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Tra web e tribunali

Denunciare chi ti insulta sui social? Meglio di no. L'epopea di un offeso spiegata da un'avvocata

Ester Viola

Come ci siamo ridotti. Moralisti e inclini al risentimento, ci offendiamo un po’ per tutto, ora che opinioni e insulti spopolano sulle piattaforme digitali. E che fare, se ci danno del coglione? Intentiamo una causa per diffamazione, andiamo a processo? Non vale la pena, ecco perché

Come ci siamo ridotti. Come siamo depressi, come ci pensiamo sfortunati, a che vita afflitta ci stiamo votando. C’è una perdita di fiducia verticale, chi ha l’ansia climatica, chi ha l’ansia del mutuo, chi fa un lavoro che non gli garba e gli pare di morire col burn out e poi non muore e continua a lavorare. E’ un clima opposto e simmetrico a quello degli anni Ottanta, pare sempre che qualcosa di tremendo e pesante stia per piombarci in testa, dopodomani, tra mezz’ora. Sono finiti gli ottimisti anche in America, yes we can no more. Si va a letto sempre più presto. La questione preoccupa non solo perché non siamo più di compagnia e stentiamo a fare figli o a tenerli su di morale, questi ragazzi, ma anche per conseguenze più immediate e cretine. Avrete certamente notato che ci è cambiato collettivamente il carattere, negli ultimi tempi siamo molto inclini al risentimento. Torti minimi ci fanno piangere, perfino leggere idee altrui che risultano sgradite fa l’effetto di prendere sassate.

Uno non se ne accorge, serve pure un atto di umiltà per farsi l’autodiagnosi: appena sei triste, diventi moralista. E’ un’equazione infallibile. Il felice è distratto, l’infelice è moralista. Basta girarsi intorno. Ci si offende per tutto. Per il babbo, la mamma, per la figlia della sorella, per il cane se ti dicono che non può entrare al ristorante e tu insisti che è educato. Ci si offende per sé specialmente se non ci riconoscono come pezzo di umanità che soffre.  Ci si offende per le maggioranze, le minoranze, per cose di scarso conto, per cose enormi che sfuggono all’umana possibilità di mutarle. Ci si offende per procura.
Che hai fatto in questi anni? Mi sono offeso.

E’ una pratica però che non si svolge più dal vivo. Nel passato per offendersi serviva almeno uno sgarbo, un pettegolezzo. Parlarsi. Conoscersi. Oggi è facile mortificarci anche senza innesco, senza polvere da sparo, avviene così, con naturalezza, come una forza di gravità. Ce le andiamo a cercare. Chiunque è a rischio di offendere il prossimo suo, volontariamente o per caso, succede anche indipendentemente da atti precisi di volontà. Ma come? – uno si dice. Offendo qualcuno senza sapere, senza capire, ignorando perfino chi è? 
Eppure, eppure.


Conosciamo tutti qualcuno di intelligentissimo che su un social network è finito come Willy Coyote, schiantato contro un muro sul quale ha lasciato un buco a forma di ciò che era, mentr’era in fuga da invasati che gli rinfacciavano sbagli che non s’era accorto d’aver fatto. Abbiamo tutti un amico che poi ci ha detto “Ma io ho solo detto cose che potrei dire tranquillamente a cena e nessuno se ne scandalizzerebbe”, o che s’intratteneva a spiegarci (e a volte, illuso, pretendeva di spiegarlo anche ai commentatori offesi, furiosi, sdegnati) il valore iperbolico o antifrastico dell’affermazione per la quale l’internet per un giorno lunghissimo lo aveva massacrato. (Guia Soncini, L’era della suscettibilità, Marsilio). 

E’ successo che il diritto d’opinione s’è allargato a dismisura. Attraversa i mari, fende l’aere. S’è data una spropositata importanza a proporre tutti i giorni la nostra certa idea di mondo, solo i cafoni dello spirito non hanno opinione. Al prezioso parto segue poi il necessario schierarsi, pena un’ignavia percepita che è il peccato mortale totale. Nota a margine: l’indifferenza di cui si parla non è quella del secolo scorso, sorella cattiva della dignità. E’ un non prendere parte alle più fesse battaglie contemporanee.

Incredibile ma ce ne dimentichiamo anche la fatica, delle opinioni, visto che al liceo eravamo pregati di averne, di opinioni, e i professori erano costretti a estorcerle nel giorno deputato, il compito in classe di italiano.

