Carlo Verdelli (foto Imagoeconomica)

Ci avevamo tanto provato. Verdelli e i tre anni che non cambiarono la Rai

Guelfo Guelfi

Elzeviro per il libro su “Come la politica si è ripresa la Rai”

In estrema sintesi si può dire che la colpa morì fanciulla. Credevamo che bastasse quel che eravamo invece a farsi strada erano i colpi di frusta, i dolori reumatici, il pallore delle brutte sorprese. Dall’agosto del 2015 a quello del 2018 in viale Mazzini si è aperta e chiusa una parentesi. Ero tra quelli che aprirono, sono tra quelli che guardano a quel che accade e ne sentono la responsabilità. Senza esagerare, ma non fummo all’altezza della sfida. Di sfida si trattò, di nuovo paradigma, di fretta, fibbie, lacci  e brividi, un occhio alla lambretta.

 

Chi volesse ora potrebbe calarsi scorrendo la corda che Carlo Verdelli ha calato dentro la parentesi scrivendo per Feltrinelli un libro: “Roma non perdona. Come la politica si è ripresa la Rai” (219 pagine, 17 euro). Carlo scrive con garbo ma con fermezza, direbbe un commentatore serio ed io non sono né un commentatore, né serio, serio. Resto leggero, a volte allegro, spesso dispiaciuto ma non per questo disposto a regalare le mie ore alla disperazione. Nel suo libro lo scrive papale papale: alcuni, tra cui anch’io, credemmo che fosse arrivato il momento, credemmo che era possibile, prendemmo sul serio il mandato. Vai, cambia, palla a terra e pedalare. Sembrava un’impresa invece era una bufala. Va be’ ma noi ci incamminammo verso la media company, verso il tentativo di colmare il divario digitale, verso la portabilità dei contenuti televisivi, verso la ricchezza delle opzioni, verso la competizione interna e internazionale.

 

Partimmo da una mappa – “Another game of thrones”, The Economist –  da un obiettivo: digital first. Se posso permettermi era la risposta a una domanda che sembrava esplicita e forte. Il canone in bolletta – che paghino meno e che paghino tutti – la legge approvata il 26 gennaio del 2016, l’ad, il consiglio di amministrazione. Non crederci sarebbe stato come non credere ai nostri occhi e certe preoccupazioni sembravano persino vezzose. Secondo me lo spazio che si era aperto era tale e tanto che non ci credeva nessuno. Nemmeno Antonio Campo Dall’Orto che era e credo sia un meraviglioso Giulio Verne: ventimila leghe sotto e sopra i mari. RaiPlay, subito il piano per la riforma dell’informazione. A quella data, un anno prima del rovescio del referendum istituzionale, sembrava naturale correre, disporre, proporre, fare. Non mancava nemmeno il controvento. Il tetto ai compensi, i contratti con le star in scadenza, la crisi dei talk-show, le bizze di prime donne, le rendite di posizione, l’assetto di bilancio, la bravura e gentilezza di Agrusti e di tanti altri, i tiri di mortaio che diligentemente il fante Michele Anzaldi sparava due volte al giorno, prima dei pasti. Il mondo Rai è davvero tanta cosa eppure a quella data si sentiva percorso da un fremito, da una possibilità, da una voglia.

 

  

D’altra parte era quella a valle di un risultato elettorale pazzesco: quella volta lì il Pd con Renzi aveva volato, era maggio del 2014, appena un anno prima. Carlo Verdelli racconta come è arrivato, quando è arrivato, perché è arrivato. Antonio Campo Dall’Orto aveva scelto libero, da solo, per competenza. Aveva scelto per fare, non un amico. Che c’entra si può sempre diventare amici ma lì c’era la missione. Quella coppia allargata avrebbe fatto saltare il banco. Dall’Orto, Verdelli, Tagliavia, avrebbero fatto bene, in fretta e resa irraggiungibile la corsa del cavallo di viale Mazzini. Nel libro Verdelli racconta di un pinguino, della banda dei Biancoconigli, delle api di Vespa, di un Corvo, di Renato Rascel, del circo Barnum e del grande Mike. Aggiungo io che in questa storia c’è anche la selva e lo specchio delle mie brame, anzi ce ne sono due, uno stava al settimo piano di Viale Mazzini e l’altro al piano più in alto di Palazzo Chigi. Ed ora è l’ora di tornare a capo, provare ancora a fare i compiti. La ricreazione è abolita per decreto. Si farà più tardi, quando lo dice Rousseau.

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