Woody Allen (foto LaPresse)

A proposito di Woody Allen

Annalena Benini

Ti frega quello che sei, ti salva quello che sei: la comicità, la grandezza, e la caduta dell’uomo che cerca la magia nella realtà, e le farmacie ovunque. Per brevità chiamiamolo artista, e ringraziamolo di tutto

Ho ottantaquattro anni; sono quasi arrivato a metà della mia vita. Alla mia età, ormai ho poco da perdere. Non credendo in un Aldilà, non vedo che cosa possa cambiare se verrò ricordato come un regista o come un pedofilo. Chiedo solo che le mie ceneri vengano sparse vicino a una farmacia.

Woody Allen

 

Tra le molte fantastiche cose per cui mi sento grata a Woody Allen – le prime tre sono “Io e Annie”, “Manhattan” e “Mariti e Mogli”, ma anche “La rosa purpurea del Cairo”, oltre al mio pregiudizio positivo per qualunque film in cui nelle prime inquadrature ci sia un taxi, quindi le prime tre cose sono già le prime cinque, e impossibili da mettere in ordine, e poi anche il cibo cinese da asporto, come se lo avesse inventato Woody Allen – dentro la mia lunghissima e sempre incompleta lista, che forse potrebbe sintetizzarsi in: senso di appartenenza all’umanità, c’è una frase in particolare per cui lo ringrazio, in questa autobiografia che il figlio Ronan Farrow ha cercato di non far pubblicare in America. Il libro ha rischiato il macero ma è uscito con un altro editore, e in Italia grazie alla Nave di Teseo possiamo leggerlo in ebook, finché le librerie sono chiuse.

 

Un’autobiografia che il figlio Ronan Farrow ha cercato di non far pubblicare, e che possiamo leggere in Italia grazie alla Nave di Teseo

Farlo in questi giorni mi ha restituito un po’ di magia, di senso dell’umorismo, e di risate sulla nostra condizione di ipocondriaci, sognatori, vanitosi e in lotta contro la morte. La frase è di Marshall Brickman, lo sceneggiatore con cui Woody Allen ha lavorato al “Dormiglione”,“Io e Annie”, “Manhattan” e “Misterioso omicidio a Manhattan”. In una discussione su arte e artisti, Brickman ha detto a Woody Allen: “Sai che cosa ti fotte? Quello che sei”. Ti fotte che non sei Marlon Brando, se cerchi di essere Marlon Brando in “Un tram che si chiama desiderio”. Ti fotte che non sei abbastanza bravo a suonare il clarinetto, o in qualunque altra cosa, se non lo sei. Non sono gli altri, sei tu. Mediocre o di talento, buono o cattivo, sei tu, è la tua vita, sono i tuoi errori, i tuoi desideri, i tuoi casini, la tua ostinazione. Il tuo restare cieco di fronte ai segnali che ti sei messo nei guai, e che dovresti scappare finché sei in tempo, ma non scapperai perché sei quello che sei.

 

Quello che ti frega è d’altra parte anche quello che ti salva. Che ti fa desiderare qualcosa, e cercare di ottenerlo. Allan Konigsberg, nato nel 1935 a New York da una contabile di un negozio di fiori e da un donnaiolo allegro e sempre sul lastrico, che infilava in tasca al figlio biglietti da venti dollari mentre dormiva, era già Woody Allen anche quando raccoglieva bottiglie vuote per comprarsi un biglietto del cinema. “A partire dall’asilo quello che mi interessava non erano le filastrocche o il gioco delle sedie. Volevo prendere la metropolitana con Barbara Westlake, andare a Manhattan, portarla nel mio attico sulla Quinta Avenue, bere cocktail come il dry Martini (qualunque cosa significasse “dry”), uscire in terrazza e baciarla al chiaro di luna. Potete immaginare che tutto ciò non era apprezzato dal corpo insegnante della Public School 99, da mia madre o anche da Barbara Westlake che aveva sei anni, era ignara di dry Martini e singhiozzava disperata quando facevano fuori la madre di Bambi. Per cui, per quanto avessi la fissa dell’Astor Bar, non c’era modo di ubriacarmi. Ovviamente erano tutte chiacchiere. Per quanto ben informato, non avrei mai potuto andare a Manhattan da solo, trovare l’Astor Bar, riuscire a entrare e farmi servire qualcosa di più forte di una gazzosa. Senza considerare il fatto che non avrei saputo dove trovare due nichelini per la metropolitana”.