Ma l’opinione online è un’altra cosa, più facile, più oliata. Intanto, è una scoperta americana del 2004, l’hanno fatta arrivare dalla California assieme ai social network. Prima della dittatura Zuckerberg, alle nostre opinioni non badava nessuno, neanche noi. L’opinione era una faccenda per nicchie professionali, dottrina per gli altri. L’uomo comune l’adoperava poco: la manifestazione del pensiero chiede sempre un minimo di pubblico e l’uomo comune non ce l’ha. Sei davvero invogliato a esprimerti, se non ti notano mentre ti esprimi? 

A Palo Alto avevano capito: per monetizzare bene gli articoli 21 del mondo si doveva risolvere il problema della vanità. Ci voleva una platea forzata per tutti. La crearono, ed eccoci qua: con la vita che dipende dai social, i fidanzati che si trovano sui social, i nuovi lavori generati dai social, la crisi dei giornali conseguenza dei social, la depressione infantile dilagante venuta dai social, e tutta la baracca non chiude mai, nemmeno quando te ne vai a Domineddio, perché ti rammentano pure quando sparisci. Esisti ancora, sui social. Anche i morti sono notificati. Non esiste un Ei Fu.

Un sabato mattina dell’autunno 2014 ho annunciato, sul mio modesto feed di Twitter, il mio nuovo corso universitario: “Il mio corso, intitolato ‘Perdere tempo su Internet’, si terrà alla Penn University il prossimo semestre”; allegavo un link dove si poteva leggere la descrizione del programma: 
Passiamo la vita davanti agli schermi, principalmente prendendo tempo: teniamo d’occhio i social media, guardiamo filmati di gatti, chattiamo e facciamo acquisti. E se invece usassimo tutte queste attività – cliccare, messaggiare, aggiornare il nostro profilo, navigare a caso – come materiale grezzo per creare opere letterarie avvincenti ed emozionanti? Potremmo ricostruire la nostra autobiografia usando soltanto Facebook? Potremmo scrivere un grande racconto saccheggiando il nostro flusso di Twitter? Oppure definire Internet come il più grande poema mai scritto? Utilizzando soltanto il nostro computer portatile e un collegamento Wi-Fi, il corso verterà su una rivalutazione della navigazione in Internet senza scopo e la trasformerà alchemicamente in una importante opera letteraria. Agli studenti verrà richiesto di fissare lo schermo per tre ore, interagendo solo attraverso le chat Room, i BOT, i social media e LISTSERV. Per fornire un sostegno teorico alla nostra pratica, esploreremo la lunga storia della rivalutazione della noia e dello spreco di tempo attraverso la lettura di testi critici. Capacità di distrazione, versatilità (multitasking) e deriva senza meta sono da considerarsi requisiti obbligatori. Quando ho controllato poche ore dopo il tweet era diventato virale, accompagnato da commenti come “Ehi ma io in questa materia mi ci sono laureato”, e “Sarei il primo della classe”. Nel mio flusso compariva anche una richiesta per un’intervista da parte di Vice, intervista che ho concesso il giorno successivo. Poco dopo nella mia casella di posta elettronica ho trovato un messaggio del Washington Post; anche loro chiedevano un’intervista, e l’ho concessa. Da quel momento, tutti i giorni venivo inondato da richieste di interviste, che però ho declinato ad eccezione di alcune trasmissioni per le televisioni generaliste. Le esche che gettavo diminuivano, di conseguenza i media vennero colti da una frenesia alimentare che finì con il consumare sé stessa. Dopo le due interviste per Vice e per il Washington Post notai che una serie di siti notizie di seconda fila riproponeva sostanzialmente gli articoli di Vice e del Post nella loro interezza, infilandoci nuove frasi di apertura e chiusura, cambiando il titolo e aggiungendoci il nome dell’autore. Era una dimostrazione pratica non solo del modo in cui l’informazione si diffonde in un mondo di taglia-e-incolla, ma anche di quanto poco tempo impiega a degradarsi e diventare disinformazione distorta
. (Kenneth Goldsmith, Perdere tempo su Internet, Einaudi).


La storia successiva la conosciamo, confidenza divenne mala creanza ed eccoci qui, ogni giorno, naufragati in questo mare di gente sconosciuta che si odia da lontano, si insulta fino ai paccheri, trova i pretesti per la rissa. Le persone leticano tutto il tempo, lassisti contro moralisti. E’ un continuo ininterrotto. Per non parlare di quello che ti dicono dietro, come una salumeria di paese, ma più maligna, più precisa.

