Chiara Ferragni negli spot per il pandoro e nel video di scuse 

Il caso Ferragnez come una mini tangentopoli partita (come quella vera) dalla beneficenza

Michele Masneri

Grosso guaio a Citylife. Chi sa non parla, chi non sa consiglia. Viaggio nel mondo dei vecchi e nuovi “creator” digitali all’ombra dei grattacieli milanesi

Proprio sulla beneficenza si cade sempre a Milano. Trent’anni fa Tangentopoli esplose per la questione del Pio Albergo Trivulzio, antica casa di riposo per vecchietti, regalata ai milanesi da un nobile, e da lì venne giù tutto, la Milano detta da bere e i socialisti, che volevano innovare e ringiovanire il Paese. Questa volta nel caso Ferragnez sono tutti giovani, anche bambini, e certo è un’altra cosa, ma la Milano col cuore in mano sembra sempre confliggere con quella arrembante con in mano il calicino. E se adesso ci sono i fotografi e cronisti sotto City Life ad aspettare Ferragni e Fedez invece d’esserci Paolo Brosio sotto palazzo di Giustizia (due architetture entrambe grandiosamente dittatoriali, il casermone disegnato da Piacentini e i casermoni di Zaha Hadid e Daniel Libeskind all’ombra dei grattacieli Allianz e Generali), e se nei panni di Antonio di Pietro c’è Selvaggia Lucarelli del pool di Civitavecchia, sarà un altro ciclo che si chiude per la città delle aspirazioni d’Italia?

 
In un freddo pomeriggio di dicembre, girando prima per la galleria commerciale “CityLife” tra gli show room del Folletto e del Dyson e di tapis roulant, si sbuca poi nei giardinoni che danno nel residence dove si può passare ammirando le case dei ricconi, tipo High Line newyorchese (ma lì passi e guardi proprio dentro, con la trasparenza da paese calvinista, qui invece puoi solo adocchiare dalle cancellate del cattolicesimo di rito meneghino). I palazzi si chiamano “Giulio Cesare”, “Vegezio”, “Spinola”, “Scarampo”, “Domodossola”, in questo quartiere che ha consolidato e rinnovato il genere “casa da calciatore” in “casa da influencer”. C’è una piazza Elsa Morante e un gruppo marmoreo di ragazzini scolpiti nella bianca pietra che si tappano gli occhi, perfetti per la situazione e appena posati, sembrano ancora incartati, abbandonati lì, forse dono della dinastia instagrammatica che fino a ieri era idolatrata. 

  

Nel frattempo passano delle famigliole, e indicano qui, su, “ecco, è quello là”, in almeno due o tre di quegli atticoni che sembrano cabine di una nave di crociera fuoriscala che si è incagliata in questa parte di Lombardia. Troupe sotto non ce ne sono in realtà, le troupe imbruttite da Fedez, quelle delle trasmissioni televisive, cattive, che indagherebbero, e sarebbero qui a vedere se il cane di casa fa la cacca o no. Nessuno neanche sotto la sede di TBS Crew, acronimo di The Blonde Salad, il blog da cui tutto è partito, in piazza Cavour, altra parte di città, lì tra il consolato della Corea del Sud e un “Milanese café” che potrebbe essere a Seoul. Ma se in apparenza tutto è “business as usual”, sotto sotto qualcosa coverà perché l’accusa, di truffa aggravata, su cui indagano non una non due bensì quattro procure della Repubblica, nel caso detto anche “Pandoro Gate”, colpisce non solo l’immaginario e l’immagine ma anche un business model nella città che era stata dell’industria e poi della moda e della pubblicità e ora dell’influencer marketing. 

