Hong Kong, alta tensione: la polizia spara lacrimogeni sui dimostranti (Foto LaPresse)

Più che manganelli e lacrimogeni, a Hong Kong si combatte la disinformazione

Giulia Pompili

La campagna martellante del governo per silenziare le proteste

Roma. Le potenti immagini dei ragazzi di Hong Kong che indirizzano centinaia di puntatori laser verso lo stesso foglio di carta, per dimostrare al mondo che sono innocui, sono parte della strategia contro le fake news diffuse da chi li vorrebbe silenziare. In uno scenario quasi sci-fi, i manifestanti avevano iniziato a usare i laser contro la polizia e le telecamere, per evitare il riconoscimento facciale che la Cina usa per il controllo sociale, e le forze dell’ordine avevano intimato l’abbandono della tattica perché “pericolosissima”. Non era vero, ma la dimostrazione dei ragazzi si è persa dietro ai continui attacchi di disinformazione da parte di Pechino. Come era prevedibile, l’armata di troll pro Cina ieri si è scatenata sulle “violenze” dei manifestanti di Hong Kong all’aeroporto. Ogni protesta contro i regimi autoritari si accompagna oggi a una serie di elementi riconoscibili pressoché ovunque, scrive Peter Pomerantsev, autore del libro “This is Not Propaganda”, sull’Atlantic: forse più dei manganelli e dei gas lacrimogeni, è la disinformazione, specialmente online, che indirizza l’opinione pubblica e l’appoggio alle proteste.

 

La narrativa cinese, in questo caso, è che Hong Kong serve a fare ricchi i cinesi ma soprattutto i cittadini di Hong Kong, che quindi vanno contro i loro interessi, una narrativa a cui il governo di Pechino aggiunge il linguaggio tradizionale del comunismo e del nazionalismo. “Ma l’approccio flessibile alle ideologie è accompagnato anche da una nuova arma: le teorie del complotto”, scrive Pomerantsev. “Le usava la leadership sovietica contro il capitalismo e le cospirazioni antirivoluzionarie, i nazisti contro gli ebrei”. Oggi la Cina usa l’espressione “rivoluzioni colorate” per parlare di Hong Kong e accusa l’America di sostenere i disordini “nell’intento di umiliare la Cina”. Il problema però è che la “propaganda cinese sta funzionando”, titolava ieri SupChina. Un’immaginetta rossa con la scritta in cinese “Io sto con la polizia di Hong Kong, picchiatemi pure” ieri circolava ovunque, soprattutto sui social cinesi, ed è la frase pronunciata dal giornalista del Global Times Fu Guohao, che l’altro ieri durante il momento più teso da quando sono iniziate le proteste a Hong Kong è stato scambiato dai manifestanti per un poliziotto infiltrato e ha rischiato il linciaggio. Quando è uscito dall’ospedale, qualche ora dopo, ha detto di non aver pronunciato quella frase, eppure i video lo smentiscono. Un altro dettaglio importante è che quando è stato bloccato dalla furia dei manifestanti non ha detto di essere un giornalista, insomma non ha smentito di essere un poliziotto.

 

Qualcuno ne ha parlato come di un “agente provocatore”, considerato anche il fatto che il giornale per cui lavora è organo fondamentale della propaganda cinese all’estero, e quindi – come previsto – avrebbe cavalcato la vicenda. Un manipolo di sostenitori della linea dura di Pechino, ieri, si è presentato all’ospedale di Kwai Chung – dove molti dipendenti hanno aderito alle manifestazioni per la libertà di Hong Kong – con addosso le magliette rosse e la scritta “Io sto con la polizia di Hong Kong, picchiatemi pure”. Naturalmente la violenza è sempre esecrabile, e in circostanze di questo tipo il pericolo di scivolare negli abusi – conseguenza della paura, e della rabbia – non è prerogativa di una parte sola. Ma mentre i manifestanti si sono scusati per quel che è successo all’aeroporto, due giorni fa una ragazza è stata raggiunta da proiettile di gomma in faccia, ha perso un occhio, e la televisione di stato cinese ha smentito che fosse stata la polizia. La versione ufficiale è che fosse stata colpita da altri manifestanti, e poi sono state diffuse delle fotografie della stessa persona che poco prima trafficava con delle banconote, “insinuando, come alcuni media cinesi avevano rivendicato anche prima, che i manifestanti sono per lo più provocatori pagati”, scrivevano ieri Steven Lee Myers e Paul Mozur sul New York Times. “L’insinuazione è più di un semplice spin o di una fake news. Perché il Partito comunista cinese esercita un controllo ossessivo sul contenuto dei media grazie al cosiddetto Great firewall cinese, e ora usa lo stesso strumento come una clava nella guerra d’informazione sulle proteste di Hong Kong”. “Il risultato, in Cina e all’estero, è la creazione di una versione alternativa di quello che, visto dall’ex colonia inglese, è chiaramente un movimento popolare di protesta”. Anche se la disinformazione cinese ha avuto meno popolarità e se ne parla meno di quella russa, “i funzionari cinesi negli ultimi dieci anni hanno costruito una macchina di controllo online di molto superiore a quella di qualsiasi altro paese”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.