E così, sputati metaforicamente in faccia, vilipesi sui social, è difficile non aver pensato mai una volta in questi anni: ti faccio causa! Ci siamo passati tutti. Sono perfino germogliati avvocati ad hoc, quelli che ti lisciano promettendoti grandi ricompense risarcitorie. Ti hanno mancato di rispetto? Hai episodi d’odio al passivo? Chiamami, diventi ricco. Finisco con le lunghe premesse. Questo lungo articolo è il mio invito alla rinuncia. A lasciar perdere, a non chiamare nessun avvocato, a trovare soddisfazione su altri livelli e speriamo a non offendersi mai più.

 

La diffamazione a mezzo social

Sui social network, come nella vita: diritto di critica sì, espressioni offensive no. Scrivere che qualcuno è un camorrista, un corrotto, un prostituto non è consentito, nessuna indulgenza è prevista. Sono espressioni non tollerate dal vivere civile e dall’ordinamento, e se pubblicate possono senz’altro integrare il reato di diffamazione. 

Che vuol dire diffamare? Per il codice penale: offendere la reputazione e l’onore di una persona. E’ un reato tipizzato dall’articolo 595. Odiare, prima cosa, non si fa da soli. Non basta il diario segreto o lunghe conversazioni immaginarie in cui dai del coglione a qualcuno. Il soggetto che delinque dovrà comunicare con  più persone in maniera effettiva. Dire/scrivere coglione in un contesto. A un destinatario identificabile. Questo contesto di quante persone è? Almeno due. Possono essere anche non presenti nello stesso momento. Altro requisito richiesto dalla legge per il puzzle risarcitorio è l’assenza del diffamato. Il coglione non ci deve essere. Bisogna che gli si parli alle spalle. Il momento della consumazione del reato è individuato nella consapevolezza, nella percezione da parte del terzo delle parole diffamatorie. Fin qui sembrerebbe quasi facile. Diventa meno facile se approfondiamo lo studio. Prendiamo proprio il termine: coglione. 

Se io dico: “Quello è un coglione”, non c’è reato di diffamazione se chi insulta intende, con tale termine, il significato di ingenuo, sprovveduto (Cass. n. 34442/2017). E come lo sa il giudice che cosa intendono, dicendoti coglione? Esagero io o minimizza il magistrato? E’ una storia lunga, e principia da molto lontano. Intanto, siamo diventati iperemotivi. 

L’affezione è quella temperatura emozionale spesso invisibile che pervade tutte le situazioni sociali, come ad esempio quando entrate in una stanza e percepite una tensione “che si taglia col coltello”, per quanto non vi siano segni visibili di quella tensione. E’ simile a quando siete spaventati, e vi accorgete di avere i palmi sudati, una reazione tangibile che – eccettuate le strette di mano – è per lo più invisibile agli altri. I palmi sudati sono una pre-emozione dell’affezione, opposta alle emozioni conclamate che si esprimono urlando, ridendo, piangendo. Forse il più famoso esempio di affezione è la salivazione del cane di Pavlov, L’affezione è un insieme di lampi, sfumature, stati d’animo. E’ contagiosa, e passa rapidamente da un corpo a un altro, trasmettendo a chi sta vicino microemozioni e microsensazioni che sono estensioni pulsanti del nostro sistema nervoso. Le nostre vite online sono sature di affezione, le nostre sensazioni vengono amplificate e proiettate dal network. I nostri network wi-fi, veicoli dell’affezione, sono invisibili ma onnipresenti, e trasmettono attraverso l’etere pulsazioni e sensazioni che, una volta visualizzati sui nostri schermi, hanno il potenziale di tradursi in emozioni. Sarebbe lungo spiegare quanto la pratica di frequentare i social network sia iperemozionale, anche su una piattaforma così fredda. L’affezione spiega perché certe cose diventano virali nella rete. L’affezione, forza invisibile, rende contagiosa ogni cosa. (Kenneth Goldsmith, Perdere tempo su Internet, Einaudi)

 

