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Il vero danno del "pandoro gate" di Ferragni? L'alibi per astenersi dalla beneficenza

Fabiana Giacomotti

L'aiuto volontario verso chi è più bisognoso ha cambiato in meglio il nostro paese. In Italia sono 363 mila le organizzazioni non lucrative registrate, il doppio rispetto a vent’anni fa. Tutti abbiamo amici che ne fanno parte. Sarebbe un peccato smettere

Negli anni della grande cattiveria – il Covid non ci ha resi più buoni, sarà ora di accettarlo e, come direbbero i virologi, di “imparare a conviverci” – ci mancava solo un antipatico fatto di cronaca che liberasse lo Scrooge in noi, che ci desse una scusa per sgravarci dell’inutile fardello della bontà natalizia, dei sorrisi, del “ma zio, Natale è il tempo dei doni” che, lo strozzino dickensiano già lo sapeva, sono “tutte fandonie”. D’altronde, se Chiara Ferragni intascava milioni di euro per rafforzare con la sua immagine le vendite di dolci la cui quota in beneficenza era già stata pagata interamente dall’azienda in percentuale minima rispetto al suo cachet e non era proporzionale rispetto alle vendite come la comunicazione lasciava supporre, perché mai noi dovremmo devolvere una quota dei nostri guadagni sempre più risicati ad associazioni di cui mai abbiamo sentito il nome, riempiendoci la casa di paccottiglia e di dolciumi mass market?

Nelle stesse ore in cui la bete noire del clan Ferragnez, il Codacons, depositava all’Antitrust un secondo esposto nei riguardi di un’operazione apparentemente analoga condotta nel 2021 e 2022 per una campagna vendite di uova di Pasqua, sulla spiaggetta di Suna, frazione di Pallanza, si teneva un mercatino di beneficenza natalizio: sul lungolago erano state montate almeno venti tende e, tranne per quelle della Croce Rossa e dell’Arcigay che offriva occhiali di plastica a tema natalizio, erano tutte sconosciute, ovviamente onlus o associazioni locali con nomi di fantasia. Erano tutte per principio lodevoli, ci mancherebbe, ma vai a capire quanto oltre le presine fatte a mano e i porta-cornice in panno lenci, oggettivamente inguardabili ma che pare brutto lasciare lì dopo la donazione e che dunque finiscono per alimentare quella speciale raccolta di orrori casalinghi che i nostri eredi scopriranno in fondo a un cassetto dopo la nostra morte rovinandoci la reputazione.

In Italia vi sono 363 mila organizzazioni non lucrative registrate, circa il doppio rispetto a vent’anni fa. Fra queste compaiono partiti politici, avventisti del terzo giorno e avventizi dell’ultima ora ma, fatta la solita media del pollo, significa che chiunque di noi ha un amico, ma perlopiù si tratta di amiche, che presiede o che ha fondato o che collabora con un’associazione benefica, talvolta riuscitissima per la tenacia della signora, vedi Marinella Di Capua che l’altro giorno, a una festicciola natalizia milanese, faceva sapere di aver venduto parecchie centinaia di panettoni a favore della Fondazione Asm per la salute dell’infanzia che presiede ormai da molti anni, oppure l’ex magistrato Caterina Lamanna che gira l’Italia con la sua mostra di bambole antiche per finanziare un progetto immobiliare scolastico in Kenya di cui testimonia anche fotograficamente lo sviluppo; però, a meno di conoscere personalmente chi, come e che cosa si finanzia, è facile che si finisca per comprare il pandoro sovrapprezzo con il simbolo di Chiara Ferragni, che fa anche felici le bambine, sentendo di essersi messi a posto la coscienza. 

