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Le aziende di Hong Kong mostrano perché Huawei non è indipendente da Pechino

Eugenio Cau

Il caso di Cathay pacific e le pressioni del Partito comunista

Roma. Da qualche giorno circola sui social network una storia epica e probabilmente falsa su Rupert Hogg, ex ceo di Cathay Pacific, la compagnia aerea di Hong Kong. La storia è questa: mentre le proteste di Hong Kong contro il governo e per la libertà infuriavano, i manifestanti occupavano l’aeroporto e molti membri dello staff di Cathay prendevano parte alle manifestazioni, il governo di Pechino avrebbe chiesto a Hogg una lista di proscrizione di dipendenti che sostenevano le proteste. Hogg avrebbe consegnato la lista, ma quando i funzionari comunisti l’hanno aperta ci hanno trovato dentro un nome soltanto: quello di Hogg. L’atto di coraggio è costato caro al ceo di Cathay, che pochi giorni dopo è stato costretto alle dimissioni dietro alle pressioni fortissime di Pechino. Questa storia è stata diffusa dai media di Hong Kong e di Taiwan e subito ripresa dai manifestanti, che hanno tributato grandi onori al ceo defenestrato per proteggere i suoi dipendenti.

 

La storia è così bella che quasi sicuramente è falsa, almeno nella parte della lista di proscrizione. E’ vero, tuttavia, che Hogg, manager molto apprezzato che era riuscito a riportare la compagnia in attivo dopo anni di crisi nera, è stato costretto alle dimissioni perché non abbastanza duro contro le manifestazioni a Hong Kong. La compagnia nelle settimane scorse aveva messo in guardia i dipendenti dal partecipare a manifestazioni illegali e ne aveva perfino licenziati quattro, di cui due piloti, ma non era stato abbastanza. Davanti alla possibilità di pesanti ritorsioni da parte dell’ente dell’aviazione cinese, Rupert Hogg è stato fatto saltare, assieme al suo vice. I comunicati stampa di Hogg stesso e di Cathay lasciano intendere in maniera piuttosto chiara che la sua dipartita è legata ai fatti di Hong Kong e alla pressione cinese. Dopo le dimissioni di Hogg, ha scritto ieri Reuters, su Cathay è disceso un “terrore bianco” di denunce politiche, con i dipendenti controllati e importunati dai loro colleghi filo comunisti. Cathay è una compagnia di Hong Kong, ma l’azionista di maggioranza non è cinese, è Swire Group, un conglomerato britannico con grossi affari in Asia e a Hong Kong. Lo stato cinese detiene una quota di minoranza di Cathay per tramite di Air China.

 

Perché raccontare questa storia? Come ha scritto ieri su Twitter lo stratega tech Benedict Evans, il caso Cathay è la prova massima che la pressione politica del Partito comunista cinese è in grado di decidere le sorti di tutte le aziende cinesi, anche di quelle con sede a Hong Kong, che dunque dovrebbero godere di maggiore libertà, e anche di quelle con azionariato non del tutto statale, come Cathay. Il principio di gestione dell’impresa per il Partito comunista è: bene il libero mercato, ma quando si toccano gli interessi strategici di Pechino il Partito è al di sopra di tutto. Non c’è autonomia aziendale, non c’è azionariato, non c’è manager che tenga. Se il Partito decide, il Partito ottiene.

 

L’occidente dovrebbe ricordarsi questa regola quando si trova ad avere a che fare con aziende cinesi che professano piena indipendenza, come per esempio Huawei. Il gigante cinese delle telecomunicazioni è in lizza in molti paesi, compresa l’Italia, per la costruzione delle reti 5G, un’infrastruttura strategica per le attività sia civili sia militari. Per evitare sospetti e malintesi, Huawei ha compiuto enormi sforzi per dimostrare di essere un’azienda pienamente indipendente dal Partito comunista cinese e per spiegare che la sua struttura societaria è estranea agli apparati dello stato. E’ anche possibile crederle, ma il risultato dell’equazione è sempre uno solo: ogni azienda cinese, non importa quale sia la sua struttura, è automaticamente sottomessa al primato politico del Partito comunista. Quello che è successo a Cathay Pacific e alle altre aziende di Hong Kong, che una a una si sono allineate al diktat del regime, ne è la dimostrazione.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.