Sasha Zavarov (foto LaPresse)

il foglio sportivo

Zavarov e il disarmo della speranza

Enrico Brizzi

L’epopea della Dinamo Kiev negli anni del giovane e malinconico Sasha. Quando l’Unione sovietica sembra invincibile ed eterna, ma tutto sta per crollare. Il flop del Mondiale ’86 e l’attesa di potere giocare a Ovest 

Pubblichiamo la seconda di quattro puntate firmate dallo scrittore Enrico Brizzi che ripercorrono la diaspora dei giocatori sovietici ai tempi della Perestrojka, quando l’occidente sembrava facile terra di conquista per giocatori considerati fenomeni in patria. Il racconto segue soprattutto le vicende di Aleksandr “Sasha” Zavarov, il peggior numero 10 della storia della Juventus.

 

Qui trovate la prima puntata

 


  

Quando il mondo si accorge della Dinamo Kiev, Sasha Zavarov ha quattordici anni, e vive con papà, mamma e due fratelli nel distretto del Donbass, Repubblica socialista sovietica dell’Ucraina. La città in cui risiedono, fondata sul finire del Settecento da un imprenditore britannico che portava il curioso nome di Charles Gascoigne, è votata all’industria siderurgica e per buona parte della sua storia è stata nota come Lugansk; da qualche tempo, però, è stata ribattezzata Voroshilovgrad in onore del suo cittadino più illustre, l’eroe dell’Unione Sovietica maresciallo Kliment Voroshilov. Né ai signori Zavarov, entrambi operai, né agli altri due ragazzi importa granché di sport. Sasha, invece, è impegnato nella trafila giovanile fra i Bianconeri della squadra cittadina, lo Zarja; considera il calcio una scienza e una passione, e vi si applica con quieto rigore, lo stesso che riversa nella lettura dei grandi romanzi e nelle competizioni scacchistiche. In quest’ultima disciplina è lontano dall’eccellenza di un Anatolij Karpov, il giovane mingherlino che in quello stesso 1975 detronizza Bobby Fischer laureandosi campione del mondo. Nel futbol, invece, il suo talento e la visione di gioco fuori dal comune non passano inosservati: nel 1979 Zavarov viene chiamato a vestire la gloriosa maglia rossa con la sigla “CCCP” ricamata sul petto per giocare i Mondiali Under 20, una manifestazione in cui i giovani sovietici si arrendono solo in finale all’Argentina d’un promettentissimo Diego Armando Maradona.

 


Rileggi la prima puntata

 

Subito dopo gli tocca il servizio militare, due anni lontano dalla famiglia e dai piaceri semplici della vita domestica; l’incubo di essere aggregato alla 40a armata impegnata contro i mujaheddin in Afghanistan, perlomeno, si stempera grazie all’arruolamento nella compagnia di sportivi che fornisce i giocatori allo SKA di Rostov, una delle tante formazioni legate all’Armata Rossa. Sulle rive del Don, Sasha ottiene la maglia numero 9 e prova un ampio ventaglio di emozioni sportive: il primo anno la squadra retrocede in seconda serie, in compenso guadagna la finale del Kubok SSSR, la Coppa dell’URSS, sconfiggendo davanti agli 80.000 dello stadio Lenin il più quotato Spartak Mosca. Il successo fa sì che, nella stagione successiva, il ragazzo possa cimentarsi coi suoi compagni nella Coppa delle Coppe: l’avventura si chiude agli ottavi contro l’Eintracht di Francoforte, ma ormai Sasha è entrato nei radar di Valerij Lobanovsky. Quando il suo servizio militare è agli sgoccioli, il Colonnello gli propone di unirsi alla Dinamo, un’offerta tanto lusinghiera quanto destabilizzante per un giovane tranquillo che vuole soltanto tornare a casa propria, dai genitori e dai fratelli, divenuti nel frattempo metalmeccanico e conducente d’autobus. “Molto onorato, compagno Colonnello”, sibila Sasha, facendosi ancor più piccolo del suo metro e settanta. “Il fatto è che credo di non essere degno di vestire la maglia della Dinamo”. La verità è che a Kiev teme di andare a perdersi fra le riserve: meglio titolare in Pervaja liga, la Serie B sovietica, nell’oscuro Zarja, confortato dalla vicinanza della famiglia, che numero fra i numeri nell’organizzatissimo laboratorio della Dinamo. Col senno di poi, molti vedranno in quel rifiuto il primo segno d’una imperdonabile mancanza d’ambizione, un’accusa che gli sarà rinfacciata più volte nel prosieguo della sua carriera. Dopo una stagione in cui gioca da titolare inamovibile andando a segno dieci volte, il Colonnello torna alla carica. Non può garantirgli un posto da titolare – con lui scende in campo chi è più in forma – ma assicura a Sasha che ha tutti i numeri per giocarsela alla pari con i colleghi di ruolo. A questo punto il giovane di Lugansk accetta. Forse non è del tutto privo di ambizione, come sosterranno i suoi detrattori; certo, da buon conoscitore delle patrie vicende calcistiche, ha ben presente quanto possa costare caro il rifiuto di indossare la casacca d’una squadra che dipende dal ministero degli Interni.

