Non si tratta soltanto di diffondere la narrativa di un possibile intervento diretto di Pechino, mostrando il massiccio spostamento di truppe sul confine tra Hong Kong e Shenzhen oppure le esercitazioni della polizia militare cinese. C’è anche un altro fattore in discussione nelle ultime settimane. Se fino a poco tempo fa la zona amministrativa speciale di Hong Kong era la porta d’ingresso degli investimenti stranieri in Cina, e quindi la sua autonomia era fondamentale per la crescita economica cinese, un articolo pubblicato ieri sul Nikkei Asian Review spiega come Pechino stia cercando di spostare il business verso la limitrofa Shenzhen – una città che è tra i più imponenti esperimenti economici degli anni Ottanta di Deng Xiaoping: “Secondo un documento pubblicato domenica dal Consiglio di Stato, Shenzhen avrà una regolamentazione conforme agli standard internazionali, nonché norme più favorevoli per stimolare investimenti e acquisizioni”.

 

La minaccia passa all’aspetto più concreto, quindi: l’economia. Ma Hong Kong ha avuto il suo momento strategico, almeno fino a una decina di anni fa, proprio in virtù della sua autonomia – che passa anche da un’autonomia dal sistema giudiziario cinese, visto che qui si parla di un emendamento alla legge sull’estradizione. E’ proprio la libertà di Hong Kong a essere attrattiva per gli investimenti stranieri. Nonostante questo, “liberarsi del modello ‘un paese due sistemi’ è parte fondamentale del grande piano di rinascita cinese di Xi Jinping”, ha spiegato ieri alla Bbc Frank N. Pieke, direttore del Merics di Berlino, il più grande think tank di studi cinesi in Europa. Secondo Pieke la guerra commerciale con Washington sta spingendo Pechino a risolvere in fretta il “problema Hong Kong”, proprio perché alla fine, in fase negoziale, dei disordini sta beneficiando solo l’America: “Le manifestazioni hanno indebolito il sogno cinese di essere una ‘potenza mondiale ragionevole’ e hanno assorbito molte energie”. E c’è un elemento in più: le proteste degli ultimi anni a Hong Kong sono sempre andate progressivamente a spegnersi, ma questa volta sembra di vedere una escalation, e l’impreparazione e la fretta dimostrata da Pechino per risolvere il problema potrebbero essere “controproducenti”, continua Pieke: “Il modello ‘un paese, due sistemi’ non è mai stato una soluzione permanente. Anche se teoricamente può durare a lungo, il Partito comunista respinge questa possibilità, come si vede dall’esperienza di Hong Kong dell’ultimo decennio. Al Partito non piacciono i compromessi: ama vincere, il compromesso è solo un passaggio temporaneo per ottenere la vittoria finale”. Ma il sistema messo in atto a Hong Kong è il motivo per cui è altrettanto difficile l’eliminazione dell’autonomia dell’ex colonia inglese – un discorso che vale anche per Taiwan – se non con una repressione impensabile e impraticabile. Tibet e Xinjiang sono aree geograficamente molto diverse, sono considerate un problema etnico e non “esistenziale”; dice Pieke. Hong Kong e Taiwan invece sfuggono al controllo di Pechino perché hanno avuto la possibilità di aprirsi e globalizzarsi. Per le due regioni la sopravvivenza economica si basa proprio su quell’apertura: un’alternativa artificiosa e meno libera come Shenzhen, probabilmente, non darebbe lo stesso risultato.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.