 

 

 

La prima parte dell’autobiografia di Woody Allen è la storia di un ragazzino ebreo pieno di fantasticherie, paure e fissazioni, cresciuto in una famiglia chiassosa e iraconda, con la commedia yiddish nel sangue: prima della sua nascita, i futuri genitori di Woody, fidanzati, vanno a una festa di famiglia, dove una cugina mostra con orgoglio un anello con diamante. Tutti: oooh, aaah. Dopo un’ora scoppia la tragedia: l’anello non si trova più. Grandi manate sulla testa, disperazione, occhi sbarrati e viene fuori che l’anello l’ha rubato il futuro padre di Woody Allen. La futura madre sviene, i commensali lasciano cosce di pollo mangiate a metà e il matrimonio viene annullato (verrà poi ripristinato, con il perdono di tutti). Se era un segno del destino, il destino assomigliava già a un film di Woody Allen, che a sette anni per la prima volta, insieme al padre, scopre Times Square, salendo le scale della metropolitana, e resta senza fiato. Da quel momento, è a Manhattan che vuole vivere.

 

“La signora delle pulizie annuncia: hanno sparato a Kennedy. Accendo la tivù per due minuti, poi mi rimetto a scrivere”

“Non vedevo l’ora di entrare in bar e dire: il solito”. Da quel momento, Woody Allen non ha mai cambiato idea, e non ha mai smesso di essere disinteressato, quando non ostile, alla campagna, agli animali, ai posti senza il suo ristorante preferito, senza Central Park, senza i marciapiedi larghi che portano in uno Starbucks ma basta una piccola deviazione e ci si può andare a fare un elettrocardiogramma. E’ l’ostinata concentrazione su quello che sei, e nel caso di Woody Allen, su quello che vuoi fare. “La sera mi esibisco in un locale sul Sunset Boulevard, e passo la mattina davanti alla macchina da scrivere sfornando la mia prima sceneggiatura. Dunque, sto scrivendo la sceneggiatura e la signora delle pulizie annuncia: ‘Hanno sparato al presidente Kennedy. Pensano che sia morto’. Accendo la televisione e tutti i canali parlano della tragedia. Rimango a guardare per due minuti, elaboro l’informazione, spengo la televisione e torno alla mia sceneggiatura. Nulla poteva distrarmi”. Sparano a Kennedy e Woody Allen continua a scrivere. Mia Farrow per San Valentino gli manda cuori trafitti con un vero pugnale e lui continua a scrivere e a girare film. Lo accusa di avere molestato la figlia Dylan di sette anni e lui continua a scrivere – e a chiamare gli avvocati per prepararsi ad affrontare un processo che non si è nemmeno mai svolto perché “non è stata riscontrata alcuna prova credibile che il minore citato in questa denuncia sia stato vittima di abusi o maltrattamenti. Pertanto la denuncia è da considerarsi infondata”. Questo è accaduto nel 1993 (“Mariti e Mogli”, interpretato da Mia Farrow, è uscito nel 1992. Durante le riprese di “Mariti e Mogli”, Woody Allen, 56 anni, e Soon-Yi, 21, figli adottiva di Mia Farrow e André Previn, hanno iniziato una relazione, poi si sono sposati e hanno adottato due bambine, e adesso questo libro è dedicato a Soon-Yi, forse la prima vera odiatrice di Mia Farrow).

 

Non c’è mai stato un processo perché non si sono mai riscontrate prove credibili che giustificassero un processo. Eppure ci sono persone che giurano che non vedranno mai più “Manhattan”, perché è l’opera di un mostro, ci sono attori che dichiarano pubblicamente di essere molto pentiti di avere lavorato con Woody Allen (Timothée Cahalamet, protagonista di “Un giorno di pioggia a New York”, ha confessato alla sorella di Woody Allen di averlo fatto per avere più chance di vincere l’Oscar con “Chiamami col tuo nome”: non l’ha vinto), ci sono produttori e case editrici che si sono tirate indietro e che hanno annullato la distribuzione dei film, ma ci sono anche solo molte difficoltà mondane a pronunciare il nome: Woody Allen.

