Pieter Bruegel il Vecchio, Il trionfo della morte, 1562 circa

La paura in questa vita a metà

Mirko Volpi

Non temere la solitudine, saper farsi asceta: l’importante è darsi un ordine. Una pioggia nient’affatto manzoniana non fa da scopa. Ma forse domani il cielo sarà di nuovo azzurro

Uno sguardo d’autore sulla vita che cambia con la diffusione del coronavirus, l’emergenza sanitaria, la paura del contagio, l’Italia “chiusa in casa”. E’ quello che il Foglio propone con una serie di storie di scrittori e foglianti. In questa pagina, il racconto di Mirko Volpi. Nato a Nosadello (Cremona) nel 1977, Volpi è ricercatore nel dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Pavia. Si occupa soprattutto di Dante, ma anche della lingua del giornalismo e della politica tra Otto e Novecento. Nel 2015 ha pubblicato “Oceano Padano” (Laterza).

 

Per “Io e il virus” abbiamo già pubblicato i racconti di Antonella LattanziAurelio Picca, Nicoletta Tiliacos, Francesco Permunian, Giacomo PorettiSaverio Raimondo e Paolo Nori


 

Oggi il cielo è azzurro. Ne guardo uno spicchio dalla finestra della stanza di Ludovico, ficcando il viso nelle liste del cancelletto di sicurezza che serve a scongiurare l’indicibile in caso di avventure acrobatiche dei bambini, di curiosità vertiginose da secondo piano, da aria fresca a vetri aperti. Seduto alla scrivania, per riposare gli occhi dal troppo computer, dal troppo scrivere, dallo smisurato leggere, guardo al cielo così, attraverso una specie di grata, le sbarre di una cella di cui ho la chiave. Quella in cui mi sono rinchiuso allo scoppio dell’emergenza, della progressiva diffusione del male, da circa dieci, dodici giorni. E’ una prigione che si chiude da dentro, e io non esco mai.

 

Ho portato la famiglia, moglie e i nostri due figli piccoli, dai nonni, in Ossola. L’aria è buona, il contagio (ancora per quanto?) lontano. Siamo partiti di domenica, la domenica del caos e della prima settimana di scuole chiuse, quella delle inquietudini incipienti e dei supermercati svuotati dalla subitanea, irrisa angoscia (non devi parlare di Manzoni, non devi citare l’assalto ai forni, non devi scrivere di Renzo, del vicario di Provvisione, di Ferrer, “adelante, si puedes, un po’ di luogo, di grazia”, delle reazioni della pazza folla, e non giudicare la vituperosa canizie di quel vecchio razziatore di scatole di fagioli e di pasta in offerta che perfino a Domodossola reclama il proprio diritto a non crepare di fame, a non soccombere, un’altra volta, alla spietatezza della storia, alla crudeltà delle statistiche, al conto inesorabile degli anni – non farlo, non cercare il facile rifugio letterario abitato con i panni curiali di una scontata abitudine professionale, la forzatura sillogistica, la sviante comparazione), e, attraversate A7 e Tangenziale Ovest e A8 e A26 insolitamente vuote, li ho lasciati lì. Tornato a Pavia, la notte stessa, lungo autostrade parimenti deserte che sembravano per la prima volta in vita mia ricondurmi in luoghi confusamente ostili, e controllata la dispensa e verificati i libri e gli altri materiali necessari a lavorare, mi sono messo in isolamento. Niente asilo per Ludovico, niente tata per Agnese, niente lezioni a scuola per mia moglie, niente lezioni o altri impegni in università per me. L’ordinato procedere delle cose non poteva che imporsi così e prevedere l’unica soluzione possibile, nella coniugalmente comune fortuna di mansioni interrompibili, rimandabili. Faremo dipendere le nostre trascurabili sorti dai bollettini ufficiali degli alti comandi, dai comunicati di autorità in divisa e maglioncino. Dai referti di un’inattesa insidia.

 

Codogno e le altre isole sorelle e segregate di questa così emblematica fetta di Oceano Padano posta a guardia del penultimo confine prima che l’Adda riversandosi in Po sancisca la fine del Lodigiano, sono a quaranta chilometri da qui. E un tragitto ancora minore le separa da Nosadello, il mio paese d’origine, collocato più a nord, dove ancora stanno i miei parenti, mio fratello, mio nipote, i miei vecchi decisamente over sessantacinque (mio padre guardando ormai più agli ottanta che ai settanta – e che stranezza, prima di tutto questo non ci avevo mai pensato, i suoi capelli che non hanno preso mai nemmeno un filo di bianco, la postura eretta, una dinamica vitalità nonostante i più o meno recenti e pesanti interventi, nulla mi aveva portato a far di conto, fino ad ora, fino alle diffuse precauzioni, agli appelli istituzionali, ai precisamente sciorinati limiti anagrafici che gli precluderebbero i soliti giri al bar, le settimanali partite a biliardo. Ogni due giorni, senza esagerare ché siam pur sempre figli di zolle antisentimentali, chiamo mia madre, non farlo uscire, le dico, diga da stà ’n cà, da möess no, la lingua d’uso famigliare pare stemperare le preoccupazioni a cui non so dare esatti contorni, le giuste proporzioni).

