A sinistra il presidente della Rai, Marcello Foa, a destra l'ad Fabrizio Salini (Foto Imagoeconomica)

Rai a lottizzazione unica, ecco come cambierà la tivù di stato

Giampaolo Di Mizio

Il Cda di viale Mazzini vota oggi la riforma sovranista. Più potere al governo e via libera ai grandi gruppi della produzione tv

Roma. Potrebbe chiamarsi “il grande inganno”, come la pellicola del 1990 diretta e interpretata da Jack Nicholson, questa riforma gialloverde della Rai che oggi verrà votata in consiglio di amministrazione. Una volta raggiunto l’accordo tra Cinque Stelle e Lega, ovvero tra l’amministratore delegato Fabrizio Salini e il presidente Marcello Foa, tutto dovrebbe andare liscio come sul velluto. In Cda, infatti, Salini può contare su 4 voti su 6: Beatrice Coletti, Giampaolo Rossi, Igor De Biasio e lo stesso Foa, mentre contro avrà la sola consigliera del Pd Rita Borioni. Riccardo Laganà, il consigliere votato dai dipendenti, è da tripla: sì, no, astensione. La maggioranza c’è per un piano industriale che, se da una parte cambia l’assetto dell’azienda, dall’altra non la libera dai suoi vizi capitali primo tra tutti il legame con la politica. Il Parlamento, tramite la Vigilanza Rai, e il governo, col ministero del Tesoro, restano l’editore di Viale Mazzini e ne decidono le sorti.

 

Spazio ai contenuti, razionalizzazione delle risorse, liberare la Rai da vecchi feudi e potentati sono le parole d’ordine su cui si è mosso Salini. E’ davvero così? La parte principale della riforma prevede la nascita delle nove direzioni di contenuto. Non si ragionerà più in termini di reti (Raiuno, Raidue, Raitre), ma di prodotto. Non più in verticale, ma in orizzontale, come si dice nelle aziende cool. Intrattenimento day time; intrattenimento prime time; cultura; fiction; cinema e serie tv; documentari; format; kids; approfondimento news. Queste le nove aree che realizzeranno i programmi da dividere sulle varie reti, che non avranno più direttori ma “channel manager”, così da contenere il numero delle poltrone come impone il contratto di servizio. In questo ambito decisivo sarà avere un buon direttore dei palinsesti che, come un vigile urbano, dovrà regolare il traffico e incanalare il giusto prodotto nel giusto canale. Secondo l’ad, avere un vertice più manageriale renderà l’azienda meno sensibile alle sirene della politica. Come se i manager venissero da Marte e non fossero nominati, in Rai, secondo i metodi della lottizzazione.

 

Voluta da Foa, poi, è la direzione news che avrà il compito di intervenire sui programmi d’informazione. Un po’ quello che prevedeva il piano di Carlo Verdelli, poi ritirato senza mai passare al vaglio del voto in Cda all’epoca di Campo Dall’Orto, con la differenza che questa nuova figura avrà più potere su linea e contenuti.

Ridimensionata, anche qui per intervento di Foa, la newsroom unica giornalistica prevista entro il 2023. “Così si annacqua l’identità delle testate e si mette a rischio il pluralismo”, è insorto, in Vigilanza, il centrodestra tornato unito per l’occasione. Così si è deciso per un pastrocchio. La newsroom (una sorta di grande redazione come il Tgcom di Mediaset) si occuperà della produzione di servizi su notizie “non rilevanti”, mentre ai tre Tg resterà il confezionamento di servizi sulle “notizie importanti”. A parte la solidarietà umana a quei poveracci chiamati a occuparsi di notizie di serie B, che succede quando, come spesso accade, una piccola notizia “monta” e col passare delle ore diventa importante? Ci si passa il testimone tra il giornalista di serie B e quello di serie A? Vai a sapere.

 

Ci sono poi altre chicche degne di nota. Come il canale istituzionale che, a parte il discorso di fine anno del capo dello Stato e qualche seduta del Parlamento, non è chiaro cosa debba trasmettere. O il famoso canale in inglese fortemente voluto da Monica Maggioni, che andrà sotto RaiCom, la consociata che commercializza i diritti e i prodotti Rai nel mondo, di cui Maggioni è diventata presidente. Per farlo, però, bisognerà cambiare lo statuto di RaiCom. Un mezzo pasticcio.

 

Positiva, ma dettata dai tagli (quest’anno l’extra gettito del canone in bolletta sarà convogliato altrove), è la razionalizzazione delle risorse che, secondo Salini, farà risparmiare alla tv pubblica 40 milioni nel 2020. Si taglierà un po’ dappertutto, dagli stipendi delle star alle produzioni esterne. “Basta far lavorare i soliti noti. Apriamo ai nuovi e valorizziamo le risorse interne”, dicono dal settimo piano. E qui sarà dura. Anzi pare proprio che questo sia l’aspetto più controverso di una riforma che in nessun modo restituisce capacità produttive a un’azienda che appalta tutto all’esterno. E continuerà a farlo. Il canone paga i tredicimila dipendenti Rai, ma tutte le trasmissioni sono ideate e girate da multinazionali come Endemol e Fremantle. L’investimento fatto con questa riforma sul management, sul corporate – e non su figure di prodotto – rivela le intenzioni occulte.

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