La parata decisiva di Lev Yashin contro l'Italia ne 1963 a Roma. A dicembre conquistò il Pallone d'oro

Il Ragno nero

Giovanni Battistuzzi

Lev Yashin, il migliore numero 1 della storia del calcio e la filosofia dello stare in porta. Il russo è stato l'unico a conquistare il Pallone d'oro. Per i compagni di squadra era "un anatema contro la sconfitta, un pezzo di legno a cui aggrapparsi se il mare era in tempesta". Un mito per gli anti rigoristi (quelli veri).

E’ così che accade di solito. Un prato, una ventina di ragazzini, due porte inventate con quattro zaini come pali, un pallone. I due più grandi che si sfidano a pari o dispari, le scelte, “io lui”, “io lui”, così a seguire, a sfoltire il gruppo, sino all’alternativa conclusiva: due ne rimangono fuori, i meno bravi, coloro che nessuno vorrebbe, l’ultima chiamata, non voluta, ma obbligatoria. “Tu in porta”, l’ordine perentorio, nessuna possibilità di replica, “e cerca di non subirne troppi oggi”, il consiglio, il diktat. E’ così che si inizia. Non c’è scelta, molto spesso, una croce che capita, una croce che invece a volte qualcuno si sceglie, ma questa è un’altra storia: propensione al martirio. L’alternativa è odiare questo ruolo, oppure farlo proprio, cercare di amarlo e se ci si riesce è gioia pura, impossibilità di farne a meno. Giocare in porta è essenzialmente questo: ultima spiaggia pur di scendere in campo, volontà altrui subita. Così per tanti, dalla serie A alla più infima delle categorie dilettantistiche, così per molti grandi e per altrettanti sconosciuti, così per il più grande di tutti i tempi, per Lev Yashin.

 

La vita di un portiere ha molto spesso una nascita casuale, accade. E’ epifania o imposizione, casualità o mancanza di alternative, quasi mai consapevolezza. Non contano corporatura o tecnica, non solo almeno, c’è dell’altro, sempre. Per Yashin quell’“altro” fu Vladimir Cecerov, ex campione di tennis tavolo, poi soldato nella Seconda guerra mondiale, infine allenatore, per passatempo, della squadra di calcio della fabbrica per la quale lavorava il giovane Lev. “Eravamo una dozzina di adolescenti male allineati ai bordi del campo sportivo della fabbrica – ricorda nella sua autobiografia il portiere russo –, eravamo arrivati allo stadio direttamente dallo stabilimento, vestiti come capitava. (…) Passando in rassegna quella strana truppa, un uomo misurava ognuno di noi con uno sguardo veloce, e gli assegnava immediatamente un ruolo nella squadra. Quando venne il mio turno l’uomo mi disse: ‘Tu giocherai in porta’. Forse avrei dovuto oppormi, chiedermi cosa avessi io che non gli piaceva, perché voleva farmi questo torto. (…) Invece non stetti a spiegare né a chiedere né a obiettare. Se devo stare in porta, starò in porta, l’importante è giocare, pensai”. In porta nonostante piedi delicati, corsa, forza fisica e anni di calcio nei cortili di Mosca come attaccante e goleador, come ricordano nel loro recente saggio “Yashin. Vita di un portiere” (Il melangolo, 232 pagine, 12 euro) anche Mario Alessandro Curletto e Romano Lupi, che hanno ripercorso storiograficamente la carriera prima in campo, poi come ambasciatore dello sport sovietico, del portiere russo.

 

Per Yashin quella scelta casuale, immotivata, divenne missione, obiettivo, ragione di vita: “Dimostrare a tutti di essere il migliore nonostante quello non fosse il ruolo che avrebbe voluto ricoprire”, dice al Foglio Jonas Bauzha, lituano, ma sovietico di nascita, 72 anni, 30 dei quali lontani dall’Urss prima e dalla Russia ora per problemi politici, un passato da portiere, quasi mai titolare, tra Cska, Spartak e Dinamo Mosca (qui vice di Yashin per due anni) e un presente da pensionato nel trevigiano, dopo diversi decenni passati a insegnare a parare ai ragazzi della zona.

