(foto Unsplash)

Un po' di film (in streaming) da recuperare

Mariarosa Mancuso

Contrordine compagni. Anche in Cina le sale resteranno sprangate fino a chissà quando. Mentre Hollywood spera di riaprire a metà maggio

Riaprono in Cina cinquecento cinema, annunciava Deadline qualche giorno fa (“Breaking Hollywood News Since 2006” è il motto che figura sotto la testata: tutte le notizie che contano per l’industria del cinema). Implicito sospiro di sollievo: ce l’hanno fatta a uscirne e ora la vita ricomincia, torneranno gli incassi che spesso risollevano le sorti di certi blockbuster poco apprezzati in patria. Pia illusione, è appena arrivato il “contrordine, compagni”: i cinema chiusi a gennaio restano sprangati fino a chissà quando (e comunque non guarderemo più le sale buie con gli stessi occhi, neanche quando riapriranno da noi, siamo sintonizzati a riconoscere e a sventare gli assembramenti).

 

Variety – che informa puntualmente sullo spettacolo dal 1905, prima il teatro e il vaudeville poi il cinema dal 1933 – viene recapitato agli abbonati “ovunque voi lavoriate” (in ufficio non va più nessuno neanche a Hollywood). Cerca di tenere il contro dei film rinviati o bloccati: un cinema è assembramento, il Festival di Cannes è assembramento, ma è assembramento anche un set. Nessun parrucchiere o truccatore riuscirà mai a lavorare a distanza di sicurezza. E’ altamente probabile che tornino in auge i film “mumblecore”: lui e lei in una stanza, in pigiama e spettinati, a mormorarsi mezze frasi, non sempre comprensibili (anche il fonico ha deciso di essere prudente, e si tiene lontano con il microfono). Per i film d’azione o i fantasy, il computer fornirà le comparse. 

 

Hollywood spera di riaprire a metà maggio. E intanto cerca di sbrogliare, almeno sulla carta, e questioni contrattuali in arrivo. Gli attori hanno un’agenda di impegni incastrati uno dopo l’altro, non è detto che le star disponibili adesso – per esempio Chris Pratt, scritturato per “Jurassic Word: Dominion” – lo sia anche tra qualche mese. Intanto, sentiamo che qualcuno è già al lavoro per una trama “dinosauri sconfitti da un virus, ecco perché sono spariti dalla faccia della terra”.

 

Qualcuno si porta avanti. George Miller, di anni 75, sta facendo via Skype i provini a Anya Taylor-Joy, per “Furiosa”, lo spin off di “Mad Max: Fury Road” da girarsi nel 2021. Dopo “Emma”, tratto da Jane Austen, la giovane attrice sarà l’imperatrice Furiosa da giovane, non ancora rapata a zero e con tutte e due le braccia (da grande era Charlize Theron).

 

Con lo stesso spirito propositivo, Variety recensisce film che hanno il 27 marzo come data d’uscita. La commedia “Banana Split” di Benjamin Kasulke, una teen movie con due ragazze protagoniste che un po’ somiglia a “Booksmart”, il divertentissimo film diretto da Olivia Wilde che da noi nessuno ha visto perché era intitolato “La rivincita delle sfigate”. E “The Uncorked” di Prentice Penny: un giovanotto di Memphis specializzato in barbecue che sogna di imparare l’arte del sommelier. Prendiamo nota, altro ora non si può fare. 


 

INSIDE OUT di Pete Doctor, voci italiane di Stella Musy, Melina Martello, Paolo Marchese (Disney +, anche in versione originale con le voci di Amy Poehler e Bill Hader) 

Sulle giravolte, la Pixar costruisce i suoi film migliori (quello che verrà, “Onward – Oltre la magia” non vanta una premessa altrettanto geniale). “Toy Story” immaginava le crisi abbandoniche dei giocattoli terrorizzati dalle feste di Natale e dai compleanni. “Monsters & Co” raccontava i babau come fifoni spaventati dai bambini. “Inside Out” racconta che nel cervello non abbiamo astratte circonvoluzioni o anonime sinapsi. Abbiamo personaggini – con spiccata personalità e abbigliamento adeguato – che stanno davanti a un quadro comandi, e se li contendono. Sono cinque: Gioia, Tristezza, Rabbia, Disgusto e Paura. Gioia ha dominato indisturbata le operazioni fin dalla nascita di Riley, ragazzina che gioca a hockey su ghiaccio e vive felice con i suoi genitori a Minneapolis. Lì la pizza è gustosa e grondante condimento. Non la pizza ai broccoli che vendono a San Francisco, dove Riley si è appena trasferita con i genitori. Disgusto, con il suo abitino verde acido, acchiappa i comandi rubandoli a Gioia, la serata è rovinata. Riley va a letto senza cena in un sacco a pelo buttato sul pavimento, il camion dei traslochi ha sbagliato città. Tristezza sgomita e conquista il suo momento. Siamo solo all’inizio di tante meraviglie. Con l’appoggio esterno di Charles Darwin e il suo studio “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”. Fotografie di gente arrabbiata, felice, disgustata, spaventata e triste, colta di sorpresa. Per la cronaca: le emozioni prese in considerazione dalla Pixar erano all’inizio 27, le ultime a scomparire dal cast furono Sorpresa, Fiducia, Orgoglio. Manca Curiosità, che ci assale quando pensiamo alle riunioni di sceneggiatura. Quando ancora John Lasseter, in camicia fantasia con frutta o pupazzetti, dirigeva la baracca.  
 