La Open Cooperazione, piattaforma della comunità italiana della cooperazione internazionale che da otto anni aggrega i dati della trasparenza e della accountability delle organizzazioni italiane, ha pubblicato di recente la top ten – chiamata proprio così, non è una locuzione che ho scelto per sintetizzare – delle organizzazioni italiane o che operano in Italia per dati di bilancio, numero di dipendenti, progetti implementati e sostenuti, numero di volontari e donatori privati e livello trasparenza. A dati 2021, gli ultimi certificati, il bilancio più ricco, pari a oltre 133 milioni di euro, appartiene a Save the children, mentre la Comunità di sant’Egidio vanta il numero di volontari più alto, ventimila. Ai vertici della trasparenza, però, compaiono altre associazioni, come Amref Health Africa onlus, Consorzio ong piemontesi, Coopi, e tutte hanno centinaia di dipendenti e un giro di attività da media industria, oltre a professionisti non certificati che svolgono attività di ricerca di sponsor, e che vengono pagati a percentuale, legittimamente e giustamente. In Italia, per via delle molte attività caritatevoli di matrice religiosa, resiste infatti, inattaccabile, il mito della beneficenza totalmente volontaria, dono di sé e del proprio tempo e ovviamente del proprio denaro.

Insomma, un’attività adatta alle monache, ai frati francescani nonché come utile alternativa all’ozio per gran dame, da osservare con un filo di cipiglio e accenti di ironia, dimenticando magari che grazie ai “damazz” senza niente da fare di meglio per occupare la giornata mentre la gente per bene tirava la carretta, solo a Milano sono sorti negli ultimi quattro secoli asili, fondazioni, ospedali, attività benefiche ormai imprescindibili perfino nella storia culturale della città come, esempio preclaro, l’Istituto per i ciechi. In tutte queste associazioni, fondazioni, enti, lavorano appunto decine di migliaia di persone alle quali, sì, va una quota consistente del ricavato delle donazioni. Non tutti possiedono terre al sole, asciutte e ventilate, dunque devono essere remunerati almeno parzialmente per il lavoro che svolgono: il terzo settore impiega solo in Italia circa 163 mila persone, compresi psicologi e assistenti sociali. Troppi? Chi può dirlo. Ogni tanto salta fuori uno scandaletto, anche di piccolo cabotaggio come quest’ultimo, ed ecco che riparte la litania del non ci si può fidare, ma chi me lo fa fare, chissà del mio euro quanti centesimi andranno ai poveri bambini dell’Africa, senza nemmeno sapere che la stragrande maggioranza delle attività delle onlus italiane va ai poveri bambini di casa nostra, quelli che ci ostiniamo a non vedere perché pensiamo di essere un paese di ricchezza diffusa. 

Ecco, vedete, fatto salvo il cattivo gusto della premier Giorgia Meloni di attaccare Ferragni per ingraziarsi gli elettori che mai potranno permettersi un attico come il suo – non siete voi dei falliti, piccini, è lei che gioca sporco – il lato più antipatico del “Balocco-gate” è che per questo Natale, sono pronta a scommetterci, le donazioni saranno inferiori rispetto a quelle dello scorso anno, e non solo perché ci siano meno soldi in giro e questo è incontestabile da un dato decrementale dello shopping non ancora confermato ma diciamo a due cifre nella decina del cinque: qualcuno ci ha offerto l’alibi morale perfetto per tenerci le banconote nel materasso, state pur sicuri che lo sfrutteremo. Certo, sarebbe sciocco e superficiale negare che vi siano aspetti opachi nell’intensissima attività benefica che trasforma l’Italia, in particolare sotto Natale, in una teoria infinita di feste, cene, cocktail dove ti senti in colpa per ogni tartina che inghiotti, tutto denaro rubato alla costruzione di un nuovo pozzo artesiano oltre l’Equatore, e in una campagna postale imbarazzante per quantità di carta sprecata e per orrendezza del contenuto: in casa mia si cede sempre alle cartoline di auguri stampate a laser, provviste di busta e del bollettino postale, a favore dell’associazione X, di bruttezza giustificabile e soprattutto condivisa e condivisibile perché centinaia di persone che conosco ricevono le stesse: come per i servizi telefonici e la moda online, anche fra le associazioni di beneficenza dev’esserci – non provato ma altamente possibile – uno scambio importante di dati personali. Anni orsono, venni bloccata fuori dalla porta di casa da un tizio che raccoglieva fondi per il soccorso alpino con i cani sanbernardo e da allora giro con il portachiavi di un quattrozampe in maglietta rossa e botticella al collo che avrebbe fatto la delizia di Gillo Dorfles. 

