La vita al tempo del coronavirus
Le lettere dei lettori che in questi giorni stanno vivendo in città colpite dalle misure di contenimento del contagio, in Italia e all'estero
Pubblichiamo di seguito le lettere di alcuni lettori che, in questi giorni, stanno vivendo in città colpite dalle misure di contenimento del coronavirus in Italia e all'estero. Se volete raccontare la vostra storia potete scriverci a [email protected]
Il forzato silenzio di Venezia
Al direttore,
ho la possibilità di vivere Venezia in questi giorni segnati dal virus e molti e contrastanti sono i pensieri. La città unica al mondo, nel sentire di tanti, sempre affollata e ricca di proposte culturali eccezionali in ogni luogo, è in silenzio. Fondamenta, calli e campi registrano per lo più pochi e veloci passanti, così luoghi che, normalmente, parlano tante lingue ora riscoprono soprattutto il veneziano.
Conosco questa città da cinquant'anni, l'ho vista felice nei grandi eventi, preoccupata nelle avversità come nei giorni dell'acqua alta, ma sempre attiva e operosa.
Il silenzio di questi giorni mi è nuovo, il turismo non era così grande un tempo e certi luoghi, come le piccole isole, non facilmente raggiungibili, ma più numerosa era la sua gente e quindi al rumore dell'acqua si accompagnava, più vivace, la quotidianità della sua “ordinaria” vita.
Avvicinandosi le preoccupazioni, le funzioni religiose si sono rallentate e chiusi i luoghi di culto, i vaporetti transitano con pochi passeggeri, forse quelli obbligati dalle necessità, musei, mostre ed eventi tutti rinviati. Alberghi, ristoranti, locali pubblici e privati sono pronti ma in attesa, alcuni sono per un po' entrati in pausa.
Giro per la città ovviamente a piedi, le preoccupazioni nazionali sono in tutti, così le persone che si incontrano parlano di salute e di economia, se poi, come me, sono “adulte anziane”, speriamo “senza gravi pregresse patologie”, si scambiano osservazioni su figli e nipoti oltre a consigli di buona vita.
Il superamento della situazione contingente porterà un nuovo e più consapevole equilibrio di cui la città avvertiva già la necessità, città che, vi assicuro, è unica anche in questo forzato silenzio.
Licia Gardella
Le mascherine di Seul
Al direttore,
volo dall'Italia verso Seul. Dalla padella nella brace, vista la diffusione del COVID-19. Lo so che serve a poco o nulla, ma in aereo indosso la mia brava mascherina. Come tutti i passeggeri peraltro, non se ne vede uno sprovvisto. Sono tutti coreani, per qualche ragione che mi sfugge. Presentarsi in aereo senza mascherina sarebbe sfrontato, quasi provocatorio. C'è qualcosa di dignitoso, nella pudicizia facciale, un’ammirabile modestia orientale.
Ah, ho delle mascherine perché vivo e lavoro in Corea da 6 mesi, ne ho comprate una decina prima di partire, qui si trovano dappertutto, a differenza dall'Italia. Una delle prime mosse del governo è stata bloccare gli speculatori di mascherine. Non so come abbiano fatto, ma il risultato c'è. Anzi da qualche giorno le vendono anche gli uffici postali, a poco prezzo, ma credo sia il modello base, non molto in voga. In farmacia ne hanno tanti tipi. Non ho visto in giro quelle griffate, ma chiaramente in parecchi badano all’estetica. Sono in aumento quelle nere (ne proverò una anche io); del tutto démodé quelle verdoline.
Non parlo una parola di coreano. È un po' faticoso nella vita di tuti i giorni, ma ci sono anche dei vantaggi. Ad esempio ho la netta impressione, nonostante i numeri in crescita, che le autorità locali gestiscano bene l'epidemia. Lo dico soprattutto perché vedo delle immagini di portavoce e funzionari governativi in conferenza stampa, indossano delle casacche gialle da veri addetti ai lavori, magari più da pozzo petrolifero offshore, ma la cosa è in qualche modo rassicurante, ancorché non del tutto sensata.