  

Un murale comparso a Padova (foto Ansa)

In questa mini tangentopoli instagrammatica, nessuno ha voglia di parlare, e nessuno si è messo nemmeno a difendere “Chiara” che un tempo era invece la capofila e la punta di diamante di tutto un settore e sottobosco di surrogati e succedanei. Valvassori e valvassini che la invocavano tipo madonna pellegrina, a garanzia di un mestiere sorto dal nulla che ha un po’ incrinato la vecchia sobrietà delle ricchezze milanesi.  Invece adesso tutti si fingono morti e anche al telefono è impossibile trovare qualcuno che commenti ciò che sta accadendo. Con una rapidità che colpisce, le istituzioni pubbliche, la cosa più lontana che si possa immaginare qui, sono invece subito intervenute con una serie di regole perché il pandoro-gate, cioè mischiare beneficenza e business, non accada mai più.

 
E’ stata Roma. Con grande velocità l’Autorità garante per le comunicazioni ha rilasciato un comunicato che è subito diventato come si dice virale,  e che pone una serie di regole per gli influencer, almeno quelli grossi. “Un insieme di norme” recita il comunicato “indirizzate agli influencer operanti in Italia che raggiungono, tra l’altro, almeno un milione di follower sulle varie piattaforme o social media su cui operano e hanno superato su almeno una piattaforma o social media un valore di engagement rate medio pari o superiore al 2 per cento (ossia, che hanno suscitato reazioni da parte degli utenti, tramite commenti o like, in almeno il 2 per cento dei contenuti pubblicati).

   

Le previsioni riguardano, in particolare, le misure in materia di comunicazioni commerciali, tutela dei diritti fondamentali della persona, dei minori e dei valori dello sport, prevedendo un meccanismo di richiami e ordini volti alla rimozione o adeguamento dei contenuti”. 

 
Tutti a dire: anvedi che velocità, queste istituzioni romane. Ma perfino un po’ troppo veloci, e infatti. “In realtà il comunicato dell’AgCom non arriva in seguito al caso Ferragni”, spiega al Foglio Luca Leoni, ceo di  Show Reel Media Group, una delle primarie agenzie che creano e gestiscono (anche) gli influencer o creatori o talenti digitali (perché gli influencer sono solo la punta dell’iceberg del fenomeno ma ormai Milano è tutta un’agenzia e un management di questi “talent”. “Sono due cose ben distinte”, dice Leoni. Il comunicato dell’AgCom non è appunto una risposta al caso Ferragnez che sarebbe stata effettivamente di una velocità incredibile bensì “è  il risultato invece di un tavolo di lavoro che va avanti da mesi, a cui abbiamo partecipato anche noi”. “Il comunicato, che prevede peraltro linee guida ancora da implementare, sostanzialmente equipara per la prima volta gli influencer a creatori di contenuti, quindi come fossero giornali o piattaforme di streaming”, dice il manager.  “E per il  resto non cambia  le cose per chi fa questo mestiere da tanto tempo. Per chi opera virtuosamente”, cioè mettendo in chiaro cosa sia pubblicità e cosa no, cosa è invito a scrocco e cosa no, insomma i famigerati #ADV cioè pubblicità, #Gifted cioè un regalo e il nuovo #invited by quando si scrocca.

 
“Anzi, è un bene. Queste erano già regole basilari per le società come la nostra, le grandi, quelle che lavorano in modo professionale”, dice Leoni. La sua ShowReel, che occupa ormai 50 persone, gestisce fenomeni come Camihawke, La Casa di Mattia,  Sofia Viscardi. In Italia dello stesso livello ci sono sempre a Milano Newco Management (che gestisce da Frank Matano a Giulia Valentina alla stessa Selvaggia Lucarelli), e poi a Napoli CiaoPeople che produce tra le altre cose FanPage e gestisce il gruppo TheJackal (!). Un mondo insomma molto variegato che pochi conoscono e adesso come dire osa pronunciare il suo nome “perché l’AgCom riconosce anche le aziende del settore oltre agli influencer”, dice Leoni. 