  


Valeriy Lobanovskyi (foto tratta da Wikpedia)


 

Nel 1983, quando Sasha approda alla cibernetica corte del Colonnello, il “Meritevole” Oleg Blochin è ancora il leader dello spogliatoio, e la Dinamo Kiev rappresenta l’ossatura della Nazionale sovietica, dove Blochin gioca insieme ai senatori del club ucraino: il difensore centrale Sergei Baltacha, il terzino Bessonov, il laterale Demianenko, i centrocampisti Andrey Bal e Leonid Buryak, un giocatore d’origini ebraiche cui Lobanovsky demanda il compito di metronomo del centrocampo. Al Cremlino regna l’ex direttore del KGB Yuri Andropov, un canuto dirigente di cui non si conoscono con certezza neppure il luogo e la data di nascita, ma solo ch’è deciso a combattere con rigore le piaghe della corruzione, dell’alcolismo e della stravaganza – un capo d’imputazione tanto vago quanto difficile da respingere che è già costato il posto a parecchi funzionari di Partito, fra i quali Ekaterina Furtseva, la persecutrice di Streltsov, caduta in disgrazia dopo tre lustri da ministro della Cultura e finita ufficialmente suicida.

  

La complicata e impopolare guerra in Afghanistan richiede un continuo ricambio di coscritti, e la Pravda riferisce con incrollabile certezza che, in caso d’attacco da parte del blocco capitalista, i missili nucleari SS-20 saranno in grado di polverizzare in poche ore l’intera Europa occidentale. Quel mondo grandiosamente asfittico sembra destinato ad andare avanti per sempre. Nessuno ancora può sospettare che genere di cambiamento sia in agguato, né sino a che punto si dimostrerà repentino e irreversibile. Non certo Sasha Zavarov, che a ventun anni ha ben altri pensieri per la testa: tenere il passo dei compagni nelle tre estenuanti sessioni d’allenamento giornaliere, mandare a memoria gli elaborati e brucianti schemi studiati al computer da Lobanovsky, fare di tutto per mettersi in luce in un ruolo che, a seconda delle fasi del gioco, riassume le prerogative d’un regista, d’una seconda punta e d’un fantasista. A uno così, in Occidente, non potrebbe toccare che il numero 10, come Zico, Maradona e Michel Platini, che quell’anno vince il Pallone d’oro. Ma siamo a Kiev, e il Colonnello gli lascia sulle spalle il 9. Nel giro di poche stagioni, il malinconico Sasha diventa grande, in tutti i sensi: si rassegna a vivere lontano dalla famiglia d’origine, sposa Olga, diventa padre d’un piccolo cui viene imposto il suo stesso nome, ma soprattutto impara quanto sia faticoso vincere.

 