 

[**Video_box_2**]“Yashin è per tutti il Ragno nero, soprannome azzeccato per la sua capacità di tessere tele insuperabili per gli attaccanti avversari, ma per noi, suoi compagni, era altro”, sottolinea Bauzha: “Era un anatema contro la sconfitta, un pezzo di legno in mezzo al mare al quale aggrapparsi se nella tempesta la barca scuffiava e ci si ritrovava in balìa delle onde”. Con la Dinamo Mosca Yashin rimase imbattuto per 207 volte in 326 partite, parò 86 rigori su 138, riuscì a vincere 5 campionati dell’Unione sovietica e 3 Coppe nazionali, un bottino straordinario se si considera che nella squadra del ministero dell’Interno giocavano solo una minima parte dei calciatori che componevano la rosa dell’Urss, divisi invece tra lo Spartak Mosca, la squadra del sindacato operaio, e la Cdsa (ora Cska) Mosca, quella del ministero della Difesa. Numero 1 della Dinamo, numero 1 della Nazionale sovietica. Difese la porta della rappresentativa dell’Urss dal 1954 al 1967 per 78 volte, settimo calciatore di ogni epoca per numero di presenze e con l’Armata rossa il Ragno nero vinse l’oro olimpico nel 1956 e il Campionato europeo del 1960, fu secondo a quello del 1964, quando l’Urss venne sconfitta nella finale di Madrid dalla Spagna franchista di Suárez, Iribar e Amancio, in una sfida nella quale il carattere sportivo e calcistico era sormontato e messo in secondo piano da quello politico.

 

Non sono i titoli di squadra però ad aver reso mitica la figura di Lev Yashin. “Le vittorie danno fama, ma per la gloria serve altro, serve un’impresa eccezionale, realizzare qualcosa di mai visto”, scrisse nel 1948 l’inviato della Gazzetta dello Sport al Tour de France, Emilio De Martino, a proposito della seconda vittoria di Gino Bartali nella corsa francese a dieci anni dal primo successo. Un’impresa come quella che compì Lev 15 anni dopo quando nel 1963 conquistò il Pallore d’oro, il massimo riconoscimento calcistico individuale. Mai nessun altro portiere infatti è riuscito a conquistarlo dal 1956, anno in cui il premio venne istituito a oggi.

 

 

Un portiere che ottiene questa riconoscenza ancor oggi è evento straordinario, “ma è giusto così, questo ruolo è l’antitesi esatta del calcio, anzi la sua nemesi”, sottolinea Bauzha. Poco o nulla infatti questo ruolo ha da spartire con gli altri. Dalla divisa alla possibilità di utilizzare le mani, l’estremo difensore rappresenta l’eccezione. In uno sport che fa della disciplina, della creazione finalizzata al risultato e dello spettacolo del gol il proprio filo conduttore, il portiere rappresenta colui che è chiamato a distruggere la bellezza delle azioni, “a decretarne il fallimento”, a negare la gioia avversaria, a interrompere la giusta conclusione di un’azione corale. E’ spirito dionisiaco in uno sport che dovrebbe essere rappresentazione apollinea, nella quale l’armonia della tattica e del gioco di squadra dovrebbero garantire la vittoria. Il portiere è la variabile impazzita negli schemi degli allenatori, è personaggio secondario nella stesura di una trama, il non visto e non considerato che però molte volte si erge a protagonista, nel bene o nel male. “In uno sport che vede l’attaccante creare, segnare, illuminare il gioco, il mediano lottare e impostare e il difensore cercare di conquistare palla per poi ripartire e tentare di riportare questa nell’aria avversaria per reiterare sugli spalti la meraviglia del goal, in tutto questo il portiere c’entra poco, è tenebra del calcio, l’uomo che sta a guardare ed entra in scena solo per interrompere il fluire del pallone. Lo fa suo, annulla la dinamicità del tutto, e lo fa con quella parte del corpo vietata a qualsiasi altro giocatore, le mani”, scrisse Albert Camus in un lettera a un suo amico giornalista sportivo nel 1951. “Sono questa esclusività e questa unicità però a renderlo speciale, amabile e detestabile allo stesso tempo – continua –, che rendono impossibile da ignorare e chiara a tutti l’assoluta eccezionalità del ruolo, il superamento dell’idea di divertimento e l’ingresso nella dimensione della responsabilità, il suo necessario isolamento”.