 

Il posto che fonda tutto se stesso sulla libertà di espressione ora chiede a tutti un’unica espressione: la condanna, l’orrore per il mostro

“Un giorno di pioggia a New York” è tuttora invedibile negli Stati Uniti (“Se faccio un passo indietro, devo dire che è stato molto divertente vedere tutta quella gente scalmanarsi per aiutare una squilibrata a realizzare la sua vendetta”). E quindi bisogna passare dalla magia e dall’irresistibile comicità del racconto sulla prima parte della vita di Woody Allen, l’ascesa, i film, gli amori, l’incontro con Diane Keaton, la fuga da casa Hemingway con un aereo privato per l’orrore di dividere il bagno con il padre di Mariel Hemingway, la nipote di Ernest (“io non voglio dividere il bagno con nessuno, neanche con il figlio di chi ha saputo celebrare così magnificamente la tauromachia”), all’età indiscutibilmente di mezzo, e forse di più, in cui un uomo che per amore di sé e per fissazione del lavoro si è tenuto sempre lontanissimo dai guai e ha dormito ogni notte nel suo letto, e sempre per fissazione, narcisismo, concentrazione, non si è mai guardato intorno, è inciampato nel guaio più grande: la vendetta assoluta della sua ex compagna, il tentativo di distruggere la sua immagine. Ma non solo: anche l’imbarazzo, almeno in pubblico, della città a cui Woody Allen ha dichiarato tutto il suo amore. L’ostilità del giornale, il New York Times, che ha letto ogni mattina con devozione. L’odio di suo figlio, che lo considera un molestatore e che invece adora incondizionatamente la mamma, adottatrice compulsiva che a volte rispediva i bambini indietro, e che lo ha sottoposto, da ragazzo, a un’operazione molto dolorosa per allungare le ossa delle gambe e guadagnare qualche centimetro. “Se vuoi avere successo in politica devi essere alto”. Mi sono convinta, leggendo questo libro, che Woody Allen abbia reagito a questo cataclisma allo stesso modo in cui reagì alla notizia dell’uccisione di Kennedy: continuando a scrivere. Ti frega quello che sei, ti salva quello che sei.

 

“Malgrado il fango e una disastrosa immagine pubblica, in realtà essere un paria presenta alcuni lati positivi. Per esempio, non ti chiedono in continuazione di partecipare a talk-show, scrivere frasi di elogio per un libro, salvare le balene, pronunciare discorsi di inizio anno. Hillary Clinton non ha voluto nemmeno accettare la donazione mia e di Soon-Yi per la sua campagna presidenziale, e non abbiamo potuto fare a meno di chiederci se con cinquemila dollari in più da spendere avrebbe potuto vincere in Pennsylvania, Michigan o Ohio”.

 

“Essere un paria ha i suoi lati positivi: non ti chiedono in continuazione di salvare le balene o di scrivere fascette per i libri”

L’uomo che in America ha colto più di tutti le idiosincrasie, le manie, le sciocchezze, le vanità e gli abissi degli esseri umani, ma mai con disprezzo, sempre con senso di appartenenza, è incappato, anima e corpo, nella più feroce e cieca ondata di correttezza morale e politica che si sia mai vista, proprio nel posto che fonda tutto se stesso sulla libertà di espressione e che ora chiede a tutti un’unica, identica espressione: la condanna, prima di tutto. L’orrore per il mostro. “A dire il vero, per uno che ha subìto la sua dose di attacchi da parte dei talebani del #MeToo, non mi sembra certo di avere sminuito l’altro sesso”. Woody Allen elenca ruoli femminili, attrici, stipendi, nomination all’Oscar per le sue attrici (che generalmente saluta con un cenno del capo all’inizio e alla fine della giornata di riprese, perché “non abbiamo assolutamente niente da dirci”, e la sua regola è: ingaggia i migliori e poi stanne alla larga – ma non l’ha applicata sempre), e chi cerca tutti i dettagli della follia di Mia Farrow, il cui fratello è in effetti in prigione per molestie sessuali sui minori, non resterà deluso. “So che state pensando che sono stato un vero fesso. In una situazione del genere, perché non ho tagliato la corda, non ho finto la mia morte o mi sono cercato qualcosa di meno emotivamente impegnativo? Non ho risposte. So solo che una personalità affascinante e due occhioni azzurri hanno sempre varato mille navi, come dice Christopher Marlowe”. E’ un po’ poco, ma forse è davvero tutto.

 

Non mi importa che un grande artista sia anche una persona meravigliosa, e non lo pretendo nemmeno da un artista mediocre: mi importano i suoi film, i suoi libri, la libertà di raccontare e di essere giudicato (e nel caso di Woody Allen, ringraziato) per le sue opere. “L’inghippo è che tutti coloro che discutono le opere lasciate dall’artista e ne elogiano la grandezza sono vivi e mangiano pastrami, mentre l’artista se ne sta in un’urna funeraria o sepolto nel Queens”, ha scritto Woody Allen. E anche questa volta, chi ha ragione?

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.