Nella sua prima campagna con la Dinamo, la squadra non va oltre il quarto posto in campionato, mentre in Coppa si arrende già agli ottavi contro i “soldati” del CSKA. Durante l’estate, Sasha si distrae seguendo gli Europei disputati in Francia: vincono i Bleus di casa, guidati da uno straordinario Platini, che per sovrammercato torna ad aggiudicarsi il Pallone d’oro. Quando impara quanto guadagna il Francese, Sasha per poco non si sente male: nell’URSS non basterebbe giocare cento anni. L’anno successivo, in compenso, gli sforzi della banda Lobanovsky vengono premiati dal successo: a dar man forte a Zavarov e al vecchio Blochin arriva dal Chernomorets di Odessa un rifinitore di gran classe, piccolo di taglia quanto Sasha, appassionato di lirica e già stempiato: è Igor Belanov. Velocissimo sul breve ma poco resistente, al suo primo allenamento con la Dinamo quasi sviene: durante i rituali giri di pista, il resto dello squadra lo stacca, arriva a doppiarlo, prende altro vantaggio e lo supera un’altra volta. Il novellino è desolato, annuncia che tornerà a Odessa col primo treno, ma il Colonnello lo trattiene e dispone per lui un programma speciale che lo tira a lucido e gli disegna un certo numero di schemi su misura. A innescarne gli inserimenti sottoporta sarà quasi sempre Sasha. Lui e Igor imparano a conoscersi, nonostante le evidenti differenze di temperamento – Zavarov più malinconico ed equilibrato, Belanov più fumantino – e i gusti musicali decisamente incompatibili: Sasha va matto per la musica di Al Bano e Romina e dei Ricchi e poveri, mentre l’altro si diletta con le arie verdiane del Nabucco e del Simon Boccanegra, l’“opera russa” di Verdi, rappresentata per la prima volta a Leningrado quando ancora c’erano gli Zar e la città si chiamava San Pietroburgo. Più che un’amicizia, la loro è un’alleanza, in ogni caso la cooperazione fra i due giova grandemente alla squadra, che si aggiudica tanto il titolo in campionato quanto la Kubok SSSR.

 

In primavera, la Juventus di Platini conquista la Coppa dei Campioni nella notte maledetta dell’Heysel, e “Le Roi” va a vincere il suo terzo Pallone d’oro consecutivo. È l’apice della sua carriera, che presto sarà compromessa dalla pubalgia; Sasha non ha idea che un giorno toccherà proprio a lui provare a sostituirlo. In quel 1985 tanto Sasha quanto il nuovo arrivato Belanov debuttano in Nazionale, accanto a un buon numero di compagni: Baltacha e Demianenko, Kuznetsov e Bal, ma soprattutto il mostro sacro Oleg Blochin, che ormai va per la centesima convocazione e ha già segnato 40 gol. La Sbornaja a trazione ucraina annovera fra i suoi membri giocatori che arrivano da ogni angolo dell’Unione. C’è il fortissimo portiere dello Spartak Rinat Dasaev.

 

 

Nativo di Astrakhan, nel delta del Volga, i cui lineamenti esotici e la folta chioma corvina tradiscono le origini tartare; ritenuto uno dei più forti estremi difensori del pianeta, l’erede del mitico Jascin pratica con discrezione la religione musulmana per non contravvenire al dogma dell’ateismo di Stato, e ha incassato con una scrollata di spalle l’ufficiosa elezione fra i giocatori più belli del torneo in occasione dei Mondiali di Spagna. Poi ci sono il possente e baffuto difensore georgiano Alexandre Chivadze, pilastro della Dinamo Tbilisi che nel 1981 è arrivata a conquistare la Coppa delle Coppe, e lo smilzo bielorusso Sergei Aleinikov, portacolori della Dinamo Minsk che l’anno successivo ha vinto il campionato. Ormai incombono i Mondiali messicani, e il girone di qualificazione si dimostra ostico: l’URSS parte fra gli stenti, chiudendo il primo giro d’incontri con due pareggi e altrettante sconfitte, ma recupera alla grande nel secondo turno. La vittoria della svolta è quella allo stadio Lenin di Mosca contro la Danimarca di Preben Larsen-Elkjaer e Michael Laudrup, capolista del raggruppamento; a segnare la rete decisiva un giovane attaccante ucraino in forza al Dnepr di Dnepropetrovsk, il longilineo ed elegante Oleg Protasov. Inutile dire che il Colonnello mette subito gli occhi su di lui per rinforzare ulteriormente la sua Dinamo.

 

 

