Un’immagine del nuovo film di Checco Zalone, “Tolo Tolo”, al cinema dal 1° gennaio 2020 (taodue)

L'Italia rovesciata di Zalone

Andrea Minuz

Un girotondo divertente sui nostri vizi e pregiudizi. Non è l’immigrato che arriva da noi ma è Checco che fugge dal fisco e va in Africa. Grande prova del comico nel suo primo film da regista. E poi: “Il Foglio è fondamentale”

Da Fazio Benigni ha detto che non esiste niente di più italiano di Pinocchio. Dissentiamo. Non esiste niente di più italiano di Checco Zalone. L’italiano che da dieci anni mette in scena al cinema: indistruttibile, inossidabile, ferocemente incosciente, straordinariamente impermeabile a qualsiasi rivoluzione, globalizzazione, estradizione. L’italiano di sempre, ma aggiornato alle figure di questi tempi: il cantante neomelodico in cerca di fortuna a Milano, il rappresentante di aspirapolveri pignorato da Equitalia, il vigilante che sventa un attentato dell’Isis con una cena a base di cozze, l’impiegato pubblico aggrappato all’ultimo dei “posti fissi”.

    

È la storia di un italiano travolto da investimenti sbagliati, per esempio aprire un sushi “concept store” a Gravina di Puglia

Ora l’italiano di Zalone è il migrante economico che si sposta al contrario, dall’Italia all’Africa, in fuga dalle tasse, dai creditori e dall’ex-moglie che vuole rovinarlo. “Tolo, Tolo” è il quinto film di Zalone, il primo come regista. E’ il film con cui smetteremo di parlare soltanto degli incassi stratosferici di Checco Zalone, salvatore del cinema italiano, santo patrono degli esercenti, e inizieremo finalmente anche a parlare di Luca Medici. “Tolo, Tolo” è la storia di un italiano travolto da investimenti sbagliati, per esempio aprire un sushi “concept store” a Gravina di Puglia, ma che “non vuole smettere di sognare” e così si trasferisce in Africa, “un paese senza Irpef, senza sovraintendenze e con una corruzione finalmente onesta”. Già in questo rovesciamento c’è tutto il tempismo formidabile che solo una commedia sintonizzata sulle repentine trasformazioni del paese riesce ad avere. Lo dicono anche i dati Istat 2019: “aumentano gli italiani che si trasferiscono all’estero e per la prima volta in cinque anni diminuiscono le immigrazioni nel nostro paese, con un netto calo soprattutto degli arrivi dall’Africa”. Arrivato in Africa Checco Zalone si trova in mezzo a una guerra civile ma la sua prima preoccupazione è sempre quella di liberarsi del commercialista, della moglie e trovare il modo di comprarsi una crema all’acido ialuronico, possibilmente “premium”, uno dei “fondamenti della cultura occidentale”. I miei modelli sono “Dino Risi e Alberto Sordi” ribadisce in conferenza stampa, “tento di procedere sulla loro strada, anche se loro ovviamente solo su un altro livello”. E come nel filone africanista post-coloniale della nostra commedia, come il Sordi di “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa” o “Finché c’è guerra c’è speranza”, come il Bud Spencer di “Piedone l’Africano” e “Io Sto con gli ippopotami” o “Totò Lawrence D’Arabia”, Checco Zalone costruisce un film folle e meraviglioso, un road-movie afro-italiano in cui ribalta lo schema, i pregiudizi, la retorica sui migranti e invecchia di colpo discorsi, sit-in, proclami, film e documentari “d’interesse culturale” sull’immigrazione. “Se non fosse stato un titolo troppo colto”, spiega, “avrebbe potuto intitolarsi ‘Il Migrante bianco’”. Però “Tolo, Tolo”, che vuol dire “solo, solo” (il soprannome che il bambino africano dà a Checco Zalone) funziona decisamente meglio. Perché è il titolo di una favola, di un film che è anche un film per bambini, molto natalizio e molto Frank Capra, ma che scatenerà di sicuro un putiferio politico. Ormai si aspettano i film di Checco Zalone come i mondiali, le elezioni politiche o Sanremo e adesso che l’attesa è finita preparatevi a dimenticare tutto quello che avete visto sin qui, perché “Tolo, Tolo” dimostra che si può fare un film umano, romantico, commovente sull’Africa senza smettere di prendere per il culo il “terzomondismo” (come già in “Sole a catinelle”, con Checco Zalone che di fronte al video con le immagini della fame nei villaggi africani chiedeva un sorso di champagne per schiarirsi la gola).