 

Il portiere è solo, estremo baluardo a difesa di quei 7,32 metri di larghezza per 2,44 d’altezza, ultima e isolata pedina a protezione della roccaforte che, se gonfiata, decreta gloria e sconfitta. In sé porta il peso di questa situazione, la sua è l’emarginazione del condannato alla perfezione, perché sbagliare non è permesso e non può non determinare conseguenze, l’errore è gol subito, molte volte sconfitta. La solitudine è quella di chi è obbligato all’impeccabilità, i tifosi non transigono: il suo dovere è parare e quando non accade le critiche sono dovute, doverose. Il numero uno è il numero dell’accerchiato, di chi deve guardarsi da avversari, pubblico e molte volte anche dai propri compagni. Non c’è via di fuga a tutto questo, è necessario accettarlo, interiorizzarlo, sublimarlo, altrimenti ci si trasforma in vittima sacrificale e quei tre pali diventano inferno, emarginazione, incubo. Proprio come ha descritto lo scrittore austriaco Peter Handke in “Prima del calcio di rigore”, che di calcistico ha solo il titolo e il passato del protagonista, portiere appunto, ma che nella costruzione del romanzo, nel suo paranoico e alienante fuggire e nel racconto del senso di abbandono e responsabilità dopo l’uccisione della donna con la quale aveva passato una notte, riassume la quasi totalità delle sensazione che chi ha ricoperto questo ruolo almeno una volta conosce.

 

 

Una responsabilità che Yashin portava con naturalezza. “Lev aveva qualità che ho visto in pochi altri giocatori: era dotato di un incredibile senso di responsabilità, era disponibile a fare qualsiasi cosa per i compagni e questa sua generosità lo spingeva a essere impeccabile, a dare tutto”, precisa Bauzha. “Non poteva sbagliare. Il suo era un dovere morale. Aveva un talento incredibile, cristallino, ma quello che faceva la differenza in lui era la forza di volontà, prima, e la sua capacità di concentrarsi ed entrare in una specie di trance agonistica che lo rendeva un’unica cosa con quanto gli accadeva intorno”. Yashin non parava soltanto, dirigeva: richiamava i compagni, indicava loro i movimenti, chiamava le marcature e se la squadra era in svantaggio si sostituiva al libero e impostava lui stesso le azioni. “La nostra fiducia in lui era assoluta, i ragazzi sapevano di avere alle loro spalle un’assicurazione sulla vita”.

 

Il portiere è centro gravitazionale, alleggerimento di coscienza, calmante e eccitante, nonno burbero, ma affettuoso, calamita e scarica elettrica. “Lev era per la squadra una sorta di talismano, quasi un oggetto sacro, un crocefisso al quale uno si aggrappa per superare le difficoltà”, ricorda Bauzha. “E’ strano da dire, specialmente se si fa riferimento a quegli anni, a cos’era l’Unione sovietica e alla divisione del mondo al di qua e al di là della cortina. Lev era fede, motivazione a lottare: alla sua prima parata ci animavano, alla quinta ci esaltavamo e potevamo sconfiggere chiunque”.

 

 

Yashin nacque nel 1929 a Mosca, debuttò nella massima serie sovietica nel 1950 ancora ventenne con la Dinamo Mosca, la squadra del ministero degli Interni, ma, complice due partite deludenti, venne presto rispedito in seconda squadra con l’etichetta di “poppante” non gradito al capo della polizia segreta e grande tifoso della Dinamo, Lavrentij Pavlovic Berija. Lev ripartì dal basso. Rifiutò la chiamata della Nazionale di hockey – allora molti calciatori durante il periodo invernale si intrattenevano giocando a hockey nelle formazioni delle rispettive polisportive – pur di ritornare in campo con la maglia blu della Dinamo e dimostrare a tutti che Berija si sbagliava. Ci riuscì nel 1953, a 24 anni, tardi rispetto agli altri grandi portieri della storia del calcio, ma ancora in tempo per scriverne una pagina importante.

 

Alto 1,89, veloce e agile, dotato di un’apertura delle braccia superiore alla media e di dita lunghe e robuste, Yashin “era quanto più si avvicinava all’idea stessa del portiere, ricalcava in sé l’armonia e la possanza, sembrava nato per ricoprire quel ruolo” scrisse lo scrittore Jurij Trifonov nel 1962. “Non sono le qualità fisiche a fare grande un portiere però, o meglio non solo”, precisa Bauzha. “Nella storia del calcio ci sono stati grandissimi portieri dal fisico normale: vedendoli, non avresti mai detto che potessero vestire il numero 1. Gente come l’ungherese Gryula Grosics, il più grande prima di Lev, Angelo Peruzzi, Peter Shilton e Sepp Maier. La loro grandezza stava altrove, nei riflessi, nell’elevazione, nella reattività. Quella di Yashin stava invece nella capacità di leggere l’azione prima degli altri. Lev aveva la dote innata di percepire con un attimo di anticipo quello che sarebbe successo e questo gli permetteva di posizionarsi al meglio e incrementare la possibilità di respingere i tiri avversari”.