CRISI IN SEI SCENE di Woody Allen, con Elaine May, Rachel Brosnahan, (Amazon Prime)

 

Siamo andati a controllare. La serie girata da Woody Allen – in realtà, un film spezzettato in sei episodi da venti minuti – è ancora su Amazon, che non ha distribuito in Usa l’incantevole “Un giorno di pioggia a New York” e ha rotto il contratto con il regista (la causa, da 60 e rotti milioni di dollari, è stata composta in privato, non si fanno pettegolezzi neppure nell’autobiografia “A proposito di niente”, che la Nave di Teseo ha appena pubblicato in ebook). A cinque minuti dall’inizio di “Crisis in Six Scenes”, entra in scena Elaine May, psicoanalista a domicilio con i capelli cotonati anni sessanta. Chi ha visto “E’ ricca la sposo e l’ammazzo” (da lei scritto, diretto e recitato nel 1971) è già conquistato. Chi non lo ha visto, dovrebbe sbrigarsi a ricuperare uno dei film più divertenti di sempre, con l’ereditiera bruttina concupita da Walter Matthau in bolletta: “Questa donna non è solo goffa; è una minaccia per la civiltà occidentale come noi la conosciamo” (in versione originale, su You Tube). Qui appare nell’esercizio delle sue funzioni, terapeuta di una coppia in disaccordo su tutto – ristoranti, cani, sesso, mance – tranne che sul guacamole, entrambi lo odiano. Elaine May non si scompone e propone ai litigiosi: “Ripartiamo dal guacamole”. E’ la moglie di Woody Allen (vestito negli anni Sessanta come lo abbiamo visto sempre: calzoni di velluto e maglione). Nonché titolare di un grandioso club del libro dove signore con le scarpe comode e le calze elastiche discutono Kafka e lo scarafaggio. “Kafka ha ammazzato il padre e sposato la madre?” chiede una. “No, quello era Ercole” risponde l’altra. Prima di andare a letto, i Muntzinger – è il nome della coppia – si chiedono se hanno messo l’allarme e dove sono le pile dell’apparecchio acustico. Lui teme i ladri (e coglie l’occasione per confessare che le ha regalato uno smeraldo falso). Arriva Miley Cyrus, terrorista in cerca di un rifugio. Fa da pretesto per altre battute che arrivano a raffica. Se vi viene da dire “il solito Woody Allen”, c’è un barbiere sveglio, in una delle sei scene di crisi, che rintuzza le critiche: “Se scrivi una serie, non giocare al postmonderno, falla sensata, che piaccia a tutti, non importa se la riempi di cliché. Le serie valgono poco rispetto ai romanzi. E tu del resto non sei Salinger”. Anche per vedere Rachel Brosnahan, prima che diventasse “La fantastica signor Maisel”. 


DOGMAN di Matteo Garrone, con Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Gianluca Gobbi, Marcello Fonte (Netflix) 

 

Unico tra i registi italiani, Matteo Garrone usa le immagini per raccontare storie (l’eterno rivale Paolo Sorrentino quando va bene lustra le inquadrature e basta). Il metodo Garrone, applicato a una storia universale e potente come quella di “Dogman”, produce un film senza un minuto di troppo, né uno sbagliato. Posti squallidi al cinema ne abbiamo visti tanti, qui il direttore della fotografia Nicolai Brüel li spoglia di qualsiasi risvolto sociologico o cronachistico. Tra pozzanghere e neon tremolanti sul punto di spegnersi, un toelettatore di cani – che con un cane vive e con lui si spartisce i maccheroni – lima le unghie agli alani, fa la cresta ai barboncini prima del concorso di bellezza, all’occasione spaccia qualche bustina di droga. Avviso ai sensibili, a chi teme eccessi di violenza e ha a cuore la sorte del genere canino: sono gli umani che si fanno male in “Dogman”. Marcello Fonte è un attore magnifico, con la sua vocetta e gli occhi alla Buster Keaton (da cinema muto anche qualche gag con i cani). Il picchiatore del quartiere – l’attore è Edoardo Pesce, ora in tv nell’impossibile impresa di rifare Alberto Sordi – ha la stazza giusta per sovrastarlo e smuoverne le resistenze, trasmettendo terrore e compassione per il debole che non trova via d’uscita. Ai meriti di Matteo Garrone va aggiunta una direzione d’attori impeccabile. 