Il campionato di Vysšaja Liga, che tradizionalmente si tiene fra marzo e novembre per sfuggire ai rigori dell’inverno, nel 1986 conoscerà una lunga pausa estiva per consentire ai giocatori di partecipare ai Mondiali. Se già questa formula può apparire bizzarra agli occhi occidentali, che dire della “regola anti-pareggi”? Ogni club ne ha a disposizione un massimo di dieci, oltre i quali i match nulli produrranno zero punti, come se fossero stati persi da entrambe le squadre. Potrebbe sembrare una buona idea per garantire un finale di campionato più movimentato, ma nell’URSS ormai guidata da Gorbaciov vale ancora la massima per cui alcuni animali sono più uguali degli altri: quasi incredibilmente, la norma non vale per i campioni in carica della Dinamo Kiev, i cui pareggi produrranno sempre e comunque un punto in classifica. È un vantaggio che si rivelerà decisivo. La “squadra-laboratorio”, infatti, chiuderà il campionato con un ruolino di marcia identico a quello dello Spartak Mosca: quattordici successi, cinque sconfitte e undici match nulli. Identica anche la differenza reti. Ma l’esenzione dalla “regola anti-pareggi” farà sì che la Dinamo ottenga un punto in più in classifica, bastevole a confermarla campione dell’Unione Sovietica. Ben altro valore ha la campagna europea del club. Lo sfasamento dei calendari fa sì che la Dinamo partecipi alla Coppa delle Coppe, il trofeo che nel decennio precedente aveva portato la banda Lobanowsky al centro della ribalta internazionale. Sasha Zavarov e compagni partono fortissimo: ribaltano con un 4-1 nel ritorno la sfida contro l’Utrecht, poi fanno fuori i Rumeni dell’Universitatea Craiova e umiliano il Rapid Vienna rifilandogli quattro reti in Austria e cinque a Kiev. In semifinale si liberano agevolmente del Dukla Praga, e il 2 maggio, a Lione, si giocano la “Coppa dalle piccole orecchie” contro i colchoneros dell’Atletico Madrid. La Dinamo fornisce una dimostrazione esemplare di compattezza e potenza, giocando a velocità doppia rispetto agli Spagnoli: dopo appena cinque minuti il nostro Sasha Zavarov infila per la prima volta l’esperto portiere argentino dell’Atletico, l’ex campione del mondo Ubaldo Fillol. Ora che gli spagnoli sono costretti a inseguire, la Dinamo lascia l’iniziativa all’avversario per colpirlo con ripartenze velocissime. Per lungo tempo non arrivano altri gol, ma l’Atletico arriva alle battute finali del match in riserva, mentre gli Ucraini sono ancora in palla e possono divertirsi a giocare come il gatto col topo: il “Meritevole maestro” Blochin chiude il match all’80’, e a due minuti dal triplice fischio Vadim Evtuschenko, da poco subentrato al nostro Sasha, sigilla la vittoria con la rete del 3-0. Per la banda Lobanowsky, capace di ripetersi in Europa a undici anni di distanza dalla prima volta, è la consacrazione definitiva; per i giovani come Zavarov e Igor Belanov, l’opportunità unica di vivere in prima persona un momento glorioso identico a quello che li aveva fatti sognare da adolescenti, quando ancora la carriera da calciatore professionista era un miraggio.

 

 

Esattamente un mese dopo, l’URSS allenata dal Colonnello – “una Dinamo Kiev indebolita da elementi esterni”, secondo un adagio popolare fra i tifosi ucraini – debutta ai Mondiali messicani. La prima avversaria è l’Ungheria, una squadra solida che ha fatto molto parlare di sé sconfiggendo il Brasile in una recente amichevole. Si gioca a Irapuato, a 300 chilometri abbondanti dalla capitale, e le immagini televisive mostrano ampie porzioni di tribune deserte: solo un pugno di tifosi hanno ottenuto il permesso per viaggiare al seguito delle Nazionali, e scarsi sono anche i locali che comprano il biglietto, a riprova del modesto appeal globale esercitato dal calcio est-Europeo.

 

I 16.500 presenti, tuttavia, non rimpiangono l’esperienza: la Sbornaja dà vita a una delle prove di forza più impressionanti mai viste sulla massima ribalta planetaria, correndo e attaccando senza sosta per tutto l’incontro, che si chiude col punteggio tennistico di 6-0.

 

 