 

“La reattività si perde, i riflessi rallentano, l’elevazione appassisce con l’età, l’intelligenza di leggere il non scritto invece non va mai in pensione”, sottolinea Bauzha ricordando come Yashin anche negli ultimi anni di carriera mantenne livelli altissimi di rendimento, tanto che a oggi è il secondo giocatore più anziano (34 anni) ad aver vinto il Pallone d’oro. Era il 1963, anno dispari, nessuna grande competizione per squadre nazionali a decretare il vincitore. La mancanza di un palcoscenico continentale rendeva decisivo, per l’assegnazione del premio, il rendimento nelle coppe europee, manifestazioni alle quali però le compagini sovietiche non avevano ancora accesso (la prima squadra dell’Unione sovietica a partecipare a una coppa europea sarà la Torpedo Mosca nella stagione 1966/’67). “Nessuno avrebbe mai pensato che il Pallone d’oro potesse attraversare la cortina”, precisa Bauzha. Yashin, veniva inoltre da una stagione negativa e in tanti ormai lo consideravano un atleta finito. A maggio il Milan aveva vinto la sua prima Coppa dei Campioni della storia nella finale contro il Benfica di Eusébio, con Gianni Rivera protagonista assoluto di quella manifestazione e grande favorito per il Pallone d’oro: l’Abatino sembrava irraggiungibile, insuperabile. Tutto però cambiò in nemmeno venti giorni.

 

[**Video_box_2**]Il 23 ottobre, per festeggiare il centesimo anniversario della nascita della Football Association, Wembley ospitò una partita amichevole tra la Nazionale inglese e una compagine composta dai migliori giocatori del mondo. Yashin scese in campo col numero 1, con l’obiettivo di cercare di bloccare i Leoni indomabili nel primo tempo. Nel secondo ci avrebbe pensato invece lo yugoslavo Soskiç. “Furono 45 minuti incredibili. Non avevo mai visto una cosa del genere. Davanti avevamo i migliori giocatori al mondo, ma noi eravamo una squadra collaudata”, raccontò sir Bobby Charlton in uno speciale della Bbc nel 2013 per i 150 anni della Federazione. “Partimmo all’assalto da subito per sfruttare al meglio la nostra sintonia. Ma fu tutto inutile. Già dopo pochi minuti capimmo che i nostri sforzi sarebbero stati vani, almeno nel primo tempo. Fu chiaro verso il decimo, Eastham superò in dribbling il cecoslovacco Pluskal, crossò, Greaves l’allungò di testa e la palla mi arrivò tra i piedi, la stoppai, guardai la porta e tirai. Ero convinto di segnare perché avevo calciato bene ed ero a non più di dieci metri dalla porta, ma Yashin face due passi e con un balzo incredibile riuscì ad agguantare la sfera quasi all’incrocio. Si ripetè su un tiro potentissimo di Greaves cinque minuti dopo allo stesso modo”. Su Paine l’apoteosi: “Scattai in fascia, mi accentrai, diedi palla a Charlton che me la rese con un pallonetto che sorprese tutti, la stoppai e fui a tu per tu con il portiere. Lui scivolò leggermente con un piede nell’uscire. Ero sicuro, ‘è fatta’ mi dissi, tirai bene, angolato e forte, ma in un attimo Yashin era già saltato verso il palo più lontano e aveva bloccato il tiro. Alla fine vincemmo, ma fummo sconfitti da Yashin”. Una prestazione sensazionale che trovò ampio spazio sui giornali inglesi nonostante il centenario della FA. Ma una partita può non voler dire niente, serve la controprova. Arrivò pochi giorni più tardi, il 10 novembre allo stadio Olimpico di Roma contro l’Italia di Rivera. L’Italia attacca, deve ribaltare il 2-0 subito a Mosca, ma Yashin c’è. Respinge due tiri pericolosi dell’Abatino, salva miracolosamente di piede su Domenghini, neutralizza Mazzola e Bulgarelli sicuri di aver segnato. Poi arriva il 57’, Mazzola sul dischetto per pareggiare i conti – al 33’ aveva segnato Gennadi Gusarov – la rincorsa, il tiro, Lev che si allunga sulla sinistra e il pallone bloccato. La controprova che serviva, un rigore, la massima espressione della crudeltà calcistica che esalta per una volta il perdente designato, il Pallone d’oro che supera la cortina, che consacra Yashin alla storia, che allevia la solitudine del portiere, ne fa uomo immagine, almeno per un istante.

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