  

Provo ad astenermi dal tornare a Dante, ai versi pestilenziali e naturalmente sproporzionati di Inferno 29 che nessuno cita

Io non ho paura. Ma vivo come se l’avessi. Lavoro da casa, vago in salotto resistendo alla tentazione di parlare da solo, cambio l’aria nelle stanze, registro i podcast delle lezioni del corso dantesco che avrei dovuto iniziare a tenere in aula la scorsa settimana (uno vorrebbe, vorrebbe tanto evitare di cadere ogni volta nella letteratura, nel gioco citazionistico, nell’aggancio colto e in qualche balordo modo significante, ma qui davvero sono in reclusione in compagnia solo di Dante, in un serrato corpo a corpo, e lo rileggo, lo studio, lo spiego chissà come, mi ci perdo, provo ad astenermi dal tornare ai versi pestilenziali e naturalmente sproporzionati di Inferno 29 che chissà perché nessuno cita: “Non credo ch’a veder maggior tristizia / fosse in Egina il popol tutto infermo, / quando fu l’aere sì pien di malizia, / che li animali, infino al picciol vermo, / cascaron tutti, e poi le genti antiche, / secondo che i poeti hanno per fermo, / si ristorar di seme di formiche; / ch’era a veder per quella oscura valle / languir li spirti per diverse biche”, eccetera, eccetera). La sera scongelo il pane, metto in forno i Sofficini, conto le cialde di caffè che mi rimangono, fumo in balcone cercando di divinare i pensieri degli sparuti passanti che sfilano svelti davanti al mio palazzo. Poi, telefono in val d’Ossola, a volte videochiamo, Ludovico, Agnese, salutate il papà!, rendiconto a Barbara il nulla delle mie giornate (loro le passano al parchetto desolato, in cortile, davanti ai cartoni, Ludovico ha imparato sùbito il nome del male che ignora, puro flatus vocis vagamente relato alla da lui poco rimpianta chiusura a oltranza dell’Asilo Club, mentre mia moglie non si dà pace delle poche cautele degli improvvidi domesi, residenti ai confini del dominio del contagio). Se Agnese non chiude come suo solito la chiamata con gesto fulmineo del ditino, faccio in tempo a dire ciao, quanti giorni son passati, domani, certo, ci risentiamo. Siamo ligi e ragionevoli, e siamo lontani.

 

La sera scongelo il pane, conto le cialde di caffè che mi rimangono, fumo in balcone cercando di divinare i pensieri degli sparuti passanti

Non ho paura. Faccio parte di quella nutrita genìa di chi in fondo pensa “perché dovrebbe toccare proprio a me?”, l’ottimismo come forma estrema di pigrizia, di negligenza intellettuale. Eppure vivo in quarantena, libera e autonominata enclave rossa nella zona gialla tendente ormai all’arancione, benché non sia né sia stato a rischio, io, né venuto a contatto con persone a rischio. Il clima non è bello, nonostante il vento teso abbia finalmente allontanato di un poco le polveri inquinanti che così spesso gravano sulla sterminata pianura; la pioggia nient’affatto manzoniana dell’altro giorno non ha fatto da scopa, non ha spazzato via alcunché; restiamo, così, fidenti, nell’attesa, fermi nelle decisioni, e mi accorgo una volta di più che non vedo un’anima da dieci giorni, che probabilmente quando metterò il muso fuori dalla tana sentirò che qualcosa sarà cambiato. In me, nella città, nelle modalità di relazione, nello sguardo, nei furtivi sussulti. Refrattario come sono ai cambiamenti, alle novità, alle faticose variazioni d’asse e di prospettiva, rimando per questo le uscite, le calendarizzate boccate d’aria, le chimeriche passeggiate rigeneranti sul Naviglio, e nel pensier mi fingo una quarantena illimitata, il prolungamento della sospensione, la proroga indefinita di questa vita a metà. Ma è breve sogno, vergognosa acquiescenza. La situazione che avverto attorno a me, di là dal muro che mi separa dal mondo, non blandisce nemmeno la mia congenita riluttanza agli spostamenti, ai viaggi, ai così spesso inutili movimenti nello spazio geografico ora potenzialmente infetto in ogni suo sconosciuto angolo.

 

Continuo a non aver paura, nonostante i numeri e l’analisi dello stato delle cose fatta a cuore duro e a ciglio asciutto – forse sono solo al riparo nella rarefazione del mio bozzolo obbligato, lontani i figli, nella tranquillità di un’imprevista vacanza. Non temo la solitudine, so farmi asceta e anacoreta: l’importante è darsi un ordine, scandire il tempo con esattezza, guardar fuori dalla finestra ogni paio d’ore. Le notizie, pare, peggiorano. Mi adeguo, prevengo, ho un poco ancora di Amuchina razionata, il vicino di casa lo chiamo al cellulare per non sbagliare, rimando a data da destinarsi la consegna in lavanderia delle camicie. Non ho nemmeno il polso della situazione reale della mia città, qui a Pavia; ho solo il mio, di polso. E non so nemmeno bene cosa segni, a quali ritmi batta o tremi.

