Soldati cinesi si esercitano prima della parata militare che si svolgerà in Piazza Tiananmen a Pechino per celebrare i 70 anni della Repubblica popolare cinese (foto LaPresse)

Buon compleanno, Cina

Yangyang Cheng

Una lunga lettera al paese che mi ha fatto nascere e che mi ha cresciuta. Ma il nostro è un amore tossico: mi hai riempita d’ideologia, e oggi che hai settant’anni non ti riconosco più

Pubblichiamo ampi stralci di un lungo saggio pubblicato il 28 settembre scorso su China File e scritto dalla fisica Yangyang Cheng, post-doc alla Cornell University e contributor sulle più importanti riviste scientifiche internazionali. In occasione del 70° anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese ha scritto una lettera d’amore alla sua madrepatria.  


 

Cara Repubblica Popolare Cinese, o dovrei chiamarti Cina?, ti scrivo nell’anniversario dei tuoi settant’anni. Settanta, che età. “Per un uomo vivere fino ai settant’anni è una rarità, sin dall’antichità”, ha scritto il poeta Du Fu nell’Ottavo secolo. Sei sopravvissuta a molti re e a innumerevoli uomini, e sei durata più a lungo di ogni altro stato che abbia adottato la falce e il martello. I miei auguri devono andare per ordine.

 

Sono nata poche settimane dopo che tu hai compiuto quarant’anni. Siamo tutte e due nate a ottobre, un fatto di cui andavo orgogliosa da bambina, la tua bambina. Durante una lezione alla scuola elementare, l’insegnante ci ha fatto ascoltare una registrazione del giorno della tua nascita. Quel suono invecchiato riecheggia ancora dentro di me mentre scrivo, e quelle immagini in bianco e nero sono incise nella mia memoria.

 

“Oggi è stato fondato il governo centrale del popolo della Repubblica popolare cinese!”, ha dichiarato il presidente Mao sulla Porta della Pace Celeste, affacciato su un mare di bandiere rosse e volti felici. Il suo ritratto era stato appeso al centro del cancello, ed è lì tutt’ora, accanto alle parole: “Lunga vita alla Repubblica popolare cinese”.

 

Entro la fine di ottobre compirò 30 anni. Confucio disse che a trent’anni una persona, per essere matura, dovrebbe aver raggiunto il li, cioè dovrebbe essere capace di vivere seguendo l’etichetta e con fermezza morale.

 

Ti ho lasciata più di un decennio fa per studiare all’università negli Stati Uniti, dove continuo a vivere e lavorare. Ho imparato il li? E’ possibile trovare un terreno solido lontano dalla propria terra natale, o siamo condannati a una vita senza radici?

 

Ti scrivo da una terra straniera e con una lingua straniera, con un corpo che faceva parte di te. Il mio non sarà un messaggio breve, non basterà un semplice “buon compleanno”. Ti scrivo per tornare indietro nel tempo, spostare lo spazio, gettare un ponte sugli oceani; per toccare molte corde e per ricostruire legami che si sono intrecciati.

 

Che cos’è un passaggio se non un primo passo fatto di parole?

 

La mia famiglia è originaria di Hubei, “a nord del lago”. Mio padre è cresciuto appena fuori Jingzhou, un’antica città al centro del fiume Yangtze.Nel periodo in cui i tuoi territori non avevano un solo sovrano, ma molti re, Jingzhou o Ying, come veniva chiamata, fu la capitale di Chu per oltre quattrocento anni, fino a quando non cadde sotto le truppe di Qin nel 278 a.C. Qin avrebbe continuato a sconfiggere tutti gli altri stati in guerra, stabilendo il primo Impero cinese, dal cui stendardo hai ricevuto il tuo nome romanizzato: Qin, Cina.

 

[…] In cinese semplificato – la tua lingua – la parola “Cina” è composta da due caratteri, “zhong”, che significa centrale, e “guo”, che significa paese. Appena è stato scritto da un re in una piazza, “guo” ha preso forma come un’autorità governativa su un territorio ben definito. Ma le dinastie cadono e i confini cambiano: cosa succede alla memoria di un antico luogo se la scrittura della storia è il privilegio di chi ha vinto?

