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io e il virus

La mia febbre salita a 37 e 5

Paolo Nori

La paura di una sera, il sollievo del mattino dopo. La casa sempre in ordine, non si sa mai, e i progetti di un “ipercondriaco”. Ma non è successo quasi niente, come in certi romanzi

Uno sguardo d’autore sulla vita che cambia con la diffusione del coronavirus, l’emergenza sanitaria, la paura del contagio, l’Italia “chiusa in casa”. E’ quello che il Foglio propone con una serie di storie di scrittori e foglianti. In questa pagina, il racconto di Paolo Nori. Scrittore, slavista e traduttore (dal russo), Nori è nato a Parma nel 1963. “I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991” (Utet, 2019), il suo ultimo libro.

 

Per “Io e il virus” abbiamo già pubblicato i racconti di Antonella Lattanzi , Aurelio Picca, Nicoletta Tiliacos, Francesco Permunian, Giacomo Poretti e Saverio Raimondo

 


 

Questo coronavirus, all’inizio, era una cosa che succedeva in Cina e io, all’inizio, non ci ho fatto troppo caso. La Cina era così lontana.

 

Dopo, la prima notizia che mi ha colpito veniva dalla Russia. Che io, quando vado in giro in bicicletta, dove abito, tra Bologna e Casalecchio di Reno, sento la radio, con le cuffie, e ogni tanto sento una radio russa che si chiama “Govorit Moskva”, che significa, “Parla Mosca”, e i primi giorni di febbraio su Govorit Moskva parlavano del coronavirus e un signore ha detto che non c’era da preoccuparsi poi tanto, perché il coronavirus è un virus che muoiono solo i vecchi e quelli che già non stan tanto bene.

 

Dopo, qualche giorno dopo, il 21 febbraio, sono andato con mia figlia in palestra.

 

Mia figlia, che ha quindici anni, e che, quando scrivo di lei, la chiamo La Battaglia, nei primi tredici anni della sua vita è stata probabilmente la persona con cui ho parlato di più.

 

Dopo, negli ultimi due anni, un tracollo.

 

Sua madre, che crede di saperne più di me, dell’educazione dei figli, e probabilmente ha ragione, dice che è normale: adolescenza, si chiama, dice la madre della Battaglia.

 

Qualche settimana fa le ho telefonato, alla Battaglia, le ho fatto tipo sette domande e lei mi ha risposto, a tutte: “Sì”.

 

Io, dopo il settimo sì, le ho detto “Puoi usare anche un’altra parola, non so, ‘malinconico’?”.

 

Lei ha taciuto un attimo poi mi ha detto “Devo studiare storia dell’arte”.

 

“Grazie”, le ho detto io.

 

Allora i momenti che andiamo in palestra, una volta alla settimana, sono momenti che io son contento, che almeno parliamo un po’.

 

E anche il 21 settembre, abbiamo parlato un po’.

 

Che lei, la Battaglia, quando sono uscito dallo spogliatoio dei maschi, l’ho trovata appoggiata al muro dello spogliatoio delle femmine che mi guardava e mi ha detto “Primi due casi di coronavirus in Italia”.

 

Ecco.

 

Lì, il coronavirus, per me ha smesso di essere una cosa cinese e è diventata una cosa, non so come dire, Made in Italy, in un certo senso, cioè anche nostra, ha cominciato ad avere a che fare con la nostra quotidianità e anche con la mia.

 

Due giorni dopo, domenica 23 febbraio, sono partito per Torino per andare a vedere Torino-Parma, che mi avevano chiesto di commentare per una trasmissione televisiva che si chiama “Quelli che il calcio”. Io, che sono tifoso del Parma, avrei visto la partita insieme a dei tifosi del Torino, i componenti di un gruppo che era appena stato a Sanremo, gli Eugenio di via di Gioia.

 

Quella domenica, il 23 febbraio, è stata la prima domenica che hanno sospeso delle partite, quelle delle zone a rischio, Inter-Sampdoria, Verona-Cagliari e Atalanta-Sassuolo, se non ricordo male .Torino-Parma non l’avevano sospesa, quando sono partito col treno verso le 10 del mattino.

 

Era un mattino strano, che i baristi, al bar della stazione di Bologna avevano i guanti da chirurgo. E uno di loro mi ha chiamato “Zio”. Prima volta che vedevo quei baristi con i guanti da chirurgo, e prima volta che un barista mi chiamava “Zio”.

 

Dopo, verso le 11, quando stavamo per arrivare a Milano centrale, han deciso di sospendere anche Torino-Parma. Allora io ho telefonato ai responsabili della trasmissione, li ho avvisati che tornavo indietro. Loro mi hanno detto se per cortesia tiravo dritto che loro ci tenevano molto che andassi a Torino a commentare una partita che non ci sarebbe stata. A me sembrava una cosa priva di senso, e siccome a me non dispiacciono, le cose prive di senso, ho pensato che sarei andato.