    
Come tra gli scrittori, c’è poi chi non ce l’ha l’agenzia, e preferisce far da sé. “Così i Ferragni hanno fatto tutto da soli”, dice Leoni. “E questo è probabilmente parte del problema, perché non puoi essere uno e trino”; essere il talento e gestirlo.  Loro, le agenzie, sono invece prontissime anche a gestire le crisi, “che prima o poi arrivano, anzi siamo pronti a prevenirle. I canali dei nostri clienti sono canali editoriali in tutto e per tutto. Noi presentiamo i palinsesti come se fossimo Rai o Mediaset,  e decidiamo insieme cosa fare e cosa non fare, che brand prendere e quali non prendere. La crisi più frequente è quando arrivano le critiche da parte della community e poi gli hater. Quando arrivano gli hater  vuol dire che stai avendo successo” dice Leoni, che è autobiografia milanese  (barese a Milano,  ha iniziato col Web passando da Radio Deejay). 

 

Sulle linee guida romane si è espressa anche “Conosco un posto”, alias Caterina Zanzi, influencer milanese specializzata in consigli sui ristoranti e bar e in generale sul tempo libero a Milano, che ha postato una serie di riflessioni ironiche: “molto felice se quello che per me e per diversi colleghi professionisti è la norma da 10 anni diventerà una regola e non un’opzione di questo far west”, ha scritto. “Ma ho una domanda: se per media tradizionali intendiamo i giornali strapieni di publiredazionali e ‘appoggi’ non dichiarati agli investitori pubblicitari andiamo bene allora”. Come dire, proprio voi giornali venite a farci la morale? Tra una marchetta e l’altra poco conta che sia una prestigiosa testata di carta o uno che trasmette dal suo telefono. In effetti, come darle torto…


Un tema su cui l’AgCom per ora non ha ancora previsto regole è quello dei minori.  “E’ vero, in questo servono assolutamente”, dice Luca Leoni.  Tutti ci chiediamo infatti cosa ne sarà un giorno dei figli-di-influencer. Oggi tutti piccoli Macaulay Culkin in case anche della stessa pacchianeria di Richie rich, diventeranno tutti dei tossiconi come l’ex bambino prodigio? Essere esposti accaventiquattro a genitori bramosi di pubblicità nuoce gravemente alla salute? Oppure saranno invece scafatissimi e magari anti-social, cresciuti senza telefono, come i figli di Berlusconi senza vedere la tv?

 
Dei bambini Ferragnez sappiamo tutto ancor prima che nascano, ecografie e visite ginecologiche incluse. E poi “baby shower” (usi che poi vengono copiati  e diventano uso comune, e questo forse è peggio della eventuale corruzione, anche se aggravata).
E “Chiara” in questi giorni manda avanti proprio i bambini, gran foto e video di Leone e Vittoria, che però non sembrano funzionare più di tanto, lasciano lo stesso sapore in bocca di cringe. Ma qui, arriveranno altre linee guida? Equiparando l’Internet ai media tradizionali, se uno trasmettesse e mostrasse i bambini come fanno gli influencer con un altro mezzo, in giornali e  in tv, finirebbe nelle patrie galere in mezz’ora. Invece noi di questi bambini siamo abituati a vedere e sapere tutto, prima ancora che siano nati. Anche perché si sa che i bambini fanno salire l’algoritmo, fidelizzano, conquistano. In un camerino Rai qualche tempo fa una signora mi disse del figlio famoso influencer di cucina: “Lui i bambini non li vuol mostrare, allora il suo agente gli ha detto: mostra un cane, che va bene lo stesso, ma lui non vuole manco il cane e allora ne ha preso uno in affitto da usare solo per i social”.  I bambini poi hanno la qualità rara di crescere davanti a noi, e oltretutto ciò che devasta una famiglia normale, il cambiare taglia ogni settimana  per chi è in cerca di sponsorizzazioni è una manna dal cielo. 