 

Quando i miei genitori si incontrarono alla fine degli anni Ottanta erano emigrati a est nell’Anhui, dove sono cresciuta. Ho vissuto per un periodo con i miei nonni a Jingzhou, da bambina. Non me lo ricordo, eppure ogni volta che le persone mi chiedono da quale parte della Cina vengo, rispondo: “Jingzhou”. Forse è dovuto alla mia passione per le canzoni di Chu. Forse è per rispetto per i miei antenati. Forse è che non mi sono mai sentita a casa nell’Anhui, forse per via della mia vita personale, e quindi cercavo un inizio prima dell’inizio, una connessione con la capitale perduta dello Yangtze, un passato romanzato con re, guerrieri e poeti. Tutti abbiamo bisogno di storie sulle nostre origini.

 

Come molti bambini cinesi della mia generazione, il primo libro di storia che ho letto è stato “Su e giù per cinquemila anni”, selezionato dal governo. Un breve riassunto della storia cinese dai mitici e saggi re fino ai giorni nostri; il volume aveva sulla copertina un’immagine della Grande Muraglia. Gli imponenti gradini di pietra e le torri di guardia erano un tempo confini, reliquie di imperi del passato di cui hai inghiottito i corpi.

 

Il fatto è che non ho mai capito i numeri che hai dato, mi sembravano decisamente troppo perfetti: cinque elementi, cinque dita su una mano, cinque organi vitali secondo la medicina tradizionale cinese e cinquemila anni di gloriosa civiltà. Non è che hai arrotondato? Non potresti mai mentire sulla tua età o su qualsiasi altra cosa, vero?

 

Non ricordo cosa abbia provocato quel momento durante la scuola elementare, quando il nostro insegnante ha detto che gli Stati Uniti hanno soltanto due secoli di storia rispetto ai tuoi cinque millenni. L’intera classe aveva riso con orgoglio. Meiguo [America in cinese ndt], quel bellissimo paese, era la più ricca e potente delle nazioni, ma era così giovane, praticamente una minorenne.

 

Anch’io ridacchiai, ma un punto interrogativo che non osavo chiedere mi girava in testa. Quella sera dopo cena, ho condiviso i miei dubbi con mio padre: “Se la Cina è stata fondata il 1° ottobre 1949, non è più giovane degli Stati Uniti?”. La risposta di mio padre fu breve, il suo tono inequivocabile. Disse che la Cina era stata la Cina molto prima che ci fossi tu; solo che con te “non ci sono più imperatori”.

 

Cosa significa vivere una “civilizzazione continua”, dopo secoli di fratture, migrazioni e conquiste? Quando l’ultima dinastia cinese si è sgretolata di fronte alle invasioni straniere e alle turbolenze interne, lo studioso riformista Liang Qichao ha detto che molti mali della sua terra natale derivavano da una mancanza di “coscienza nazionale”, per via di quando le persone erano soggetti feudali e non cittadini moderni. La nazione cinese, per definizione contemporanea, è stata creata all’inizio del Ventesimo secolo non per sviluppo culturale, ma per necessità rivoluzionaria: per salvare un popolo.

 

Sei nata dalle rovine dell’impero. Sei così giovane e così vecchio allo stesso tempo.

 

[…] Un anno e mezzo dopo il mio trasferimento negli Stati Uniti, il tuo leader era atteso in America per una visita di stato. Una delle sue tappe era Chicago.

 

“Verrai a salutare il presidente Hu con noi?”, mi domandò un compagno di scuola cinese qualche giorno prima del suo arrivo. Loro sarebbero rimasti in piedi per le strade del centro per dare il benvenuto al corteo.

 

Solo che gennaio a Windy City non è il periodo ideale per stare all’aperto. Percependo la mia esitazione, l’amico ha aggiunto: “Molti di noi saranno lì. Dobbiamo superare il numero di manifestanti pro-Tibet e del Falun Gong ”.

 

Se fosse stato un altro capo di stato forse mi sarei avventurata per assistere allo spettacolo, nonostante il clima gelido. Ma con te non avevo la possibilità di essere un osservatore neutrale, né potevo semplicemente esprimere affetto per la mia patria. Sventolare la tua bandiera e partecipare al raduno per sostenere il tuo leader avrebbe voluto dire tacitamente approvare le tue politiche. Indipendentemente dalle mie opinioni personali, la mia stessa presenza sarebbe diventata parte della tua propaganda.