 

AVE CESARE di Ethan e Joel Coen, con Scarlett Johansson, George Clooney, Channing Tatum (noleggio o acquisto su Chili) 

O un cuore di pietra (cinematografico, vale a dire una totale indifferenza alla recitazione, alla messa in scena, alla scrittura). O un clamoroso disamore per la storia del cinema. Sono le uniche giustificazioni per non amare “Ave, Cesare!” avanzando riserve sulla trama e sull’importanza del film nella carriera dei Coen. Film sul cinema che fa coppia – per temi e luoghi e dibattito sul ruolo degli sceneggiatori a Hollywood – con “Barton Fink”, che la metteva giù più tragica. I fratelli Coen ricostruiscono gli anni Cinquanta hollywoodiani con perizia maniacale, spinta fino alla merenda per le comparse e all’assortimento di cartoleria preferito dai cattivi che rapiscono George Clooney – nel film, un attore con dentiera, gonnellino e calzari da centurione romano – e chiedono un riscatto firmandosi “The Future”. Lo hanno drogato sul set di “A Tale of the Christ”, pellicola messa in cantiere da uno studio che vuole darsi un tono e dimostrare che non pensa solo al divertimento delle masse. Lo spicciafaccende – potrebbe essere un’adeguata traduzione per “fixer”, un Mr Wolf che risolve problemi – si chiama Eddie Mannix. E’ realmente esistito, ma a partire dal nome i Coen lavorano di fantasia, ricostruendo l’industria che in uno studio girava un musical acquatico con Esther Williams (la ninfa degli antipodi è Scarlett Johansson furiosa e incinta, con il “culo di pesce” che la stringe in una morsa) e nello studio a fianco una commedia sofisticata in bianco e nero. Su quel set finisce un cowboy canterino, incapace di recitare con la pronuncia richiesta dal regista con sciarpetta Ralph Fiennes. Su un altro set, Channing Tatum balla il tip tap con molti ammicchi su come fanno i marinai. I Coen son così geniali che riescono a mettere questo film nella scia rabbinica di “A Serious Man”: c’è qualcuno lassù? e se c’è perché non si fa vivo più spesso?


 

JULIE & JULIA di Nora Ehpron, con Meryl Streep, Amy Adams, Stanley Tucci, Chris Messina (Netflix) 

Un giorno Woody Allen decise di diventare prendere lezioni di cucina, voleva far colpo sulle ragazze con escargot e tarte tatin. Telefonò alla cuoca più famosa d’America, Julia Child. La sua cucina – americana, si diceva nell’Italia di Carosello – è in mostra al Museo Smithsonian. Se l’era fatta costruire su misura: la chef che fece scoprire la cucina francese negli Stati Uniti era alta e non proprio esile. La regista Nora Ephron ottiene l’effetto affiancando a Meryl Streep l’attore Stanley Tucci, nella parte del consorte amatissimo che faceva l’ambasciatore e la portò a Parigi. Folgorata da una sogliola irrorata di burro color nocciola, frequenta la scuola di cucina con i maschi (alle femmine nella prima lezione insegnano a bollire le uova, i futuri cuochi Cordon Bleu tagliuzzano montagne di cipolle), e scrive “Mastering the Art of French Cooking”. Più che un libro di cucina, la sigla di “Dexter”, il serial killer che mette i propri istinti omicidi al servizio del bene. Insegna a disossare le anatre, a calare le aragoste vive nell’acqua bollente, a fiammeggiare il pollo, a ricavare gelatina dallo zampetto di maiale. Le anime sensibili possono limitarsi a brasare, tagliuzzare, farcire, ricucire, scottare, sbattere con polso energico, usare burro in quantità. La dichiarazione d’amore del marito a Julia Child recitava “sei il burro sul mio pane”, e “Passion. Ambition. Butter” è lo slogan sul manifesto originale del film. Impara la lezione una quasi trentenne aspirante romanziera che di giorno lavora in un call center e la sera prova a una a una le 542 ricette, tante ne contiene il ricettario di Julia Childs, partendo dal mitico boeuf bourguignon. Tratto da “due storie vere”, così come le racconta “Julie & Julia” di Julie Powell (da Rizzoli), il film è collocabile più sul versante chick lit che su quello “Il diavolo veste Prada”. Meryl Streep si diverte moltissimo a rifare le trasmissioni in bianco e nero che resero famosa la cuoca. Cade il pollo dalla teglia, lei lo rimette a posto con le mani e ammicca alla telecamera: “Tanto, in cucina, chi vi vede?”