Perché la stretta dell'Agcom sugli influencer è miope (e in fondo è davvero anti-Ferragni)

Meriterebbe un saggio sociologico il meccanismo di product placement per il quale per anni abbiamo finto di non sapere come si mantenessero gli influencer

Fabiana Giacomotti

A meno che l'authority non voglia che i creator si trasfomino in vere aziende, il limite al milione di follower è ridicolo visto che la maggior parte di loro non va oltre i centomila. E i grandi gruppi puntano proprio ai micro-influencer

Da questa mattina, chiunque si vanti di saperne un po’ di comunicazione tende a spiegarti con toni accorati che la “nuova stretta dell’Agcom sugli influencer con oltre un milione di follower non è una misura contro Chiara Ferragni”, in quanto il documento appena approvato è in corso di stesura dallo scorso luglio. Vero. Ma non troppo. Perché gli influencer oltre il milione di follower “sulle proprie piattaforme o social media d’elezione” o, come recita la nuova norma, “che abbiano superato su almeno uno di essi un engagement rate medio pari o superiore al 2 per cento, intendendo che almeno questa percentuale dei contenuti pubblicati abbia suscitato reazioni, in termini di like o commenti da parte degli utenti”, in Italia non arrivano a cinquanta, e nella moda – il settore più a rischio di pasticci mediatico-commerciali - riguardano Ferragni senior seguita dalla sorella Valentina, Mariano Di Vaio con i suoi 7 milioni di follower, Chiara Biasi con 4,4, Anna Dello Russo con 2,7 e Chiara Nasti, che però sarebbe difficile definire legata alla moda o a quanto i modaioli intendono con questa definizione, con circa 2 milioni. Tutti questi nomi siglano “collaborazioni”, fanno “progetti”, guadagnano con i loro post, oppure hanno aziende da decine di milioni di fatturato come, nel beauty, Cristina Fogazzi, l’”Estetista cinica”, peraltro accortissima anche nella gestione dell’immagine del proprio marchio e di rara trasparenza nei bilanci.

 

Sebbene gli italiani che seguono almeno un influencer siano ventotto milioni, cioè il 76 per cento di chi ha fra i quindici e i sessantacinque anni (nota a margine: ma davvero ci sono sessantacinquenni che si sentono attratti dalle gesta di un influencer? Speriamo appartengano almeno al comparto critici di libri), l’elenco dei nomi e dei volti da molti milioni di seguaci e dal loro giro d’affari di 300 milioni di euro è ridicolmente ridotto.

Sebbene tracciare una classifica sia piuttosto difficile, in quanto i risultati dipendono dal momento in cui lo si stila e dai canali che si prendono in considerazione, secondo i dati raccolti da Statista, a marzo 2023 i cinque profili italiani più seguiti su Instagram erano Khaby Lame con oltre 80 milioni di seguaci, Ferragni con 28,4 milioni, Gianluca Vacchi (oltre 23 milioni), Michele Morrone dagli occhi bistrati come Rodolfo Valentino, che credevo avesse girato solo quel film erotico tanto piaciuto alle signore amanti della sottomissione, “365 giorni”, e che invece pare faccia pure lo stilista (oltre 15 milioni). Al quinto posto, si colloca Valentino Rossi (oltre 14 milioni).

Secondo la classifica di influenceritalia.it, le prime posizioni sono più o meno le stesse, ad accezione della terza, dove è collocato il giornalista sportivo Fabrizio Romano. Sotto la settima, occupata da Federico Lucia in arte Fedez, ci sono praticamente solo calciatori e mister: Carlo Ancelotti, Mario Balotelli, Gianluigi Buffon. Il portiere nazionale pubblica su Instagram commenti, interviste e un’unica promozione, annuale, a favore di Airc: trovarvi del product placement in incognito è arduo, così come violazioni “alla tutela dei minori”, per non dire di un altro dei punti fermi della normativa, il rispetto dell’immagine della donna. Solo ragazzoni in pantaloncini che corrono qui e là per il campo di calcio. Il profilo di Balotelli è giusto un filo più balotelliano, come dire, ma siamo sempre lì, fra screenshot del ”Grande Fratello” e di “Striscia la notizia” in versione autopromozionale, qualche donna, molto affettuosamente abbracciata.

 

Scrive l’Agcom nel suo dispositivo che “per coloro che non superino la soglia stabilita del milione di follower, restano validi gli obblighi legali già in vigore”, secondo i quali devono sottostare alla legislazione italiana sulla pubblicità ingannevole e sulle pratiche commerciali scorrette: negli ultimi anni, sono caduti sotto la lente dell’Antitrust diversi influencer, anche dal seguito modesto, sospettati di non rispettare queste leggi, ma è ovvio che cercare di fare ordine in questo settore sia pressoché impossibile: la maggior parte degli influencer di moda, o creator come usa dire adesso, non va oltre i centomila follower: vivono di cambi merce, di inviti alle cene in cambio di un post e dell’autista, non hanno la più pallida idea di che cosa sia la deontologia, non sanno distinguere fra informazione e pubblicità, lasciano i figli piccoli alla suocera pur di non perdersi l’ultima sfilata, di solito scrivono di peste e conoscono l’inglese, che pure utilizzano a piene mani, come Matteo Renzi. Le aziende di moda, incredibilmente, se le contendono, nella sciocca convinzione che i “microinfluencer”, da cinquanta, ottanta, centomila follower, risultino più “credibili” e abbiano tassi di interazione più elevati. Non è assolutamente certo che sia così, e il “tasso di conversione” da un post alla vendita funziona in realtà solo sui grandi numeri, basti a dimostrarlo il caso della tuta grigia dell’autodafé di Ferragni dopo lo scoppio del "pandoro gate", andata esaurita in poche ore.

 

A meno che, ed è l'unica spiegazione possibile per questa norma sperequata, l'Authority non intenda spingere questi influencer che fatturano come medi imprenditori a diventarlo davvero, oneri legali inclusi.

  

Mentre sociologi e docenti di economia iniziano a preconizzare il mesto tramonto di un mestiere che – vale la pena ricordarlo, nessun paese al mondo persegue come in Italia – resta da capire come ventotto milioni di persone al di sotto delle Alpi ritengano attraente, interessante in termini di informazione e soprattutto disinteressato, cioè scevro da connessioni commerciali, intellettualmente onesto, il profilo di persone che vivono indossando, mangiando, viaggiando, spalmandosi creme per conto terzi e perché i loro post siano da ritenere superiori, in termini di credibilità, al vecchio lavoro dei media che, a rigor di termini, traggono il proprio sostentamento da un editore e non direttamente da uno o più marchi.

Ma questo punto meriterebbe un saggio sulle regole della celebrità, e le sue connessioni con il voyeurismo e il feticismo, e un po’ anche dalla vecchia, italica convinzione, di saperla sempre un po’ più lunga degli altri, e di saper evitare le fregature. Ecco, appunto.

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