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Il Foglio del weekwend

Una coppa di soave delirio

Andrea Minuz

Viaggio nella Grande Retorica che ha accompagnato la vittoria degli azzurri a Wembley. Da Bonucci a Chiellini, dal Mancio a Paola Ferrari. Personaggi e interpreti di un’epopea cominciata dopo l’eroica parata di Donnarumma

Il mito, la leggenda, l’epica, iniziano subito dopo la parata di Donnarumma. Una vittoria che è già docufiction di RaiUno, Grande Romanzo Italiano, racconto popolare condiviso, “l’unico per un popolo che non ha avuto un Balzac e un Flaubert e un Tolstoj” (Aldo Cazzullo). Una storia di riscatto, orgoglio, lacrime, forza del destino, Pil che sale, export che cresce. Tutti felici, tranne Travaglio e Il Fatto, peggio degli inglesi che si levano la medaglia del secondo posto (“il risultato dei festeggiamenti sarà devastante!”). Una squadra che è un “vaccino psicologico per tutta la Nazione” (il Giornale). Una festa che si salda al lutto nazionale per la Carrà in un continuum di cortei e abbracci, coi funerali che sconfinano nei matrimoni di Verratti e Bernardeschi a “Estate in diretta”. Le immagini che resteranno, i nuovi simboli patri, il ripristino dell’italianità più autentica, la cara, vecchia retorica, petto in fuori, frasi fatte, e poi subito lo scetticismo, lo sdegno: “Quanta retorica!”. Viaggio nel lessico della vittoria italiana e dei suoi strascichi.

 

11 luglio

Subito proclamata festa nazionale, come proposto già domenica da Fulvio Collovati. Si vinse in Spagna con Pertini al Bernabeu nel 1982, si è vinto a Wembley con Mattarella nello stesso giorno. La presa di coscienza della vittoria era già scritta nel destino, “nella potenza magica e arcana di un numero” (“non potevamo mortificare una data simile”, scrive la “Gazzetta”). Corsi e ricorsi. L’11 luglio come il 4 novembre, il 25 aprile, il 2 giugno. Un’altra ricorrenza nel già complicato assembramento di feste e commemorazioni italiane, per non dare troppi punti di riferimento a scuola. Data utile e altamente strategica come ponte estivo (si comincia benissimo, il prossimo è un lunedì). “Importiamo tante feste dall’estero, penso per esempio a Halloween, questa invece sarebbe davvero da introdurre”, dice Corrado Tedeschi a “Estate in Diretta”, mentre sfilano le immagini del pullman della Nazionale in trionfo a via del Corso. All’affastellamento di feste segue quello ormai degli inni. Si canti “Bella Ciao” dopo l’inno di Mameli il 25 aprile. Si aggiungano il “Tuca-Tuca” e “Notti magiche” l’11 luglio. Busti degli azzurri al Gianicolo, sfilata della squadra ai Fori Imperiali, il generale Figliuolo in carro armato, i calciatori con le loro fuoriserie, drappo tricolore sul cofano, braccio fuori dal finestrino.

 

Abbracci

Ritornano le “carrambate” in prima serata e anche negli editoriali: “I meravigliosi abbracci che, speriamo senza conseguenze sanitarie, ci siamo scambiati domenica notte non sono frutto del caso”, scrive Veltroni sul Corriere, “Roberto e Luca si sono scelti, per attraversare giorni, mesi, anni, restando uniti”. E dopo tre giorni di fila di “Techetecheté” dedicati alla Carrà, ecco una profetica puntata di “Carramba”: c’è un giovane Mancini ospite e lei che gli augura grandi, futuri trionfi in azzurro. Madrid le intitolerà una piazza. Qui si punta alla beatificazione.

 

