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Conte avverte Salvini, e lascia intendere di avere alle spalle Mattarella

Valerio Valentini

Il premier interviene sull’affaire russo in Senato. Ma non difende il leader leghista. Quella strategia per evitare la crisi. Grillini nervosi lasciano l’Aula

Roma. A volte anche la scelta dei verbi, l’insistenza ossessiva sulla prima persona, è sintomatica delle ansie di un uomo. E appena Giuseppe Conte comincia il suo discorso – un po’ storpiando Luigi Tenco, come in un’altra solenne circostanza aveva fatto il suo precedessore Paolo Gentiloni – si capisce subito che tutto l’intervento sarà un’ostentazione dell’ego. “Se oggi sono qui – esordisce, avendo accanto il solo Riccardo Fraccaro, con l’aria spaesata, e Giulia Bongiorno, un po’ sfinge e un po’ passante per caso – è in ragione del mio ruolo”. Ecce premier. Eccolo, l’avvocato del popolo che rivendica la sua centralità, che esibisce “le responsabilità che su di me gravano”, che si sbraccia per farsi notare, e che per questo poi rimprovererà Stefano Patuanelli, il capogruppo del M5s che ha lasciato vuoti, o quasi, i propri banchi: “Per sottolineare che volevano Salvini, a riferire”, dirà Patuanelli. “Ma a molti di noi non è dispiaciuto poter disertare, vista anche la faccenda del Tav”, dirà poi la senatrice valsusina Elisa Pirro.

  

L’informativa sull’affaire Metropol è in fondo solo l’occasione giusta per dire questo: che tutto, ora, dipende da lui, da Conte. “Mi adopererò affinché tutti i ministri e i membri del governo vigilino” sulle persone accreditate negli incontri ufficiali, promette. Sarà lui l’estremo tutore. E per questo ricorda a tutti “la mia costante presenza all’estero e nei forum internazionali”, mica come Salvini. “Sono stato al G7, a due G20, all’Onu, a vari Consigli europei”. Sono io che conto, io che detto la linea. “La politica internazionale – insiste – è stata affidata massimamente alle 40 missioni che io stesso ho effettuato all’estero, a plurimi incontri che ho avuto a Roma ospitando i miei omologhi”. E insomma mentre Di Maio va in pellegrinaggio a Parigi dai gilet gialli, mentre Salvini resta ostaggio dei suoi consiglieri filoputiniani, Conte si propone come quello affidabile, il controllore “esigente”, l’uomo di stato messo a presidio degli “interessi nazionali”. Parla come se fosse il vigilante. Non fosse che a un certo punto la coincidenza, anche temporale, è rivelatrice. Perché mentre Conte ribadisce quel che sapeva di dovere ribadire, e cioè che “i nostri interessi nazionali tengono conto, necessariamente, della nostra appartenenza alla Nato e all’Ue”, in quegli stessi minuti Sergio Mattarella, intervenendo alla Farnesina alla Conferenza degli ambasciatori, afferma che “Nato e Ue hanno rappresentato le leve solide ed efficaci” della politica estera del nostro paese. E allora diventa evidente che lo spazio di manovra che Conte si è guadagnato sono altri a garantirglielo, che è dal Quirinale, e forse anche da Berlino e da Washington, che gli deriva l’apparente prestigio. Vigilante vigilato, ventriloquo che dà voce a convinzioni altrui, Conte s’è fatto plasmare come presidente istituzionale, di garanzia, premier tecnico senza che lo si dica troppo in giro, che un giorno sblocca la Tav e un giorno annacqua le autonomie, sempre d’intesa col Colle, che s’inchina alle scelte franco-tedesche e prova magari a riaccreditarsi con l’amico Donald Trump, che per qualche momento aveva forse accarezzato l’idea di puntare su Salvini. Al quale, Conte, ricorda malignamente che nella visita moscovita di Salvini, nel luglio 2018, “fu notificata alle controparti russe dalla nostra  ambasciata  la composizione della delegazione italiana su indicazione del  protocollo  del  ministero dell’Interno e la delegazione ufficiale comprendeva anche il nominativo del signor Savoini”. Ma a Salvini, Conte lancia soprattutto un altro segnale, e pure questo, pare, suggeritogli dal Quirinale: e cioè che “a questo consesso”, ovvero al Parlamento, “tornerò ove mai dovessero maturare le condizioni per la cessazione del mio incarico”. Messaggio potente, subito registrato dallo stato maggiore della Lega: se Salvini vuole rompere, dovrà sfiduciare il governo alle Camere, assumendosi tutta la responsabilità della crisi (e schierandosi dunque dalla stessa parte di Pd e di FI). Indizio ulteriore che più tardi spingerà Matteo Renzi, alla buvette, a sentenziare, categorico, che “questi non vanno a votare nemmeno se li pagano”. Neppure in rubli.