Il mare è il nuovo terrore
Fregate, barconi, marò e annegati. Navi a Venezia più pericolose della Sea-Watch. Governi e leggi non scritte
Le fregate a difesa dei porti, come il mare d’inverno, sono un concetto che il pensiero non considera. O non considerava, fino a qualche tempo fa. I migranti che annegano, i migranti che sbarcano; i confini liquidi dell’Europa che si ritira come una bassa marea. La Marina militare che arriccia il naso, ha poca voglia di mettersi agli ordini di un capitano d’avventure. I taxi del mare delle inchieste farlocche; “In mare non esistono taxi”, l’ultimo libro di Saviano. E i due Marò, sempre in alto mare. E le navi di Venezia, ben più pericolose della Sea Watch.
Che il mare tornasse a essere il pozzo oscuro degli incubi italiani, o lo specchio della cattiva coscienza, era un concetto che il pensiero non considerava, fino a qualche tempo fa. C’è un retaggio molto padano nell’ossessione di Salvini per le minacce che vengono dal mare, i porti chiusi. La paura atavica di chi il mare lo conosce poco, di sguincio, e non se ne fida. E non trova miglior esorcismo che le fregate nei porti. Poteva anche essere già accaduto (sì, era già accaduto: come ricordano noiosamente i giornali noiosi della destra costiera). Ai tempi di Prodi una fregata affondò uno scafo di pirati albanesi, ma che importa, fu un incidente, il dettaglio di un’epoca in tutto diversa. Ora sono ipotesi al vaglio, fatte della materia distorta degli incubi, a pochi metri dalla collisione istituzionale: la Marina non è mai stata felice di farsi comandare da chi tiene i piedi all’asciutto, neanche ai tempi del Duce, quello vero. Malumori da non trascurare.
Il nemico che viene dal mare, l’orizzonte d’acqua scrutato come una minaccia oscura. Non capitava dal tempo dei saraceni. Basta il filmato di un cellulare per avere la (quasi) certezza che i turisti da globalizzazione rovineranno il nostro mondo più che i disperati dell’Africa. Domenica una nave di forzati della crociera stava per sbattere a poca distanza dalla Biennale, a poca distanza da dove un artista svizzero ha spiaggiato il relitto squarciato di un barcone affondato nel suo carico di turisti della disperazione. Una bella confusione di rotte. Come non bastasse sono tornati da un passato remoto i due Marò, il loro processo adesso è una disputa all’Aia. Ma la loro pasticciata odissea fu figlia, pure lei, di una paura riemersa dal passato, la paura dei pirati, versione arcaicizzante della paura del terrorismo. O forse invece una versione postmoderna: se l’ammiraglio d’acqua dolce Trump stava per scatenare una guerra con l’Iran dopo le petroliere silurate nel Golfo.
Non avremmo considerato, solo quindici anni fa, in un mondo reso piccolo dalla globalizzazione aeronautica, che lo scenario delle nostre paure potesse essere l’acqua. Il giornalista americano William Langewiesche aveva raccontato in un bel libro il Terrore dal mare, ovvero le minacce sconosciute, le navi pronte a diventare possibili bombe terroristiche o ecologiche, fuori controllo e mappatura. Ma eravamo nel pieno delle guerre dal cielo, troppo spaventati dall’alto perché il mare facesse breccia nel nostro immaginario. Oggi invece sì, anche se ci spaventano di più le balene che si spiaggiano e i ghiacci dell’Artico che si sciolgono.
Eppure non è soltanto faccenda di paure reali o simboliche. L’incertezza è accresciuta dalla stessa natura dell’elemento. Il diritto del mare è scritto sull’acqua. Dove sono i confini, quali le rotte? Da quale punto esatto, in un paese con tremila chilometri di coste, può arrivare l’assalto? I relitti umani a chi appartengono? Il servizio di pesca a strascico a chi compete? Valgono le leggi europee? Ma sono leggi, poi? Il mare è una coperta corta che ogni stato tira a sé fino a stracciarla. Eppure all’opposto, il mare ha le sue leggi, scritte e non scritte, più alte e più solide. Che superano le altre. Un naufrago va soccorso. Sulla terraferma ci sono migliaia di sentieri morali che si biforcano, a un ferito a terra si può passare a fianco, come il levita col samaritano. A un uomo in mare no. Avere paura, camminare sull’acqua.