Incontro del presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping (foto LaPresse)

L'ennesimo G7 in cui l'Italia si presenta senza testa. E la Cina ne approfitta

Giulia Pompili

I rapporti tra il nostro paese e il Dragone si sono intensificati per volontà di questo governo, ma ora spetterà a un nuovo esecutivo appena nominato affrontare la questione al tavolo dei big del pianeta

Roma. E quindi chi ci andrà al G7? L’appuntamento di politica internazionale più importante dell’anno inizia il 24 agosto, precisamente tra due settimane. La presidenza di quest’anno ce l’ha la Francia di Emmanuel Macron, che ha deciso di portare i sette grandi della terra a Biarritz, in Nuova Aquitania. Ma il sessantacinquesimo governo della Repubblica italiana non poteva che concludersi con l’ennesimo disastro, quello che riguarda la sua politica estera. Perché la possibilità che l’Italia si presenti al G7, a dialogare con il presidente americano Donald Trump e gli altri con Giuseppe Conte sono molto limitate, a questo punto. Più probabilmente a Biarritz ci andrà un nuovo presidente del Consiglio, magari appena nominato, con un Parlamento inconsistente e un esecutivo altrettanto poco affidabile agli occhi dei convenuti. Del resto, anche Giuseppe Conte, da avvocato del popolo, si era ritrovato nel giro di una settimana in Canada al vertice G7 dello scorso anno: un vertice preparato sul momento, improvvisato dai suoi neo-fedelissimi, Conte era finito a trattare con la cancelliera tedesca Angela Merkel, il primo ministro giapponese Shinzo Abe, il presidente francese Macron e il primo ministro canadese Justin Trudeau. Sembra una puntata di “Designated survivor”, la serie tv che racconta l’ultimo sopravvissuto dell’Amministrazione americana dopo un disastro apocalittico. Peccato che non sia fiction. E allora, per il secondo anno di seguito, che cosa gli raccontiamo ai nostri alleati?

 

Una delle questioni più importanti che l’Italia del governo gialloverde avrebbe dovuto portare sul tavolo del G7 riguarda un problema creato proprio da questo esecutivo: i nostri rapporti con la Cina. Il vicepremier Luigi Di Maio è considerato lo sponsor della firma del memorandum d’intesa sulla Via della Seta, in concorso con un leghista, il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci: un’operazione trasversale, insomma, per gli alleati. Dopo le pressioni sulla sicurezza nazionale, e le accuse americane nei confronti delle aziende delle telecomunicazioni cinesi, c’è stato il riposizionamento della Lega di Salvini su un’asse più filo-Washington e più anti-Pechino. Ma nel frattempo, per non scontentare nessuno, la Via della Seta è stata minimizzata, dimenticata, chiusa in un cassetto. Peccato che per i cinesi non sia così. Hanno molto apprezzato, per esempio, il fatto che questo governo abbia fatto approvare in fretta e furia un decreto legge per il golden power rafforzato – lo strumento che avrebbe dovuto proteggere le infrastrutture strategiche italiane dagli investimenti extra europei – e poi lo abbiano affossato in fase di conversione in legge. “Il governo non intende insistere per la conversione perché prossimamente sarà sottoposto all’esame del Consiglio dei ministri un disegno di legge per disciplinare in modo più organico la materia della sicurezza informatica”, aveva assicurato il sottosegretario grillino Vincenzo Santangelo. Ma quel Cdm non c’è più. C’è poi un altro pericolo creato dal vuoto pneumatico della politica estera che ci lascia in eredità il governo gialloverde. Ed è il campo libero lasciato sulle questioni internazionali, e alla narrazione che ognuno ne può fare. E come sappiamo, riempire i vuoti è la specialità della Cina. Da qualche settimana la diplomazia cinese in Europa ha iniziato a mobilitarsi nel tentativo di portare dalla parte di Pechino l’opinione pubblica ma soprattutto la politica, là dove i politici hanno condannato l’uso della forza contro i manifestanti e hanno sostenuto le richieste di maggiore democrazia. Lo ha fatto l’ambasciatore cinese a Londra, con un discorso pubblico, quello in Olanda, con un’intervista, quello in Spagna con un articolo firmato su un giornale. Ieri l’ambasciata cinese a Roma ha organizzato invece una conferenza stampa per spiegare i fatti di Hong Kong, unica tra tutte le ambasciate cinesi europee a farlo. Una decina di giornalisti selezionatissimi, a “chiamata diretta” potremmo dire, hanno ascoltato la versione di Pechino delle proteste che da mesi vanno avanti nell’ex colonia inglese, corroborata da foto e video. A chi lo chiedeva, è stato negato il diritto di fare una diretta streaming (ma non era una conferenza stampa?) ma i giornalisti hanno potuto fare perfino qualche domanda – moderata preventivamente dal solerte ufficio stampa – all’ambasciatore Li Junhua, accreditato da poco più di un mese. Per Pechino le proteste dei “radicali” sono orchestrate dall’estero, dall’America, e i politici stranieri in sostanza devono smetterla di parlare degli affari interni cinesi. In Italia, possono stare molto tranquilli: noi non parliamo nemmeno dei nostri.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.