 

Sui bambini poi c’è proprio una spaccatura culturale. Qui non si vuole fare un dotto excursus giuridico, però perbacco. Negli Stati Uniti l’approccio è: paghiamoli. Nell’Illinois (io li odio gli influencer dell’Illinois!) c’è una nuova legge che prevede che i bambini prendano parte degli introiti generati dal loro apparire. I bambini “meritano di essere protetti dai genitori che tentano di trarre vantaggio dai talenti dei loro figli e di usarli per il proprio guadagno finanziario”, ha detto Alex Gough, portavoce del governatore dell’Illinois J.B. Pritzker, dopo che il governatore ha firmato la legislazione. In altri stati simili progetti di legge non sono passati. In California, dove si concentra molto dello show business anche instagrammatico d’America, è stata bocciata una legge che prevedeva che i contenuti che siano creati almeno al 30 per cento grazie a dei bambini debbano riconoscere agli stessi  una compensazione proporzionata, e questa  sia messa da parte finché  non abbiano compiuto la maggiore età. Il senatore Steve Padilla, democratico, disse che “la California deve fare come fece nel secolo scorso quando si mise a tutelare gli attori bambini”. La legge californiana in questione si chiama Coogan Act, in memoria di Jackie Coogan, star del cinema muto, scoperto da Chaplin nel ’19, che gli fece fare il protagonista del Monello. Da adulto poi fece lo zio Fester nella Famiglia Addams. La “Coogan mania” lo aveva reso celeberrimo nel mondo quand’era ragazzino negli anni Venti e aveva portato alla produzione di merchandising come magliette, tazze, burro, diari di scuola.

 

Prima di diventare maggiorenne si stima che Coogan avesse accumulato una fortuna di 8 milioni di dollari di allora, salvo scoprire che la madre e il nuovo compagno li avevano sperperati tutti. La madre affermò che “...non abbiamo mai promesso di dare nulla a Jackie. Ogni dollaro guadagnato da un bambino, finché non ha compiuto 21 anni, appartiene ai suoi genitori. Jackie non riceverà nemmeno un centesimo di tutto quello che ha guadagnato”, aggiungendo inoltre che “...Jackie era un bambino cattivo”.

 
Qui il pensiero corre al povero Leone, che invece sembra buonissimo. Ma tornando all’ex attore bambino, rimasto in miseria e grazie alla carità del suo mentore Chaplin, si rivolse ai tribunali per scoprire che la California non prevedeva che i bambini potessero guadagnare, e portò alla creazione appunto delCalifornia Child Actor’s Bill, spesso chiamato appunto Coogan Bill o Coogan Act. Nel 2000 un emendamento precisò che i soldi guadagnati dagli attori minorenni appartengono a loro e non ai loro genitori e prevede che per ogni pellicola  la produzione deve mettere da parte il 15 per cento degli stipendi degli attori bambini e che andranno sui loro trust.
 
In Francia, tutto diverso l’approccio. Una nuova legge regola anche la presenza di influencer minorenni (la Francia è il faro a cui tutti guardano per regolazione instagrammatica). Anche lì i guadagni saranno versati su un conto corrente a loro intestato e congelati fino al raggiungimento dei 16 anni d’età. Le aziende che vogliono collaborare con i baby influencer dovranno ricevere l’autorizzazione dalle autorità locali. Ma soprattutto,  i bambini avranno la possibilità di richiedere il diritto all’oblio. Questo vuol dire che le piattaforme saranno obbligate a rimuovere tutti i contenuti se arriva la  richiesta dal soggetto interessato, l’ex bambino mostrato milioni di volte dal telefono dei genitori all’infinito mondo.