 

“Ormai tutto è politico”, dice giustamente Zalone, figuriamoci i suoi film per cui si è scomodato tutto l’arco parlamentare

Prendete le polemiche dei giorni scorsi, prendete il dibattito surreale e grottesco innescato da “Immigrato”, la canzone che accompagna il film, ma che nel film non c’è, e moltiplicate tutto per cento. Perché anche senza alzare il ditino moralista, anche senza indottrinare, giudicare, spiegare, “Tolo, Tolo” non risparmia proprio nessuno. “Tolo, Tolo” siamo noi, nessuno si senta escluso (c’è anche “Viva L’Italia” di De Gregori, l’Italia che è in mezzo al mare, l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare). “E’ un film politico?” “Ormai tutto è politico”, dice giustamente Zalone, figuriamoci i suoi film per cui si sono tirate giù intere biblioteche, scomodato tutto l’arco parlamentare della Repubblica e tutte le appartenenze politiche. In “Tolo, Tolo” c’è l’Italia grillina del reddito di cittadinanza e quella dei talk-show che strappa l’applauso al pubblico urlando “prima gli italiani”, c’è il Tg di Mentana, l’“Arena” di Giletti, ci sono le supercazzole di Nichi Vendola, c’è Barbara Bouchet in un resort in Kenya con toy-boy al seguito e un formidabile, cattivissimo, spietato Nicola Di Bari che non avrebbe sfigurato in “The Irishman”. C’è un giovane africano fissato con il neorealismo italiano che si guarda “Roma città aperta” in vhs nel villaggio e conosce a memoria “Accattone” (“dovevamo metterci ‘I 400 colpi’ ma i diritti costavano troppo, così abbiamo messo ‘Accattone’”). Ci sono i rigurgiti di fascismo trasformati qui, alla lettera, in rigurgiti di fascismo: Checco Zalone viene posseduto dallo spirito di Mussolini, occhio spiritato, mascella squadrata, Checco in camicia nera, fiero rappresentante della nostra razza, che arringa una folla di migranti nel deserto.

  

  

“È stata una mia idea, scritta insieme con Virzì in fase di sceneggiatura, spero non si arrabbierà Alessandra”, ci spiega, “perché è una cosa simpatica, fatta per ridere, è il fascismo dentro di noi, la paura per il diverso”. “Il fascismo è come la candida”, si dice nel film (“soltanto dopo Virzì mi ha spiegato che in realtà è una frase di Primo Levi, ma per fortuna non dovremo pagare i diritti”). E Salvini? “Cosa risponderai se ti diranno che è un film antisalviniano?” “Risponderà lui”. C’è da aspettarselo. Il film verrà infilato dentro l’Italia delle sardine e di Salvini, ma, come dice anche Valsecchi, “che senso avrebbe spendere tutti questi soldi per fare un film contro Salvini?” (casomai, basta il piumino smanicato del video, “Immigrato”). “Tolo, Tolo” è costruito come una microfisica dell’italiano di oggi, dunque anche delle sue nuove, formidabili, opportunità di carriera politica. Per esempio, l’escalation dell’amico di Checco che vive in paese e aspetta il concorso per la polizia municipale o il reddito di cittadinanza ma che alla fine, nomina dopo nomina, diventa presidente del Consiglio. Zalone pensava a qualcuno in particolare? “No, ci ho messo dentro la carriera di Di Maio, ma è vestito come Conte e parla come Salvini, un Frankestein della Terza Repubblica”. Tutto il film si muove così in un continuo, complesso, delicato equilibrio tra cinismo e moralismo, coi bambini africani che citano Salvini e dicono in coro “è finita la pacchia!”. “Dopo il film, al bambino” (che nel film si chiama “Dudù”, come il cane di Berlusconi) “gli ho regalato anche la playstation, solo che non ha la corrente e non può giocarci”. Checco sogna un mondo in cui un giorno “l’abile e il disabile avranno un solo bagno” ma nel film lo sogna da imprenditore, per risparmiare sui metri quadri del ristorante. Cinismo, realismo, poesia, lacrime, risate. Tutto insieme. Checco Zalone non è soltanto l’unico in grado di riportare gli italiani al cinema, almeno due volte l’anno. Con questo film diventa anche uno dei pochi registi che sa metterli davanti al più spietato, gigantesco specchio deformante dai tempi della grande commedia all’italiana di Scola, Sonego, Age e Scarpelli, Sordi, Monicelli. Rispetto alla “retorica dell’italiano medio” che ormai accompagna i suoi film (ma cosa vota poi quest’italiano medio?), rispetto ai paragoni giusti o forzati con Sordi e i maestri della commedia, Zalone è anche un musicista, un formidabile interprete e compositore di canzoni. Ed è qui che riesce a trovare una propria voce, a parlare a un pubblico trasversale, bambini inclusi (spiegando, con una magnifica scena di musica e animazione, come mai alcuni bambini nascono in Norvegia o in America e altri in Africa). Valsecchi lo definisce “il film di un vero regista” un film “sartoriale”, che “si è cucito addosso in ogni scena, dalla pagina scritta al montaggio”, e in conferenza stampa cita Brecht, “bisogna essere seri sulle cose ridicole e ridere sulle cose serie”. Ma Checco Zalone regista si toglie pure la soddisfazione di rifare Spielberg, filmando, tale e quale, una delle più belle scene di “Salvate il soldato Ryan”, trasferita dal nulla delle pianure dell’Ohio a Gravina di Puglia. “E’ stata un’idea di Francesco Asselta” (attore e grande amico di Luca Medici) “e mi è sembrata subito fantastica; rifarla uguale è stato complicatissimo, bisognava trovare una casa con una vista e vetrata simili, non so in quanti se ne accorgeranno” (ma a noi questa cosa che il neorealismo si cita a parole e Spielberg si rifà tale-e-quale piace moltissimo).