Albione

“Vincere in terra di Albione dà ancora più soddisfazione”, spiega Tronchetti Provera, trovando anche la rima, mentre illustra in dettaglio tutta la spinta economica della vittoria (dodici miliardi, secondo Coldiretti, solo quattro per Brand Finance). La patria del calcio, del fairplay, del liberalismo e di “The Crown” diventa il capro espiatorio perfetto. Nella geopolitica del calcio la squadra di Sterling e Kane è in effetti il cattivo ideale. Escono dall’Euro, perdono a Wembley convinti di farcela, si sfilano la medaglia, si sfogano sui calciatori neri dopo tutto quell’inginocchiarsi (e neanche un inchino a Mattarella del principe William! Affronto che manda Capezzone su tutte le furie). Parte un rigurgito antinglese come quando c’era lui: non più vignette sulla perfida Albione, caricature di Churchill, versi in rima da imparare a scuola da balilla (“sanzionami questo / amica rapace / lo so che ti piace  / ma non te lo do”), bensì perfidi e spietati meme sul piccolo George (i bambini ricchi non appartengono alle categorie protette). “Il mio vecchio odio fiumano per l’Inghilterra di Jonathan Swift rifiammeggia”, scriveva il Vate a Mussolini, mentre quello si apprestava a ribattezzare “chiave-morsa” l’ordoliberale “chiave inglese” (e noi cambiamo nome ai jack audio “maschio” e “femmina”). Diventiamo tutti meno “british”, compresi loro. E ogni impresa sportiva ci riporta al solito Flaiano: “Se i popoli si conoscessero meglio, si odierebbero di più”.

 

Bellezza

“Abbiamo esplorato e declinato la bellezza nel suo senso più ampio”, dice Gabriele Gavrina della Fgci. E’ un’ingordigia di bellezza teorica, pratica, contemplativa, autobiografica. La “sconfinata bellezza delle Marche”, dove Mancini, “figlio di un falegname di Jesi, inseguiva sin da piccolo la bellezza dell’imponderabile”. Così recita il sito di Poste Italiane (col Mancio testimonial) all’indomani della vittoria: “Elegante, raffinato, il suo ciuffo bianco come Aldo Moro, mai una goccia di sudore pure quando giocava e cercava soluzioni magiche… Mancini incarna il valore più importante di Poste Italiane e la sua identità, quello dell’aiuto da dare agli altri, del supporto continuo in qualsiasi cosa tu debba fare”. (Mi scusi, per vincere gli europei? Si accomodi, prenda il numeretto). L’estetica di Mancini, ormai più commentata di quella di Croce e Gentile. La bellezza come missione: “Quest’Italia destinata solo a gol belli” (Severgnini). Una squadra che gioca un calcio non più “utilitaristico” ma riflessivo, disinteressato, finalmente liberato dall’immediatezza del risultato: “La finale non basta”, dice il Mancio, “dobbiamo divertirci”. Solo gol bellissimi, per esecuzione o tigna, come quello di Bonucci agli inglesi. Si poteva anche perdere ai rigori, si sarebbe comunque perso inseguendo la bellezza.

 

Bordo campo

L’inviato a bordo campo, per esempio Alessandro Antinelli della Rai, che racconta le “sensazioni della panchina”, gli “umori” del Mister e dei “ragazzi”. Figura impalpabile e imprescindibile di ogni torneo calcistico, come il cronometrista d’applausi a Cannes (“Undici minuti di applausi per Nanni Moretti”, non cinque o dieci: undici).

 

Catenaccio

Non c’è più. Sostituito dalla “bellezza” (vedi sopra).

 

Fasce

Soffrire sulle fasce, avere problemi sulle fasce, essere deboli nelle fasce. E’ il commento tecnico a portata di tutti (ormai anche delle donne, direbbe Collovati). Ricordarsene ai Mondiali. Dirlo sempre con gran convinzione nelle fasi di stallo della partita, specificando magari su quale delle due si soffre di più.

 

Gruppo

Vittoria del gruppo o merito dei singoli? Gioco di squadra o formidabili giocate di Chiesa e parate eroiche di Donnarumma? Prova d’orchestra o bacchetta del Direttore? Gli europei rilanciano il solito dilemma, l’individuo o lo Stato, il collettivismo o il mercato. Prevale dopo Wembley l’ipotesi comunitaria, statalista e sudamericana di Papa Francesco, che si prende anche la coppa America con l’Argentina (“Ha vinto il gioco di squadra”). Si media con Mario Draghi, rispettando il concordato: “Dalla Nazionale grandi individualità e spirito di squadra”.

 

Madri

Ci sarebbe anche la prima coppa padre-figlio che fa gol all’europeo, ma “le mamme sono in primo piano in questa finale” (Tg1). Quella di Chiesa, subito videochiamata appena finita la partita. Quella di Florenzi ringraziata in diretta, quella di Berrettini sugli spalti a Wimbledon, immortalata mentre prende le goccine (e quella di Renzi, assolta). Mamme tigri oppure mamme coach, come la mamma di Jorginho che palleggia col figlio. Possibile che questi italiani appena vincono chiamino subito la mamma? Non la moglie, né la fidanzata o l’amante, sempre la mamma. Spaccature nel paese, rigurgiti di familismo amorale, antropologia nazionale passata al setaccio, assordante silenzio di Michela Murgia. Generale indignazione femminile. Mamme che odiano le mamme.