 

Ma se non può più neanche mostrare i figli suoi, che deve fare “Chiara”? Come alimentare il suo palinsesto che deve comunque andare avanti, sette giorni su sette, 24 ore su 24? “Di sicuro dovrebbe riapparire con un’attività molto convincente di espiazione”, mi dice un medio influencer che ovviamente vuole rimanere anonimo. “Sarà dura”, dice, “anche perché nel caso in cui si mettesse in una specie di autoreclusione tipo Berlusconi ai servizi sociali, siamo sicuri che il suo pubblico vorrebbe vederla?”. In effetti, il pubblico che la segue e la ama forse non vorrebbe vederla alle prese con pannoloni di anziani, o con qualunque altra forma di realtà. Lei dovrebbe continuare a farci  sognare, nella sua via da Barbie, però dopo aver passato un momento di espiazione”. “Dovrebbe star ferma almeno sei mesi, magari un anno”, mi dice un altro. “E tornare con un profilo bassissimo”. E se nel frattempo spunta una nuova Ferragni e si porta via tutto il suo pubblico? “E’ un rischio, sì”.  


“Di sicuro la questione Ferragnez porterà a un abbassamento dei prezzi del settore ”, mi dice il medio influencer. “Eravamo già troppi, il mercato dieci anni fa era vergine, cinque anni fa era affollato e ora è in eccesso di offerta”. Così il rischio è che le aziende decidano che forse l’apporto di queste creature mezzi umani e mezzi telefoni non vada eliminato del tutto, bensì ridimensionato. I più furbi sono quelli che stanno vendendo, fiutando l’aria. “Io vorrei cambiar lavoro ma non saprei che fare. Il giornalista? Si guadagna troppo poco”: ecco, parole che fanno bene al cuore. 

 

C’è anche a chi guarda a questo “far west” come a un’epoca leggendaria completamente finita. Una giovane influencer milanese, anche lei anonimissima, guarda con tenerezza a  Ferragni e i suoi derivati. “Sono una cosa vecchia, del passato. A parte che adesso c’è TikTok, l’idea dell’influencer che fa un racconto totale, mettendoci dentro tutta la sua vita privata, una narrazione della propria famiglia, i figli, mischiati col prodotto, è folle”. E lei quindi – ha 20 anni, di buona famiglia, liceo del centro, genere friulane – perché lo fa? “Per crearmi un po’ di seguito. Io vorrei fare la giornalista”. Ma pure lei. Ma è una mania. Ma perché non fate i veterinari, i dentisti,  i notai… “Giornalista nel campo della moda. Ma vorrei arrivarci con un certo numero di follower”, insomma giornalista rinforzata dai follower. Del resto il momento direttore-influencer c’è stato, non possiamo far finta di niente. E i TikToker? “Ma quelli sono bestie. Quelli se gli dici di farti un post sponsorizzato con la nonna che muore, te lo fanno” dice la nostra teste Ariosto.  “Bisogna distinguere chi fa questo lavoro seriamente, perché è un lavoro come un altro”, dice invece Leoni, più serio. “Distinguere dagli improvvisati, perché col Covid molti ragazzi si sono messi in proprio, cominciando a postare su TikTok. Ma quello non è un lavoro”. 

 

Insomma, dopo l’influencer in crisi di identità e quella part-time, e i nuovi-mostri influencer brutti sporchi e cattivi, non sappiamo più cosa pensare. Adesso intanto tutti aspettano la prossima mossa di “Chiara”, tutti la vogliono consigliarla (e magari proporsi come spin doctor). Idea del social media manager delle casse da morto Taffo, e Presidente dell’Associazione nazionale Social media manager (vabbè), Riccardo Pirrone:   Ferragni deve mettersi una maglietta con la scritta “Bandita” o “Truffatrice” e sfilare alla settimana della moda  (mah).


Piuttosto: un ritorno in America? Un divorzio? Di solito in questi casi serve un capro espiatorio, o una capra, ma teste qui non sono rotolate. Neanche quella di Fabio Maria Damato, il socio-manager-amico del cuore, su cui tutti puntavano, che invece è rimasto, confermando anche la lealtà di gruppo delle strutture sociali in questione, e però bloccando ’aaa narrazione, signora mia.  Perché poi si è detto: pur con numeri da media azienda, i Ferragnez son rimasti sempre una fabbrichetta a gestione familiare, senza costruire tecnostrutture e think tank né essendosi circondati di Gabetti e Grande Stevens e neanche di Fatme Ruffini che li sapessero consigliare negli snodi narrativi e legali della vita. Sicuramente questo estremo “chilometro zero” ha pagato, però dall’altra parte ha evitato che qualcuno a un certo punto dicesse “no, così non va”. 