 

Ne ho fatte tante, di cose prive di senso, per esempio ho organizzato, due volte, a Ravenna e a Bologna, un convegno sul nulla, al quale son venuti dodici relatori a parlare di vari argomenti che hanno a che fare col nulla, e la relazione che mi ricordo di più è quella di un editore che ci ha parlato del suo libro più venduto, che era un libro che non aveva scritto lui, nel senso che era stato proprio lui, a non scriverlo; gli era venuto in mente per via che si era innamorato di una ragazza di sinistra, che l’aveva convinto, o forse costretto, a leggere Marx, Engels, Marcuse e tutti i filosofi che leggevano allora, quarantacinque anni fa, i giovani che eran convinti di essere di sinistra.

 

Dopo, dopo che lui si era sorbito tutti questi Marx Engels Marcuse eccetera eccetera, questa ragazza l’aveva lasciato e si era messa con uno che di mestiere faceva il portiere di calcio e che, come idee politiche, era democristiano, e l’aveva sposato avevano fatto tre figli in fagottone, come si dice a Parma, cioè uno dopo l’altro in rapida successione.

 

Allora a lui, a questo editore, che si chiamava Guido Leotta, è venuta l’idea di un libro che si intitolava “Tutto quello che gli uomini sanno delle donne”, centoventi pagine tutte bianche.

 

Leotta ha raccontato che quel libro, appena uscito, la Cgil di Milano ne ha comprate 8.000 copie, e che, in tutto, ne hanno vendute 150.000 copie, una cosa abbastanza insensata e memorabile, per conto mio, ma torniamo a quel 23 di febbraio, a Torino-Parma, e alla mia relazione con il coronavirus.

 

Sono arrivato e dopo cinque minuti sono arrivati due del gruppo torinista, Eugenio di via di Gioia. Gli altri due erano stati a casa per via che non si sentivano tanto bene, se non ho capito male. Dopo un po’ è cominciata la trasmissione e ci hanno messo al collo una sciarpa per uno, a loro quella del Torino, a me quella del Parma, ci hanno messo in mano un microfono e nell’orecchio un auricolare e ci siamo messi a aspettare.

 

Saremo stati lì ad aspettare mezz’ora, all’aperto, sotto lo stadio. Ogni tanto, alla nostra destra, su corso Agnelli, passava qualcuno, ci guardava e si metteva a ridere. E io pensavo “Ecco. Ho fatto proprio bene, a venire qua”. Dopo ci han dato la linea.

 

Io credo di aver parlato, forse, trenta secondi. Un bellissimo collegamento. Alla fine del quale ci hanno detto che potevamo andare a casa. Hanno voluto indietro le sciarpe, la regista ci ha salutato, si è scusata di non poterci dare la mano “Direttive aziendali”, ha detto.

 

E niente.

 

Io ho preso un taxi, sono arrivato a Torino Porta nuova, ho controllato la posta elettronica e ho saputo che la settimana successiva non sarei andato a Milano a fare lezione all’università, che le lezioni erano rimandate a data da destinarsi. E che la presentazione di “Bassotuba non c’è” che ci doveva essere il martedì successivo a Milano era rimandata a data da destinarsi. E che la riunione di una rivista, che si chiama Qualcosa, che ci doveva essere il sabato successivo a Bologna era rimandata a data da destinarsi.

 

Tutti gli impegni che avevo, poi, le settimane successive, sono stati rimandati a data da destinarsi. Ma non anticipiamo.

 

Ho preso il treno, un posto in prima classe, prenotato dalla Rai. Subito ho pensato di tossire per vedere che effetto avrei fatto ai miei compagni di viaggio, io sono uno che gli piace scherzare. Poi invece, mi veniva da starnutire, mi sono trattenuto. Io sono uno che non ha tanto coraggio, alla prova dei fatti. A Torino Porta Susa è salita una ragazza bionda, vestita di nero, che aveva un gran raffreddore. E anche una gran tosse. Aveva una sciarpa al collo, e ogni volta che tossiva se la alzava davanti alla bocca. La signora che era seduta di fianco a lei a un certo punto ha detto: “Ma si protegga, anche per noi che siamo qui nello stesso scompartimento”. “Ma mi sto proteggendo”, ha detto la ragazza. “Non abbastanza. Vuole che le dia dei fazzolettini con un’essenza all’eucalipto che fa molto bene?”. La ragazza l’ha guardata male e poi ha detto “Io non ho il coronavirus”. “Questo noi non lo possiamo sapere”, ha detto la signora. “Vuole che le dia i fazzolettini?”. La ragazza non ha risposto. Non li ha presi, i fazzolettini. E ha continuato a tossire fino a Bologna.

 

Ecco.