Vedo per lo più gente composta, per strada a Seul. Mi son fatto l'idea che la reazione del coreano medio sia più misurata dell'italiano medio a causa di una maggiore fiducia nell'autorità, ma non ho modo di verificare. Magari invece i tizi in casacca gialla parlano a casaccio - e insultano i cinesi per soprammercato, chissà. Che diranno, poi, del fatto che il grosso del focolaio di COVID coreano è in una strana comunità - una setta, dicono alcuni, di cattolici a Daegu, una città a 300 km dalla capitale?
Ma è meglio non approfondire troppo - nuoce alla pazienza. Faccio la mia parte come tutti. Contribuisco a mantenere normale il clima cittadino. Se mi punge vaghezza di vedere litigare un aspirante virologo con un assessore, per dire, accendo Rai Play. Ma otto ore di fuso orario sono un bel disincentivo – e neppure l’unico.
G. Tamburelli
Bologna 2020, lessico famigliare
Al direttore,
Bologna, 2020 ai tempi del coronavirus. Seconda settimana di scuole chiuse. Pare di vivere in una protratta convalescenza. C'è il lavoro da casa; con i figli a casa - un ossimoro 2.0. C'è l'emergenza sanitaria e il premier Conte che dichiara la regione rossa in piena zona gialla. C'è il crollo produttivo, il turismo in ginocchio, il manufatturiero sfibrato, settori interi sospesi e minacciati. La crescita zero. Tutto aleggia sulle nostre teste, come il contagio e peggio del contagio.
I ragazzi colgono che si tratta di vacanza e tacciono pensierosi solo dinnanzi a partite di calcio senza spettatori; stadi vuoti, attività sportive ferme, gite cancellate. Si rabbuiano solo davanti ai compiti dati tramite il registro elettronico e restano perplessi quando gli si parla di lezioni a distanza, in differita. Ascoltano e non ascoltano il continuo fluire di dati e cifre, numeri, statistiche su chi si ammala, chi resta in terapia intensiva, chi guarisce, chi non ce la fa. Si gira per le strade, da adulti, come strani figuri emersi dagli arresti domiciliari. Si va in libreria a sfogliare pagine. Poi per due passi in centro. Si fa la spesa con i figli che imbustano e decidono: a pranzo faremo un pic nic in balcone. Fuori piove. Tu fai si' si' con la testa - con un'arrendevolezza senile.
Mentre i ragazzi parlano e cincischiano e ridono, poi bisticciano a tratti e infine cambiano di umore - di portico in portico...ripensi a Lessico famigliare della Ginzburg, dove la famiglia forzata a noiose villeggiature in montagna ammazza il tempo a suon di riviste polverose di enigmistica e volumi su volumi di vecchi fumetti. A casa proponi allora sei numeri di Diabolik, enigmistica e Focus junior, quaderni per disegnare, e giochi da tavolo, carte. Lo slancio viene raccolto per venti minuti - poi i ragazzi sembrano migrare di stanza in stanza... ogni tanto ti capitano accanto, di lato - fissando (come fosse un pozzo vuoto) il tuo inbox di lavoro...dove si affollano le notifiche. “Che succede?” chiedi tu - con la sensazione e l'espressione che avresti a essere scoperto nudo da uno sconosciuto... non so cosa fare ...ti dicono loro, un po' afflitti, un po' trascinati. e tu proponi (a vuoto) e bofonchi che stai lavorando ...che dovresti...che in realtà. Che.
Eppure c'è un dato mite - in tutto questo dilatarsi del tempo. In tutto questo senso di domenica lunga 280 ore. Tutto è lento e fermo e fermo sopra le nostre teste. La scuola è lontana; è un edificio vuoto. L'ufficio anche. La vita sociale, il mondo, gli amici e i colleghi, la sveglia per la campanella della prima ora. Il semaforo dell'ultimo incrocio. La scaletta delle attività. È tutto tutto altrove. E la testa segue questa distanza a ruota - in un'alterazione, in un lieve impercettibile crampo.