 

Paola Ferrari

Icona, madrina, vestale del calcio raccontato dal Servizio Pubblico, sempre identico a sé stesso. Gli schemi di Mancini evolvono, la Rai è ferma al catenaccio. Lei sente subito il peso, l’emozione, la tensione, la responsabilità di questi europei: “Forza all’Italia e viva Alitalia”, dice chiudendo il collegamento nella prima partita con la Turchia. Inventa nuovi calciatori per il fantacalcio, “Homeless”, “Varenne”, “Mappé”, “Pobgall” e riesce a far sembrare quasi “british” l’“eccstratàim” di Varriale. Anche Djokovic diventa Diorkovic. Dopo la partita col Belgio si lancia in una lettura robotica e integrale del comunicato sindacale del cdr di Rai Sport, con gli strombazzamenti e i clacson in sottofondo (anche i sindacati cavalcano le vittorie azzurre). Nel giorno del lutto nazionale per la Carrà sfodera un guinzaglio di lustrini verde al collo, nella finale di Wembley un mantello nero con le ali che fa pendant col trench di Mattarella. C’è l’Italia della Bellezza e quella della commedia sexy anni Settanta, con le sue mutande al centro di un dibattito anche internazionale. Cose che resteranno. Più che “Basic Instinct”, un’acrobazia di gamba che è un omaggio ai vecchi cult di Lino Banfi, emblema e mascotte degli europei italiani, “L’insegnante viene a casa”, “La liceale nella classe dei ripetenti”, “La soldatessa alle grandi manovre”.

 

Pullman

Se scoperto, segno inequivocabile di sbruffonaggine italiana, come il colletto della “polo” quand’è tirato su. Non può esserci Grande Romanzo Italiano, tanto più della vittoria, senza prefetti, retroscena, veleni delle procure, trattative occulte, scaricabarile di ogni responsabilità. Forse anche una sosta sospetta del pullman (ancora chiuso) in Autogrill: Chi era l’uomo dei servizi che parlava fitto con Chiellini? Puntata di “Report”.

 

Riscatto

“La vittoria degli azzurri sancisce o no la rinascita dell’Italia? Gli europei sono o no il simbolo del riscatto del paese?”. Dibattito aperto, giro di talk-show, fuori i virologi, dentro Ciccio Graziani, in collegamento da un campo di calcetto da Nicola Porro. Una vittoria che sì, libera energie e risorse, ma innesca anche uno sperpero di carattere nazionale, vizi tipici, ideologia italiana e “tutto questo è già accaduto e non è mai cambiato niente”. La metafora politica è fatale, sempre rischiosa: “Io mi sento male”, dice Lucia Annunziata a “Stasera Italia”, “perché dentro questo entusiasmo ci vedo la paura degli italiani di essere sempre gli ultimi della fila”. Ah serva Italia! Di dolore ostello.

 

Telecronaca

C’è l’esuberanza sin troppo adrenalinica del modello Sky. C’è il grigiore del modello Rai. C’è la telecronaca di Katia Serra, altra, portentosa “metafora di riscatto”, dopo gli incresciosi fatti della Nazionale cantanti. Ha parlato troppo poco. Non la fanno parlare. Poteva parlare di più. Ha parlato solo perché Rimedio s’è beccato il Covid. Concita De Gregorio la vuole subito nel suo nuovo talk. Si gioca la carta “lotta al patriarcato”: “Dopo la pubblicità Katia Serra ci rivelerà tutto quello che non le hanno fatto dire in Rai”. Finisce la pubblicità, ma lei, Katia Serra, non sa bene cosa dire. “Me ne dica almeno una”, incalza Concita, “perché io soffrivo moltissimo quella sera, perché la interrompevano continuamente, è sensazione che conosco molto bene”. E Katia Serra niente, prende tempo, gira intorno alla domanda, come gli studenti impreparati all’esame. “Va bene ma c’è qualcosa che voleva dire e non le hanno fatto dire?”. “Veramente no, volevo soprattutto ringraziare tutti quelli che mi hanno ascoltato, sono stata davvero molto felice per questa opportunità”. La sudditanza psicologica del patriarcato.

 

Tetto d’Europa

Son tutti europeisti sul tetto d’Europa.

 

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