La beneficenza a scopi di marketing derivato, che è la categoria in cui è rientrata in apparenza Chiara Ferragni con Balocco e con le uova di Pasqua di Dolci Preziosi, è ancora un’altra cosa, e chiunque di noi abbia a che fare con attività commerciali sa bene di che cosa si tratti. Giorni fa, l’amico Paolo Landi, uomo della comunicazione Benetton e Fabrica negli anni d’oro, oggi comunicatore di successo in proprio, spiegava su Meta con parole semplici il meccanismo: il brand si accorda con l’ente ricevente e anticipa una certa cifra; quando la campagna è finita, effettua il conguaglio sulle vendite e, se queste hanno avuto successo, integra la cifra che ha anticipato. Pare che Balocco avesse seguito la stessa procedura; dunque, se la cifra elargita effettivamente e anticipatamente all’ospedale Regina Margherita di Torino, pari a circa cinquantamila euro, non è stata integrata, significa solo che le vendite di pandori con lo zucchero a velo rosa sono state fallimentari o che l’azienda non ha riconosciuto al nosocomio il restante in percentuale. Che l’Antitrust abbia multato per comunicazione ingannevole l’imprenditrice in misura maggiore rispetto all’azienda, dovrebbe lasciar supporre che il risultato dell’iniziativa sia stato inferiore alle attese, benché sul punto ci siano pareri discordanti. Nel marketing nazionale, usa dire che “la Ferragni convince ma non converte”, cioè che non ci sia corrispondenza fra l’hype che generano i suoi post e i dati di vendita del prodotto che promuove, forse a causa del fatto che buona parte del suo pubblico è formato da adolescenti attorno ai dodici anni, sperabilmente non ancora abilitate agli acquisti. È possibile che sia stato questo il caso, benché c’è da dubitare che l’adagio possa essere applicato a ogni categoria di prodotto: un successo pari al suo, in caso contrario, non sarebbe spiegabile (lo stesso ex ministro delle infrastrutture e dei trasporti Maurizio Lupi, ospite di Nicola Porro su Retequattro poche sere fa, ricordava come il passaggio aereo Alitalia di cui Ferragni aveva goduto con i propri ospiti in occasione del matrimonio avesse generato un’improvvisa vendita delle t shirt della compagnia, che nessuno fino a quel momento aveva voluto neanche gratis), e non avrebbe generato, oltre alle polemiche, un’ossessiva ricerca della maglia grigia con cui ha messo in scena su Instagram il suo autodafé da parte di centinaia di migliaia di fan. 

Date per assodate le tecniche della beneficenza a scopo di visibilità e galvanizzazione delle vendite, proprio mentre scrivevo questo articolo, mi ha telefonato un’azienda di calzature per sapere se conoscessi un’associazione o una onlus “in target”, cioè di gradevole nomea, meglio se attiva nella difesa delle donne, per “sviluppare un’azione congiunta durante la fashion week di febbraio e arricchire il comunicato sulla collezione che altrimenti non se lo fila nessuno”. Invece di insultarli, come sarebbe stato spontaneo e naturale, ho subito suggerito un nome. Oltre alla visibilità, qualche soldo all’associazione arriverà di sicuro, perché negarle l’opportunità con qualche inutile sofismo. Con la beneficenza, dopotutto, vale sempre la pena di adottare il vecchio suggerimento di Indro Montanelli: turarsi il naso e, come dire, votare sì.

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