Salvini e la “strategia dello yogurt” per la comunicazione social
L’amico parla come noi, ci fidiamo, è sincero. Il vicepremier leghista è un uomo di potere ma è anche nostro amico, parla e scrive come noi. Siamo noi, però al potere. Il problema di questo tipo di propaganda è la scadenza
Venezia. La pacchia è finita, anche per la comunicazione politica: “Salvini comunica benissimo”, dicono tutti. Se il fine (il consenso) giustifica i mezzi, cosa succede quando i mezzi (i social media) – per riprendere il celebre assunto di McLuhan – diventano il messaggio stesso? E’ vera rivoluzione quella a cui stiamo assistendo? O solo “la copia di mille riassunti”, come dice una famosa canzone?
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La comunicazione dei social media di Salvini ha successo per lo stesso motivo per cui hanno successo gli status o le storie Instagram dei nostri amici: ormai diamo più credito ai contenuti di chi conosciamo che all’editoriale di un quotidiano. L’amico parla come noi, ci fidiamo, è sincero. Salvini è un uomo di potere ma è anche nostro amico, parla e scrive come noi. Siamo noi, però al potere. Ci dà il buongiornissimo affidandosi alle poesie dei cioccolatini (non a quelle di Gio Evan!): “La giornata comincia con un bel Bacio Perugina: ‘L’amicizia reca grande felicità con piccoli gesti’. Vi abbraccio!”. Condivide immagini da #pornfood e azzarda persino posizionamenti di prodotto, come una Ferragni della politica: “Due etti di bucatini Barilla, un po’ di ragù Star e un bicchiere di Barolo di Gianni Gagliardo. Alla faccia della pancia! Buon pomeriggio Amici”.
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Un consenso così ampio però non si spiega solo con gli abbracci e la pastasciutta e non si raccoglie senza una strategia precisa. E se la strategia coincidesse proprio con la sua assenza? Consapevoli dell’impossibilità di una vera rivoluzione culturale, si preferisce adottare quella che chiameremmo “strategia dello yogurt”: ogni messaggio ha una scadenza, precisa, consapevole, definita.
Come nei post degli amici, si usano le maiuscole: “GRAZIE ai Carabinieri!”, “I delinquenti devono tornare ad avere PAURA dello Stato”. Le parole maiuscole nel web significano gridare, ma anche questo a chi importa più? Gli hashtag, nati come metodologia aggregativa delle conversazioni, sono svuotati della loro funzione e vengono utilizzati solo per sottolineare un concetto: #dalleparoleaifatti, #RUSPA e adesso (dato il periodo) #vivailNatale. L’elemento grafico è assente, tranne il cartello “Prima gli italiani”, mutuato dal celebre “America First” (Wilson, Trump…). Le grafiche si limitano alla struttura tipica dei meme: la faccia di Salvini e caratteri cubitali. Potremmo dire che i messaggi veicolati dai suoi account, sia nei contenuti che nella forma, ricordano vagamente uno strambo mix tra i gruppi WhatsApp delle zie o del calcetto e i contenuti di alcune pagine su Facebook che sfruttano ironia e volgarità per guadagnare like e condivisioni.
Il problema di questo tipo di comunicazione è, appunto, la scadenza: le conversazioni, in quanto tali, sono fatte per passare; i meme fanno ridere adesso, a patto che siano sempre nuovi. Alzare l’asticella dei toni è utile per i like ma alla lunga rischia di stancare. La comunicazione nasce per evocare emozioni attraverso racconti, ironia, sentimento. Non è sbattere in faccia il contenuto nudo e crudo, ma è narrazione. Comunica in questo modo per “allargare la cerchia” del consenso? Salvini non si pone un obiettivo così ambizioso. Arrivare sul target dei “tiepidi” implica una strategia di comunicazione politica alta, complessa e di lungo termine, che ha molto a che fare con un cambiamento culturale, al momento superfluo per gli obiettivi a brevissimo termine del leader leghista.
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E il dibattito? Confinato ai gattini: “L’altra sera avete inviato così tante foto dei vostri ‘bambini felini’ che ho pensato di ripubblicarne alcune”, scrive Salvini sui social, invitando gli utenti a “commentare con la foto del vostro” (micio, naturalmente). Il commento più popolare è di Valentina, che scrive: “Ma davvero si è aperto un dibattito sui gatti sulla pagina del vicepresidente del Consiglio?”.
Abituati alla tragedia