 

Quando ti ho lasciata, non avevo illusioni sulla tua natura autoritaria. Mi hai fatto studiare un polpettone sulla tua storia, con alcune parti mancanti, altre mistificate, alcune celebrate, hai omesso particolari fondamentali e altri li hai sigillati, perché non si potevano toccare.

 

Mi hai fatto credere che avevi liberato i contadini dai proprietari terrieri, ma non hai detto nulla sulla brutalità con cui lo hai fatto. Hai descritto la Grande Carestia come conseguenza di “tre anni di disastri naturali”, ma non come risultato delle tue fallimentari politiche. Hai dato la colpa a pochi individui per il decennio di caos della Rivoluzione Culturale, ma non hai mai riconosciuto la portata della carneficina compiuta e non hai mai fatto i conti con il sistema che ha permesso tutto quello. Hai rivendicato territori come se fossero tuoi da tempo immemorabile e hai represso minoranze accecata dal miraggio dell’unità etnica. Hai messo in carcere chi cercava di scoprire la verità e messo a tacere i critici, hai reso i loro nomi tabù, fossero in vita o morti.

 

Ho dovuto lasciarti per scoprire la verità sul tuo conto. Con tutto quello che mi avevi nascosto e ogni bugia che hai detto, come potrei fidarmi di nuovo di te? Con tutto ciò che so di te adesso, come potrei unirmi al coro di coloro che cantano le tue lodi, nella speranza di soffocare il dissenso?

 

Quando è arrivato il grande giorno, sono rimasta nel mio ufficio. “Non sei andata ieri”, ha detto il mio amico quando l’ho incontrato al campus la mattina seguente. “No”, ho detto. “Faceva troppo freddo.”

 

Ho visto un lungo post sui social media qualche giorno dopo, scritto da un’altra studentessa cinese, che raccontava la sua esperienza alla manifestazione. Era rimasta per strada per ore, in attesa, ma il corteo presidenziale aveva preso un’altra strada. Avrebbe voluto avere addosso altri vestiti più pesanti, ma era felice di essere lì. La vista del veicolo del presidente aveva un significato secondario rispetto alla partecipazione stessa alla festa, a quell’essere circondati da persone simili, sentirsi vicini a casa su una terra straniera, affermare la propria identità nazionale ed esserne orgogliosi senza rimorsi.

 

Ho riflettuto sul suo post per molto tempo. Era ingenua? Mi meritavo una pacca sulla spalla per la mia obiezione di coscienza? Sapevo che non avrei mai fatto una scelta diversa, ma una parte di me invidiava quella ragazza, e non perché avesse fatto un’esperienza che io non avevo fatto, ma perché aveva la possibilità di avere una vita meno pesante, meno alla deriva. Se solo potessi accettarti senza fare domande, supportarti senza dubbi, amarti per dovere. Ero stata io a complicare la nostra relazione, e da quel momento non sarebbe mai più stata semplice.

 

[…] “Quand’è stata l’ultima volta che sei stata in Cina?”, mi chiede la gente. Dico loro che ti ho lasciata dieci anni fa e che non sono più tornata. “E’ davvero tanto tempo!”.

 

Sì, davvero. Troppo.

 

“Non ti manca a casa?”.

 

Faccio sempre fatica a rispondere a questa domanda. Entrambe le possibilità di risposta hanno in sé un’ammissione di colpa; a meno che la domanda non sia retorica, è già un’accusa.

 

Mi manca casa e mi manca molto. Non sono tornata da te perché sono una codarda. Molte cose mi turbano, il solo loro pensiero mi fa venire i brividi: i confini, alcune persone, la mia infanzia, quel tuo lato oscuro.

 

Sono cambiate molte cose in te nel corso della mia vita, specialmente negli ultimi dieci anni. Non sei più povera arretrata in lizza per un posto al tavolo, ma una superpotenza globale che piega le regole alla sua volontà. Quando ho iniziato a scrivere di te un paio di anni fa, la tua regressione autoritaria mi aveva spinto a parlare di te, spesso in modo critico. Scrivo per rivendicare la mia identità di donna cinese, quando pretendi di parlare per il tuo intero popolo; lo faccio per liberarmi dalla paura che hai piantato dentro di me, perché speri che il tuo raggio d’azione si estenda oltre i tuoi confini. Le mie parole, per quanto goffe, sono anche la mia espiazione, il mio debole tentativo di adempiere al mio dovere verso il mio paese e verso il mio popolo, anche se ogni riga aumenta la nostra distanza, ogni paragrafo si frappone tra noi, ogni articolo è un’altra ondata, fino a quando l’acqua sarà così tanta che sarà troppo pericoloso attraversarla.