 

Sento perfettamente il mio vivere in Lombardia, il mio essere, non so bene come ma ora come non mai, lombardo

Eppure, benché rinchiuso e avulso da qualsivoglia commercio sociale (e in queste condizioni carcerarie, davvero, potrei essere ovunque e all’apparenza non ci sarebbe alcuna differenza), sento perfettamente il mio vivere in Lombardia, il mio essere, non so bene come ma ora come non mai, lombardo. Sotto un assedio mobile, invisibile, subdolo, vige una poco loquace adesione agli eventi, alle imposizioni delle ordinanze. Misurate sono anche le infrequenti intemperanze, le perplessità sbuffate a mezza bocca. Mentre affastello nella mente tutti i dati più o meno utili e le ultime notizie e le più recenti dichiarazioni, e mi ingorgo di informazioni e statistiche, e torno dopo mesi o forse anni a sentire tutti i telegiornali nazionali e regionali e addirittura gli sconfortanti approfondimenti in prima serata, e mentre poi cerco un conguaglio di esistenze reali e una parvenza di normalità nell’usuale scrollata della homepage di Facebook, avverto uno strano peso, un’incrinatura, un principio di infezione che gli starnuti nei gomiti non bastano ad arginare. E’ lo strazio delle intelligenze, il vilipendio delle parole, l’esercizio facile e stucchevole di retorica a buon mercato – quella che fa dell’ignoranza o del razzismo o del capitalismo o della psicosi o della più neutra ma non meno sciocca paura il più potente e pericoloso morbo oggi in circolazione. Avverto una gravosa sensazione di saturazione, una nausea da lettura e ascolto di commenti, di battute, di non-soluzioni. E io invoco fra me e me misure restrittive di contenimento verbale che ci riducano a meno dilazionati silenzi e impediscano che del virus si faccia continuo e logoro simbolo (allora tanto vale sparare alto, o basso, a seconda delle sensibilità, cedere all’esibizionismo paraculturale e riversare sui metaforisti progressisti e regressisti il laico Boccaccio – mi tocca venir meno agli iniziali buoni propositi – che all’inizio del Decameron dice della “mortifera pestilenza” del 1348 che è stata “per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali” – e inique sono davvero troppe opere delle nostre lingue, in questi giorni). Il virus non è una metafora. Un virus è un virus è un virus.

 

Avverto una nausea da lettura e ascolto di commenti, di battute, di non-soluzioni. E invoco misure restrittive di contenimento verbale

Dal confino lombardo, ci tocca, esausti ma non vinti, prendere atto perfino dei nostri spregiatori, assieme al resto della vociante pletora, i minimizzatori e i sottovalutatori, gli apocalittici e gli sbruffoni, gli sprezzanti e i polemici, gli allarmisti e fatalisti, gli esperti e i controesperti (dei “medicanti”, dice ancora Boccaccio profetizzando i moderni laureati in medicina su Google, “oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo”), le maggioranze e le opposizioni, i complottisti e i dietrologi, gli “è poco più che un’influenza” e gli “allora chiudiamo anche i supermercati!”, i lontani col sopracciglio alzato e i lontanissimi pressoché ignari, i battutisti e i cinici a perdere, i pallidi esteti (“Sfruttiamo questi giorni per riscoprire la bellezza e l’arte e il tempo vuoto”) e i seguaci di Jacopone da Todi (“O Signor, per cortesia, / manname la malsanìa! / A mme la freve quartana, / la contina e la terzana, / la doppla cotidiana / co la granne ydropesia. / A mme venga mal de dente, / mal de capo e mal de ventre”) – in questa impreveduta, deprimente messa alla prova collettiva.

 

Sole, o quasi, tolti i pareri di pochi assennati, degne di memoria e lode mi sono parse le parole del parroco di Castiglione d’Adda, don Gabriele Bernardelli, sodo prevosto campagnolo, che in un messaggio vocale alla propria comunità, in cui annuncia la solitaria celebrazione della messa domenicale, cita il profeta Gioele e confessando d’aver pianto davanti al tabernacolo esorta: “Pregare significa già sperare”. Quando l’ho sentito, mi è sùbito venuta alla mente la toccante scena in cui don Camillo, in ammollo nella chiesa deserta e allagata per l’alluvione, benedice e conforta a distanza i fedeli: “Un giorno, però, le acque si ritireranno, e il sole ritornerà a splendere”.

 

Forse domani, guardandolo ancora dalla stanza di mio figlio, attraverso le sbarre, il cielo sarà di nuovo azzurro.

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