Perché scrivere insulti innocenti sui social può integrare diffamazione


Quello sui social è un particolare tipo di diffamazione. E’ punito con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa minima di 516 euro chi offenda l’altrui reputazione comunicando con il mezzo della stampa o con un mezzo di pubblicità. La Cassazione ritiene che i social network vadano considerati mezzi di pubblicità. Ergo: diffamazione aggravata. Per la giurisprudenza si configura un’ipotesi aggravata perché si tratta di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone (Cass. n. 50/2017). E’ una costruzione giuridica delicata, la diffamazione. Una costruzione molto sensibile, molto incerta, lascia uno strano spazio di manovra, all’operatore del diritto.  Un esempio: dare del pregiudicato può integrare il reato di diffamazione, anche se lo stesso è indirizzato a un soggetto che sia già stato condannato con sentenza definitiva? Sì, se l’uscita appartiene a un contesto offensivo e diffamante (Cass. n. 475/2015).  E non è un controsenso? Che vuol dire? Vuol dire che dipende. Come tutto, nella vita. Non vi dico in tribunale, come dipende.

 

Agire in giudizio

A volte l’offesa è troppo forte e uno non resiste.  Sono stato diffamato! Proprio io! Come osano! Hai deciso, devono pagare. Non si può lasciar correre così. C’è un’etica, va rispettata, una lezione  questi bulli online se la meritano, così la prossima volta imparano. All’inizio è semplice. Raccogli le prove, devi solo estrarre uno screenshot della conversazione. In particolare del commento diffamatorio. Grazie al commento e al nominativo, le forze dell’ordine riescono a individuare chi ti ha diffamato. Con le successive indagini risaliranno al codice ID (paghi le tasse, questi sono i servizi minimi garantiti al cittadino), ovvero il codice numerico che identifica l’account di ogni utente iscritto a un social network e all’indirizzo IP, i.e. il punto da cui è registrata la connessione internet.

Trovato il malfattore che ha offeso, dovrà essere presentata una querela, allegando come prova lo screenshot. Qui la prima scelta si impone alla vittima: vai da un avvocato penalista oppure ti rechi presso la caserma più vicina? Per un querelino fatto bene un avvocato chiede 1.500 euro, e tu dici: ma come? Tutti questi soldi? L’offesa è ancora calda, caldissima, ma non li vuoi pagare. La vita è un pendolo continuo tra compro e non compro. Vai in caserma dai carabinieri. Veloce, gratis, indolore.

Veloce non tanto. Caserma dei carabinieri, ore 12.30 di mattina. Dopo tre ore di attesa ti ricevono. Ti chiedono che è successo perché hai la faccia di uno a cui non è successo proprio niente. Con la voce bassa da persona apertamente maltrattata rispondi: “In una conversazione social mi davano del coglione. Voglio denunciare”. I due carabinieri si guardano sottecchi, cercano di sopprimere un sorrisetto da compari ma hanno vent’anni e non ci riescono, stanno pensando in modo inequivocabile che se sei andato a fare una fila di tre ore in caserma, e per questo sei davvero un coglione.  Bisogna ingoiare il rospo. Fare giustizia a questo mondo si paga o in soldi o in dignità. Dopo la presentazione della querela inizieranno le indagini volte all’individuazione del colpevole. Quando inizierà il processo penale (se inizia) potrai costituirti parte civile e chiedere un risarcimento del danno all’autore del reato. 


Qualche tempo dopo

Ce l’hai fatta! Inizia il processo penale! Nota a margine: sono passati quasi due anni da quel coglione, il processo è incardinato presso gli uffici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Ce). E’ lì che risiede l’aggressore, tu vivi a Brescia. Ora l’avvocato ti serve. Dai incarico e paghi parcella. Millecinquecento euro. Ti avverte che dovrai presenziare all’udienza. “Ma in che senso devo andare a Caserta? Da Milano? Sono io l’offeso, perché dobbiamo andare noi a Caserta?”. Perché sì. Competenza territoriale, si chiama.

 

La competenza territoriale

Il giudice competente in caso di diffamazione sui social è scelto con un criterio preciso: il luogo del domicilio dell’imputato (Cassazione, sez. V, sent. n. 854/21).
L’offeso si armi quindi di altra pazienza e apra il borsellino. La giustizia varrà bene due spicci. Dovrà prendere un aereo per Napoli, noleggiare una macchina in aeroporto se non vuole prendere venti treni, spostarsi fino in provincia di Caserta, trovarsi un hotel e pagare il soggiorno per presenziare all’udienza. Le stesse spese, anche per l’avvocato. A meno di non nominare un domiciliatario, ovvero un avvocato in loco. Un altro, oltre al tuo di fiducia. Anche lui, bisogna pagarlo. La spesa per sentirti offeso ammonta già a 3.500 euro circa. Qualcosa nella coscienza vacilla: la giustizia a questo mondo vale lo sforzo fatto per averla? Li rivedrai, tutti questi soldi d’avvocato, o li stai buttando? Speriamo bene.