 

C’è un mio amico che in questi giorni ha chiesto su un social network qual è il contrario di ipocondriaco, che lui, ha scritto, con la diffusione del coronavirus si sentiva proprio così: il contrario di un ipocondriaco. Una ragazza gli ha risposto che, secondo lei, il contrario di ipocondriaco era ipercondriaco, e mi sembra una bella risposta, lo assumerei, come neologismo.

 

Ecco, io, in generale, sono così, ipercondriaco: penso sempre che le cose, quando ho a che fare con le malattie e i ricoveri ospedalieri, andranno a finir bene.

 

Invece, con il coronavirus, da quel viaggio lì di Torino, io son convinto di averlo preso, il coronavirus. Tutta quella tosse. Però ho fatto una vita quasi normale, scrivere, correre tutti i giorni (io vorrei fare una maratona, prima o poi) e vedere la Battaglia e sua mamma.

 

La cosa forse più strana, che una sera, a correre, tra Bologna e Casalecchio, c’era uno che correva con la mascherina.

 

Dopo, qualche giorno fa, una decina di giorni dopo la partita Torino-Parma rimandata a data da destinarsi, mi è venuta l’influenza. Sono andato a dormire a casa mia, non dalla Battaglia e da sua mamma, a Bologna, dove dormo due o tre volte alla settimana, a casa mia, a Casalecchio di Reno, dove lavoro.

 

La sera la mamma della Battaglia mi ha chiamato, mi ha chiesto come stavo. Le ho detto che non stavo tanto bene ma neanche malissimo. “Hai la febbre?”, mi ha chiesto lei. “No”, le ho detto io. “Te la sei provata?”. “Sì”, le ho detto io. “A quanto ce l’hai?”. “36 e 3”. “Ti sta venendo”. “No, è la mia temperatura normale”.

 

Ecco.

 

Non era vero. Che avevo la febbre a 36 e 3. Cioè, forse era vero, ma io non lo sapevo.

 

Perché, ho scoperto quella sera lì, in casa non avevo un termometro. Mi ero sentito la fronte con le mani e mi ero chiesto “Quanto ce l’avrò?”. “36 e 3”, mi ero risposto.

 

Il giorno dopo, mattino presto, sono uscito ho comprato un termometro. Me la sono provata: 36 e 7.

 

Sollievo.

 

Poi la sera me la sono riprovata: 37 e 5. “Ecco”, ho pensato. “Lo sapevo”.

 

Ho messo in ordine in casa, per i dottori che mi sarebbero venuti a fare il tampone, e ho scritto al mio medico, descrivendogli i sintomi e dicendogli che non avevo problemi respiratori ma avevo la febbre. “Mi devo preoccupare?”, ho chiesto al medico.

 

E mi aspettavo che mi telefonasse e mi desse le istruzioni. Invece niente. Dopo dieci minuti mi è arrivata una risposta scritta. “No. Ma, per qualsiasi cosa, chiama”. Sono andato a letto. Mi sono svegliato, mi sono provato la febbre, non ce l’avevo. Non ho chiamato il medico.

 

Sono passati, da allora, sei giorni. La febbre non è tornata, ma la casa è ancora in ordine. Non si sa mai abbia una ricaduta e ci siano da chiamare i signori che vengono a fare il tampone. Ma chissà se succederà. Non son più così sicuro di avere il coronavirus.

 

Sto tornando ipercondriaco, forse.

 

E, in questi giorni, devo dire, son stato bene. Mi son rimesso a scrivere un romanzo, e ci son stati dei pomeriggi, a Casalecchio di Reno, io, il mio lavoro e il rumore del frigorifero, che me li ricorderò, secondo me.

 

E mi son tornate in mente due cose. Una, Pascal, che diceva che tutti i nostri problemi nascono dal fatto di non essere capaci di stare tranquilli seduti in una stanza.

 

L’altra, Auden, quella poesia brevissima che dice che “L’uomo, / o si innamora di Qualcuno, / o di Qualcosa, / o si ammala”.

 

Dopo su un social ho scritto che un quotidiano mi aveva chiesto di scrivere un testo che si intitoli, più o meno, Io e il coronavirus. E che l’avevo cominciato, l’avevo continuato, l’avevo continuato ancora, e non sapevo bene come finirlo.

 

Un mio amico mi ha scritto “Fai come Klopp, secondo me fai meglio”.

 

Io gli ho risposto che non mi avevano chiesto cosa ne pensavo, del coronavirus, ma quello che mi era successo, e che raccontare le cose mi sembrava fosse il mio mestiere, non quello di Klopp, che, giustamente, si era stupito che gli avessero chiesto del virus.

 

A me, invece, ho scritto, sembra di avere un po’ di cose da raccontare (come tutti noi), anche senza bisogno di essere un virologo.

 

Il mio amico mi ha risposto “Ah, scusa, non sapevo che ti fosse successo qualcosa, cosa ti è successo?”.

 

Io gli ho risposto che non mi era successo quasi niente, come nei romanzi (quelli che scrivo io).

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