 

Non ho mai scritto con rabbia, ma spesso vado fuori di testa. Scrivo di te per dispiacere, perché ti amo. A volte mi chiedo quanto di quell’amore e del senso di responsabilità che genera siano il risultato dell’ego, ora che sono lontana da te da così tanto tempo. La tua storia ha bisogno della mia opinione? Scrivere di casa mia senza tornarci è una forma di tradimento? Il desiderio è un atto di trasgressione?

 

Per prepararmi a scrivere questa lettera, sono andata su internet e ho visto per la prima volta la cerimonia di apertura delle Olimpiadi del 2008. Sentivo di doverlo fare, nel caso in cui ci fosse qualcosa su di te che mi fossi persa o che avrei dovuto ricordare a me stessa. Le esibizioni sono andate come mi aspettavo. Hai trascorso gran parte della serata a celebrare la tua storia e la tua cultura: un’antica civiltà che ruggisce nella sua rievocazione moderna, orgogliosa, senza mai scusarsi, fiera delle sue ricche creazioni. Un mare di percussionisti e di ballerini, perfettamente sincronizzati, particolarmente suggestivo. Quanto della tua forza la devi ai tuoi numeri? All’uniformità senza compromessi che richiedi per ciascun individuo?

 

Eppure hai dimostrato la tua fiducia in te stessa anche nell’ultima parte, quando hai rappresentato la storia moderna, la Cina che sei. Tu chi sei? Cos’è che ti rende unica, se non il tuo passato? Forse stai ancora cercando le tue risposte, come quegli studenti che hai messo sul palco, e lo fai tracciando le linee di uno schizzo, riempiendolo di colore, crescendo e imparando mentre prende forma quel dipinto.

 

Ho apprezzato la maggior parte dei momenti e ho aggrottato le sopracciglia assistendo ad altri, sentendomi in colpa per il mio cinismo. La stravaganza di quelle ore si è conclusa con il segmento finale della staffetta della torcia. Li Ning, il tuo “Principe della ginnastica”, sospeso su un filo metallico, correva orizzontalmente per aria lungo le pareti dello stadio, tenendo la fiamma con la mano destra per accendere il calderone. Il tema musicale riprodotto in sottofondo era “Tu ed io / Da un unico mondo / Siamo una famiglia…”. Poi lo splendido scenario si è offuscato, e i miei occhi si sono riempiti di lacrime. Forse il cuore, come il corpo, diventa più fragile con l’età.

 

Perché ho evitato quell’esibizione così ostinatamente nel 2008? Mentre guardavo lo schermo e vedevo il mio io più giovane, ho visto una bambina spaventata con un’armatura da cosmopolita, ma molto fragile sotto alla sua testa dura. Ha trascorso gli ultimi mesi con te in un bozzolo di compiti auto-assegnati, tenendomi occupata, in modo tale che non ci fosse tempo per il sentimentalismo. Stavo imballando la mia vecchia vita e mi preparavo a salutarti. Nessuno è mai completamente preparato per una partenza, fino a quando non giunge il momento dell’addio, e quindi diventa realtà.

 

Avevo paura di guardarti, sapendo che presto la tua immagine si sarebbe riflessa nello specchietto retrovisore, rimpicciolendosi nella memoria. Un decennio dopo e a un oceano di distanza, ho riavvolto il nastro della mia vita con te mille volte, osservando ogni fotogramma a rallentatore. Ti cerco, guardando indietro nel tempo, oppure attraverso gli occhi degli altri.

 

Non posso distogliere lo sguardo da te. Tu sei il mio sangue e la mia immaginazione, lo sceriffo e il giudice, il cacciatore e la preda. Tu sei il Partito che finge di essere un paese e un popolo in cerca di un’identità. Sei tremila anni di parole e di canzoni, l’ode e la sirena; sette decenni di lotta e di sopravvivenza, di trionfi e di tragedie.

 

Ti porto sulla mia faccia e nelle sillabe che scandisco quando parlo. Quello che sono è tuo, e viene da te. Sei dentro di me, anche quando vivo lontana da te. Possano i miei ricordi essere tuoi testimoni. Possano le mie parole abbracciarti anche se il mio corpo non può raggiungerti.