 

Il giorno dell’udienza

Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Il tribunale non è come te lo aspetti. La legge non ha stanze solenni, ha solo stanze piene di gente parecchio scocciata. L’offeso non sa cosa ci fa lì. Una scemenza successa due anni fa, manco ti ricordi come si chiamava quello, ma chi te lo ha fatto fare. Tu e il tuo avvocato sembrate Totò e Peppino con la morìa delle vacche. Ma come hai fatto a offenderti perché uno che non ti conosce ti ha dato del coglione? Peraltro, apprenderai dalla sentenza, che non ti sono dovuti soldi per esserti sentito offeso. Hai preso un abbaglio. Ti hanno detto coglione intendendo fessacchiotto. Il giudice aveva l’aria di essere amico dell’avvocato avversario: un dubbio gelido ti attraversa la schiena, ma non è che pure la giustizia funziona con gli amichettismi?

Il prezzo dell’offesa

Ma se avessi vinto, cos’era il premio? Chi decide quando costa offendere? La quantificazione poggia sui criteri fissati dalle Tabelle di Milano in materia di danno da diffamazione a mezzo stampa (Cassazione, n. 18217/2023). Sono considerate un valido parametro per determinare il danno da diffamazione. Il tariffario dell’offeso considera la minore o maggiore gravità delle parole. In presenza di una diffamazione di tenue gravità l’importo risarcibile varia dai 1.000,00 ai 10.000,00 euro, nel caso di modesta gravità potrebbe essere riconosciuto un danno dal valore compreso tra gli 11.000,00 e i 20.000,00 euro, se la diffamazione è di media gravità la somma risarcibile può variare tra i 21.000,00 e i 30.000,00 euro, mentre in caso di offesa di intensa gravità il danno può essere quantificato tra i 31.000,00 e i 50.000,00. Infine, nell’ipotesi in cui venisse riconosciuta una condotta diffamatoria di eccezionale gravità il danno è liquidabile in importo superiore ai 50.000,00 euro. 

 

La gravità

E come si fa a stabilire quanto le parole malvagie ti hanno scorticato? Chi può dirlo? Come riesce un giudice a sapere come ti sei sentito quella sera? Si immedesima? Figurati. Lui ha il problema eterno della legge: oggettivizzare. Aggrapparsi da qualche parte per decidere. I magistrati faranno riferimento ai criteri individuati dalla giurisprudenza e dunque, ex multis, eccoli: il mezzo con cui è stata realizzata la diffamazione, la natura della condotta diffamatoria o la rettifica successiva, l’intensità dell’elemento psicologico. E l’intensità dell’elemento psicologico dove la prende? La natura della condotta? Ma che è la natura della condotta? Chi gli dice con certezza quale sia il grado di stronzaggine malevola di qualcuno?  

Appunto. Ma soprattutto: chi ha voglia di indagare? A quale giudice piacerebbe approfondire come ti senti dopo che ti hanno scritto coglione? Ma a chi importa, a parte te? E così scopri che la legge non ha pazienza e non ha pietà. E che non arricchisce mai nessuno. Che offendersi è peggio che soffrire, non serve a niente e ti sale pure la pressione.

Le altre possibilità

Inutile pensare a mezzucci alternativi, evitarsi la causa con intimazioni micromafiose, agire da furbi e far telefonare da un avvocato e blandamente adombrare il sospetto: se non mi paghi procedo con querela. Si chiama estorsione. Peraltro, a parte il reato, gli avvocati hanno un codice deontologico che no, non consente di chiamare nessuno per dire: io ti denunzio! 
Ecco allora ristabilito un poco di principio di realtà: nessuno studio legale con un minimo di decenza e senso per la professione consiglierebbe niente, in caso di offese social. Perché la procedura è lunga, costa, urta i magistrati e fa fare brutta figura bagatellare, può finire dopo anni e ricavi, se tutto va bene, quattro pidocchi. In più: già i tribunali sono così pieni di carte che crollano, e sono lenti, le cause importanti dormono, ci mettiamo pure noi feriti nell’onore?  Desistere, desistere, desistere. Siamo nell’èra in cui le cose si guastano rapidamente, e l’assolutismo morale è diventato cosa infantile.

 

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