Nel secondo turno, è in programma il big match del girone contro la Francia di Michel Platini, ormai giunto al canto del cigno. Sasha non vede l’ora di misurarsi con lui, il tre volte Pallone d’oro, il vincitore della Coppa dei Campioni, il capitano della Nazionale francese campione d’Europa in carica; a differenza di lui, formalmente sottoposto al ministero dello Sport di Mosca e condannato a un salario stabilito per legge, “le Roi” è sempre stato libero di monetizzare il proprio talento e di scegliere la squadra che più gli aggradava, tanto che si potrà permettere di descrivere la propria carriera con parole molto semplici: “Ho giocato nel Nancy perché era la squadra della mia città; sono passato al Saint-Etienne perché era la migliore di Francia, poi alla Juventus perché era la più forte del mondo”. Si dice che la Juventus gli riconosca uno stipendio annuo di 800 milioni di lire, una somma fiabesca per chi guadagna 700 rubli, l’equivalente di un milione al mese. Se in Unione Sovietica i calciatori d’alto livello sono comunque dei privilegiati che incassano, tanto per dire, il doppio d’un chirurgo, il confronto con i campionissimi occidentali risulta umiliante e li induce a sperare con forza che il nuovo corso inaugurato da Gorbaciov produca un’apertura delle frontiere: basterebbe una stagione, una sola, in Italia o in Germania, in Spagna o in Inghilterra, per accumulare quanto basta per tornare in patria a vivere da signori. Per riuscirci, però, è indispensabile mettersi in luce sotto gli occhi del mondo, e la sfida contro la quotata Francia appare l’occasione ideale. Questa volta si gioca a Leon davanti a un pubblico più folto, circa 36.000 anime, e appare chiaro da subito che l’URSS, non è più quella irresistibile del primo incontro; a quanto pare, la prestazione d’atletismo puro contro i Magiari ha lasciato parecchie scorie nel fisico dei sovietici. Dopo un primo tempo a rete inviolate, il miraggio della vittoria sembra concretizzarsi grazie a un prodigio balistico di Vasili Rats, che scaraventa la palla in rete con un tiro al volo dalla tre quarti. Di lì a poco, Sasha viene richiamato in panchina dal Colonnello per lasciare spazio al “Meritevole maestro” Blochin; la sostituzione gli lascia l’amaro in bocca, tanto più che nel giro di pochi minuti la Francia trova il pareggio con Fernandez.

 

 

L’1-1 finale, tuttavia, lascia un’autostrada spalancata sulla via della qualificazione, ché l’ultimo incontro in programma vede la Sbornaja opposta al derelitto Canada: basta una formazione rimaneggiata per assicurarsi un facile 2-0, il primo posto nel girone e il biglietto per gli ottavi. La prima partita a eliminazione diretta, contro il Belgio del grande portiere Pfaff, del capitano Ceulemans e del talentuoso Enzo Scifo, si tiene nuovamente a Leon, e ha un protagonista che ruba la scena a tutti gli altri: l’arbitro svedese Erik Fredriksson. L’URSS, in tenuta bianca di cortesia, sfiora per la prima volta il gol a pochi minuti dall’inizio delle ostilità, e a metà del primo tempo sblocca il risultato: Sasha si addentra nella metà campo avversaria evitando senza scomporsi una scivolata di Ceulemans, scarta un secondo avversario e imbecca Belanov, che si decentra sulla destra e lascia partire una fucilata clamorosa da fuori area: il bolide incrocia verso il secondo palo, e Pfaff, immobile, fa in tempo solo a scuotere la testa. Le squadre vanno al riposo sull’1-0, ma nella ripresa sale in cattedra da par suo il direttore di gara scandinavo: dopo dieci minuti Enzo Scifo viene servito in evidente fuorigioco a ridosso dell’area piccola, ma l’arbitro non trova niente da ridire e, come il pallone supera Dasaev, convalida il gol. Per Sasha e i suoi, è tutto da rifare. E lo rifanno: al 70’ Sasha arriva col suo solito incedere a piccoli tocchi al vertice dell’area belga, resiste a una carica e apre alla cieca per Belanov; Pfaff esce alla disperata, si getta piedi avanti per chiudere l’angolo della porta, ma Igor lo infila di giustezza per il 2-1. A questo punto il Colonnello richiama ancora una volta Sasha per sostituirlo con Rodionov. Il nostro deve così assistere dalla panchina, la sua postazione abituale per i finali di match, all’ingiustizia più clamorosa: a meno d’un quarto d’ora dai tre fischi, Jan Ceulemans raccoglie un assist di quaranta metri che scavalca l’intera retroguardia sovietica. Questa volta il fuorigioco è clamoroso, tanto che i difensori della Sbornaja non accennano neppure a uno scatto, ma ancora una volta Fredriksson lascia andare il Belgio al tiro e convalida come nulla fosse il gol che vale il nuovo pareggio. L’espressione sbigottita che Dasaev rivolge all’arbitro vale più di mille parole. Si va così ai supplementari, ma ormai l’URSS non ci crede più: sugli sviluppi d’un corner per il Belgio, nonostante gli otto uomini schierati in area, la difesa perde di vista Stephane Demol che ha tutto l’agio di saltare in perfetta solitudine e incornare in rete il punto del vantaggio. Poco dopo, una punizione dal limite offre l’occasione ai Sovietici per pareggiare, ma l’arbitro consente ai Belgi di schierare la barriera a una distanza ridicolmente esigua, e la conclusione di Rodionov viene intercettata sul nascere. Ormai i sovietici non hanno più fiato, né per correre né per protestare; in difesa si aprono spazi enormi, e il Belgio dilaga: lo smarcatissimo Veyt manca un facile gol da due passi, poi una sagra di lisci consente al numero 16 Claesen di raddoppiare il vantaggio. A nulla serve, di lì a un minuto, il rigore realizzato dal solito Belanov, che fissa il risultato sul 4-3. La Sbornaja, vittima di una colossale ingiustizia, torna a casa e viene sommersa dalle polemiche. L’indecente arbitraggio di Fredriksson passa in secondo piano. Anche all’Est l’allenatore è quello chiamato a pagare per tutti, e i rivali di Lobanovsky ne profittano per farlo a pezzi: il Colonnello ha spremuto troppo la squadra nel primo incontro, privandola di spessore atletico nei match successivi, prova ne sia il finale del match decisivo, quando ormai i giocatori non avevano più né gambe né testa.