Da reclusi 2.0 ci si trova a formulare pensieri come brilli, alla moviola ma brilli. Ci si trova in quello stato di interdizione che solo in certi pomeriggi di novembre ci coglieva da liceali fissando il soffitto (mai i figli vivranno questo antico stato d'animo, mai). Quindi si guarda un punto senza significato, senza collocazione, oltre la finestra, oltre il cielo ...e si pensa a viaggi mai fatti, alla vita nel senso di Vita e l'amore trascorso e quello incompiuto e quella citazione di Calvino sulle città che ci danno risposte - mentre Orwell diceva “il desiderio di vendetta è misura di impotenza” - era cosi'?
È una fase intrisa di non luoghi, non tempi e nulla di davvero messo a fuoco. Meglio così. Chiunque ci parli, chiunque ci informi - ci trasmette concetti di pericolo e ci tartassa di nozioni. Frammentato tutto.
Lunare - quando guardi oltre le teste dei figli, di portico in portico...lo spaccato umano di chi resta a piedi, in una città a piedi. Senzatetto, tossici, rom, punkabbestia coi cani in braccio. Diventeranno patrimonio dell'Unesco anche loro - un'umanità ancor più buia tra i chiaroscuri delle colonne?
2 marzo 2020, epidemia 2.0. In balcone la tenda per il sole (da aggiustare) riesce a riparare il tavolo apparecchiato a festa dai ragazzi. Fa un freddo cane e ci si siede a pranzo con il cappotto. Ginzburg approverebbe, pure Orwell e pure Calvino - i tetti della città sono lucidi e grigi nella pioggia che cade fine.
A. Andreini
Il respiro trattenuto di Bergamo
Al direttore,
dalla finestra del nostro nuovo soggiorno si vede l’Osteria da Giuliana, il ristorante più economico e più frequentato della città. Un paio di settimane fa, ci sarebbe stata una fila di operai e turisti in attesa dell’apertura del ristorante, alle 12 in punto. Ora guardo la porta oltre lo schermo del mio laptop. Uno dei vasi che si trova di fianco all’ingresso è caduto a causa del vento e della pioggia. E rimane lì, per terra, per mezz’ora. Nessuno entra, nessuno se ne va, nessuno può accorgersi che è lì.
Viviamo a Bergamo da un mese, scappati in Italia dal Regno Unito dove la Brexit minacciava un altro tipo di autoisolamento. Per metà del tempo, la città è stata preda del coronavirus. Come coppia di emigrati che parla un italiano traballante, che non ha figli e lavora da casa, la nostra impressione sul coronavirus è proprio questa, l’impressione, la consapevolezza di una tensione nell’aria, come se l'intera città trattenesse il respiro.
Ogni giorno riceviamo messaggi da amici e famigliari preoccupati. “Stai bene?”, “Bergamo è bloccata?”, “Qui ne parlano tutti i notiziari”. I miei genitori e mia sorella dovevano venirci a trovare fra due settimane, ma Ryanair ha annullato il volo a causa del calo delle prenotazioni e hanno deciso di non riprenotare. Dopotutto, le persone che ritornano nel Regno Unito dal nord dell’Italia non ricevono certo un caloroso benvenuto.
Noi continuiamo a vivere normalmente. Lavoro nei bar, anche se di solito sono l’unica cliente. Facciamo la spesa con tranquillità, anche quando gli scaffali dei supermercati sono semivuoti. Camminiamo fino alla città alta per un aperitivo e, per una volta, non mi dispiace che il cameriere pensi che siamo dei turisti. Turisti o abitanti locali, siamo gli unici qui.
Alice Mulhearn, Bergamo