  

“Ci ho messo dentro la carriera di Di Maio, ma è vestito come Conte e parla come Salvini, un Frankestein della Terza Repubblica”

Tra noi possiamo dircelo, questo film, infondo, è anche un po’ una scommessa vinta dal Foglio, il primo e per molto tempo l’unico giornale a riconoscere il talento, puro, cristallino, evidente, del Checco Zalone cinematografico. Oggi Checco ricambia e ci regala un endorsement contro le minacce di chiusura. “Per carità, Il Foglio è fondamentale, io sono un fan delle recensioni di Mariarosa Mancuso; e poi è un giornale comodo, lo prendo sempre quando sono in giro, per esempio quando vado in aereo, Il Foglio ti fa sentire intelligente e colto ma con poche pagine, leggere, senza tutti quegli allegati che ti rifilano ormai coi quotidiani”. Lo diceva anche Pietro Valsecchi nel 2016: “Voi siete stati i primi a riflettere sul fatto che Checco Zalone metteva in crisi gli intellettuali di sinistra. E adesso anche loro si sono arresi alla sorpresa di una comicità che coglie un’Italia sospesa tra gli anni 50 e il 2020, ma senza fare della sociologia, della teologia, unendo tutti gli italiani”.

  

“Ero più cattivo, ma è normale. C’è una regola base nel lavoro del comico: non puoi prendere per il culo uno che è meno ricco di te”

Unirà tutti gli italiani “Tolo, Tolo”? In questi dieci anni di film, Checco Zalone è stato accusato di tutto: “maschilista”, “razzista”, “volgare”, “ignorante”, “gretto omofobo”, “comico di destra”, ovvero risata di pancia, non “di testa” e persino dileggiatore del Molise (lì ci siamo rassegnati anche noi: se in una commedia si mostra un paesello del Molise pieno di anziani, senza bambini, desolato, arretrato, non esattamente la meta ideale per una vacanza da sogno, si grida allo scandalo, ci si indigna; se la stessa arretratezza viene fotografa in un drammatico bianco e nero e lividi silenzi e lunghi piani-sequenza e pecore riflessive, magari si vince Cannes o Venezia). Con “Tolo, Tolo” arriverà anche l’accusa di “buonismo” (da destra) o di semplificazione-dei-complessi-problemi-dell’immigrazione (da sinistra) o probabilmente entrambe. Anche dopo “Qua Vado?” si disse che Checco Zalone era diventato un po’ troppo buono, che si era imborghesito, che aveva perso la battuta perfida e greve dei primi film. “Forse sì, forse è così”, diceva lui, qualche tempo fa. “Ero più cattivo, ma è normale. C’è una regola base nel lavoro del comico: non puoi prendere per il culo uno che è meno ricco di te. Nei primi anni di Zelig, potevo prendere per il culo chiunque. Non avevo limiti, da questo punto di vista. Il più povero ero io. Ed era più facile scegliere i miei bersagli. Ora non è più così. Ora, nelle mie condizioni, c’è una sola alternativa possibile: o diventi più buono o miri più in alto”. “Tolo, tolo” mira in alto e, di questi tempi, è un bene che sia così.

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