Le scorie della finale

L'Inghilterra delle buone cause si disintegra dopo la sconfitta

Daniele Raineri

La squadra inglese modello di alti ideali scatena un’ondata di insulti razzisti e abusi

Avevamo capito che la nazionale inglese fosse un modello di avanzamento dei diritti civili. Jordan Henderson che segna con le stringhe arcobaleno per solidarietà con la comunità Lgbtq+. Harry Kane che accetta la richiesta da parte della Football Association inglese di indossare una fascia da capitano arcobaleno per rafforzare il messaggio lanciato da Manuel Neuer, portiere e capitano della squadra tedesca, che ha indossato la stessa fascia per un mese in onore del Pride. La campagna pubblicitaria Football Moves People del museo dell’Immigrazione di Londra, che era basata su un concetto semplice: la nazionale inglese è forte grazie ai migranti, se non ci fossero i migranti sarebbe più debole e piena di buchi e la stessa cosa vale in generale per la società (il museo dell’Immigrazione è un istituto che ha per scopo quello di mostrare come l’Inghilterra di oggi sia il risultato di diversi strati di migrazioni di successo). L’allenatore, Gareth Southgate, che appoggia e incoraggia. 


Un mese fa ha scritto una lettera aperta e ha spiegato che tutte queste campagne fanno parte di un piano deliberato perché i giocatori di calcio della nazionale sono così rappresentativi e hanno una tale capacità di veicolare idee che “fare soltanto i calciatori” sarebbe uno spreco immenso: c’è un’occasione imperdibile per lanciare messaggi a tutti gli inglesi. Nel frattempo la Nazionale italiana che non sapeva bene se inginocchiarsi oppure no contro il razzismo prima delle partite – cosa che gli inglesi hanno fatto fin dall’inizio – sembrava incerta, imbarazzante e imbarazzata. 

 

Poi è arrivata la realtà. Gli inglesi hanno perso la finale e la Nazionale ha fatto da detonatore per gli istinti più bassi del paese. Il livello di attacchi razzisti contro i tre calciatori che hanno sbagliato i rigori è così alto che il primo ministro Boris Johnson e il principe William –  che è anche il capo della Football Association – hanno dovuto fare comunicati pubblici di condanna per tentare di far tornare la calma. “Siamo disgustati che alcuni della nostra squadra – che hanno dato tutto per la maglia quest’estate – abbiano subìto abusi e discriminazioni online dopo la partita di questa sera”, ha scritto l’account della Nazionale inglese. Anche il ministro dell’Interno, Priti Patel, che aveva criticato “il gesto politico” dei giocatori di inginocchiarsi prima delle partite, ha detto che gli attacchi sono “disgustosi”. La polizia annuncia che aprirà un’indagine.

 

Il murales che a Manchester celebra uno dei tre giocatori, Marcus Rashford, perché durante la pandemia aveva lanciato una campagna di enorme successo per dare da mangiare ai bambini poveri (ed era riuscito a far arrivare la raccolta fondi fino ai due milioni di pasti al giorno), è stato sfigurato con scritte razziste e adesso la metà inferiore è coperta. Il clima è violento. La polizia ha arrestato cinquanta tifosi che dopo la partita andavano a caccia di italiani e diciannove agenti sono stati feriti negli scontri. E ieri circolavano di nuovo i dati sugli abusi domestici di uno studio fatto nel 2014, che mostra che ogni volta che la Nazionale inglese gioca aumentano le violenze in casa legate all’alcol: del 38 per cento quando perde, del 21 per cento quanto vince, e un commento della London School of Economics definisce il rapporto “causale”. La nazionale catalizza lati molto brutti della massa.

 

E quindi cosa dobbiamo pensare dell’idea dell’allenatore Southgate, della nazionale come sponsor di un nuovo modo di pensare mentre invece fuori i tifosi ubriachi si infilano candelotti fumogeni fra i glutei e la folla un po’ ruggisce e un po’ filma? Può essere che la campagna via calciatori non funzioni perché ancora troppo debole o troppo nuova. Può essere che non funzioni perché non convince e non suona genuina. Può essere che non funzioni soltanto su una minoranza di irriducibili. Ma il dato è che non funziona

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)