 

Si spera per loro che Ferragnez e soci  abbiano comunque messo da parte abbastanza anche per superare eventuali stravolgimenti del destino. Ma forse dovrebbe essere lo stato a intervenire come con le banche: cos’hanno meno del Monte dei Paschi? E esiste uno studio su cosa succederebbe in caso di fine dei Ferragnez, tra l’altro eccellenza del made in Italy   ( con tutto l’indotto, poi: arredatori e personal trainer e muratori e dietologi e psicologi – famoso quello poi finito nella serie tv –  e autori, e sciampisti e coloristi e autisti e fioristi, non solo per loro ma per tutta la variegata compagine familiare. I Ferragnez sono too big to fail?).   
Ma intanto la mente  torna ai dolci ricordi, cinque anni fa, a Noto, epoche geologiche passate, quando i due celebrarono il loro royal wedding nella cittadina sicula blindata come per un G8. Mamme rustiche si arrampicavano fin sull’alto campanile rischiando di finir di sotto con la prole, per sbirciare dentro la zona rossa delle celebrazioni (tutto ripreso live per il film autoprodotto, nella celebre economia circolare Ferragnez). Vi furono perfino  polemiche per un aereo sponsorizzato Alitalia, e il vescovo di Noto compose addirittura un rap (ma poi i due si sposarono civilmente). 

 

Adesso, qualcuno accusa invece l’opposto, l’accanimento.  Ma forse nel loro sfidare anche le basilari norme della convivenza civile e urbanistica hanno toccato nervi scoperti. E torniamo all’immobiliare. Nel paese ossessionato dalla casa, il mostrare maniacalmente gli interni da Zampetti  della loro nuova magione, sempre più grande, sempre più lussuosa, pare una forma di ubris da mattone molto pericolosa. Qualche anno fa ricordo che “Chiara” mostrava orgogliosa un plastico di casa sua che un fan e follower le aveva inviato ricostruendo a mano minuziosamente solo  guardando stories e post pubblicati: mi era sembrata una cosa inquietantissima. Lei era invece tutta contenta. Ma in generale l’ostentazione del lusso immobiliare più estremo in un paese tutto sommato povero, e moralista, e in cui le tre grandi culture (quella cattolica, quella comunista e quella fascista, sono concordi nel condannare fermamente il successo e l’ascesa sociale), è come se avesse toccato qualche corda più profonda nel sentimento generale. Mentre Milano poi lamenta l’impossibilità di trovare un monolocale loro esibivano i metriquadri da villa Getty… Da che mondo è mondo poi i ricchi quando diventano ricchi si nascondono e si proteggono, specialmente in una città di interni e di cortili come Milano. I Caccia Dominioni e i Portaluppi venivano esibiti agli amici, mai in front of the servants. Poi c’era il rito ambrosiano che prevedeva appunto tanta beneficenza per chi aveva fatto fortuna, anche scaramanticamente. 

 

E dopo l’esaltazione era abbastanza ovvio che sarebbe arrivato l’accanimento, il servo encomio poi diventa subito codardo oltraggio. Certo, si dirà, un popolo peraltro esagitato e indignato condanna i Ferragnez ma mai è stato ugualmente indignato ed esasperato nei confronti di tassisti o balneari o in generale di chi ti frega  (non pagare le tasse alla fine fa avere meno soldi a tutti, bambini degli ospedali compresi). Insomma, ai Ferragnez la strategia social la si fornisce noi, qui, gratis. Meno metriquadri, e, più che nuove charity o penitenze, che fondino un sindacato, o una corporazione, o mettano su uno stabilimento balneare. Che si facciano Codacons di loro stessi, e tutto passerà.  

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).