 

 

A vincere il torneo è l’Argentina di Diego Armando Maradona, lo stesso riccetto che Zavarov ha incontrato da ragazzo nella finale dei Mondiali Under 20; sollevando la Coppa del Mondo, il “Pibe de oro” subentra a Platini sul trono di giocatore più forte del mondo. Sasha si è informato: Diego non si accontenta dell’ingaggio garantito dal Napoli di Ferlaino. Maradona è una macchina da soldi di nuova generazione rispetto a Platini. È in grado di sommare allo stipendio una pletora di contratti garantiti dagli sponsor, che lo considerano a buon diritto un Re Mida, e sembra che incassi oltre quattro miliardi di lire l’anno, una cifra che tradotta in rubli suona esagerata, irreale, semplicemente inconcepibile. Quanto a lui, si deve accontentare del titolo di calciatore sovietico dell’anno; poca cosa, tanto più che Igor Belanov, l’uomo che trasforma in gol i suoi assist, quell’anno vince il Pallone d’oro liquidando la concorrenza di campioni affermatissimi come Gary Lineker ed Emiliano Butragueño.

 

Nel 1987 accade una cosa inaudita: Sergei Shavlo, centrocampista ventinovenne della Torpedo Mosca, ottiene il nulla osta per passaggio al Rapid Vienna. È il primo sovietico che va a giocare all’estero, e se pure il campionato austriaco non è fra i più ricchi o competitivi, Sasha e i suoi compagni si scoprono a invidiarlo: perché un giocatore di valore intermedio come Shavlo sì e loro no?

 

In URSS sta cambiando tutto, ma le norme sono come sempre confuse e basate sul paradosso per cui è l’eccezione a confermare la regola. Per quanti i cavalli di razza della Sbornaja scalpitino, non c’è ancora niente da fare. Nel corso della stagione successiva, la Dinamo va alla deriva: evidentemente la testa dei giocatori è altrove. Di alcuni si dice che abbiano preso a bere pesantemente, una voce che ricorre in particolare quando si parla di Igor Belanov, il frustratissimo Pallone d’oro richiesto in mezza Europa e impossibilitato a lasciare Kiev. Il campionato si chiude con un sesto posto che lascerebbe gli Ucraini fuori dalle coppe europee. Solo la vittoria in Kubok SSSR, grazie a una finale decisa ai rigori contro la Dinamo Minsk di Aleinikov, salva la “squadra-laboratorio” dal disastro completo. Lobanovsky, sfibrato dalla tensione, viene colto da un infarto; per sua fortuna, recupererà nel giro di pochi mesi. A novembre il calcio sovietico si ferma come di consueto. Sasha Zavarov e i suoi compagni in grado di spendere il proprio nome all’estero sperano con ogni fibra del proprio corpo che l’anno nuovo porti delle buone novità. Vengono accontentati: Reagan e Gorbaciov sottoscrivono uno storico accordo sul disarmo nucleare, un segno di distensione internazionale che fa loro gioco.

 

(2. Continua sul Foglio Sportivo di sabato 4 e domenica 5 gennaio 2020)