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Il caso Asia Argento spiega perché è ora di un #metoo garantista

Claudio Cerasa

Una retorica farlocca ha trasformato ogni presunto molestatore in un colpevole fino a prova contraria e l’attrice è vittima di un mostro che ha contribuito a ingrossare. Perché ribellarsi alla caccia alle streghe significa difendere lo stato di diritto

E’ stato scritto molto sul caso di Asia Argento e molto ancora se ne scriverà nei prossimi giorni quando probabilmente sarà più chiaro se (a) le accuse di molestie mosse contro l’attrice italiana sono fondate oppure no e se (b) a causa delle accuse ricevute Asia Argento perderà oppure no il suo contratto con Sky. La storia ormai la conoscete ma vale la pena sintetizzarla nuovamente per mettere a fuoco un tema non ancora affrontato in modo esaustivo e che riguarda l’incapacità di buona parte dell’opinione pubblica italiana di denunciare quello che in fondo è il vero scandalo generato dalla caccia alle streghe del #metoo. Uno scandalo all’interno dell’altro scandalo delle molestie sintetizzabile in due punti: la trasformazione di un sospetto non provato in una condanna morale definitiva e l’utilizzo dello strumento dello sputtanamento come un surrogato farlocco del diritto di cronaca. Dunque, che cosa è successo? Semplice. Dopo essersi auto nominata pura e immacolata paladina transnazionale del me too, e dei diritti delle donne, e dopo aver contribuito a far diventare “difesa dei molestatori” ogni tentativo di difendere i principi minimi di uno stato di diritto, pochi giorni fa Asia Argento è stata accusata di aver molestato a sua volta, alcuni anni fa, un attore minorenne di nome Jimmy Bennett.

 

Quello che Asia Argento non potrà mai ammettere è che il vero motivo per cui le ragioni della sua difesa non verranno mai prese in considerazione come le ragioni dell’accusa è legato all’essenza della caccia alle streghe del me too: la celebrazione della gogna, la fine dello stato di diritto, la trasformazione in virtù dello sputtanamento giustizialista. E’ il momento del me too garantista. Non per difendere Asia Argento ma per difendere
i principi non negoziabili di uno stato di diritto

La scorsa settimana il New York Times ha pubblicato in esclusiva la notizia di un pagamento di 380 mila euro che Bennett ha ricevuto da Asia Argento per “comprare il suo silenzio” e per evitare che l’attore americano rendesse pubbliche le accuse rivolte all’attrice italiana: violenza sessuale. Asia Argento si è difesa con molta eleganza affermando che quella cifra sarebbe stata pagata all’attore dal suo ex fidanzato da poco suicida e giurando che comunque con Bennett non ci sarebbe mai stato alcun tipo di rapporto sessuale. Poche ore dopo la sua difesa, però, diversi giornali americani decidono di pubblicare gli sms hot inviati da Asia Argento al giovane attore americano e improvvisamente anche la difesa del niente sesso si scioglie come il trucco di una maschera sudata. La storia della moralizzatrice moralizzata la si può dunque affrontare partendo almeno da due punti di vista.

 

Il primo punto di vista coincide con quello dei difensori della caccia alle streghe del me too che hanno scelto di muovere contro coloro che sghignazzano di fronte al caso di Asia Argento l’accusa di essere dei maledetti farabutti pronti a usare un infortunio per togliere legittimità a tutte le donne che hanno osato denunciare gli uomini che le hanno molestate.

 

Il secondo punto di vista coincide invece con quello dei difensori dello stato di diritto e dato che questo punto di vista non è stato adottato praticamente da nessun giornale vale forse la pena spiegare di cosa si tratta e cosa ci dice davvero il caso di Asia Argento. Per essere sintetici potremmo metterla così. In uno stato di diritto funzionante – e non molestato dagli sciacalli del giustizialismo – ogni Asia Argento dovrebbe avere la possibilità di essere considerata innocente fino a prova contraria e dovrebbe avere il diritto di far pesare le tesi della sua difesa quantomeno come le tesi dell’accusa. Il problema però è che se oggi non viene concesso ad Asia Argento di essere considerata innocente fino a prova contraria bisogna avere il coraggio di dire che la responsabilità è anche di chi ha trasformato il me too in un’occasione per aggredire lo stato di diritto e in un’occasione per trasformare alla fine ogni accusa in una sentenza di condanna. Se ci pensiamo bene è anche a causa della retorica farlocca del me too che ogni presunto molestatore è stato trasformato in un colpevole fino a prova contraria. Se ci pensiamo bene è anche a causa alla gogna mediatica veicolata dal me too che una giusta campagna di denuncia contro le molestie è diventata un’occasione per mettere la volontà di farsi giustizia da soli su un piedistallo molto più alto rispetto alla volontà di avere giustizia. E se ci pensiamo bene è anche a causa della trasformazione del garantismo in un surrogato dell’innocentismo che in Italia, e non solo, hanno fatto fatica a farsi sentire le nostre magnifiche Catherine Deneuve; tutte le donne convinte che segnalare gli abusi del me too non significhi essere degli amici degli orchi; e tutte le persone convinte che trasformare una campagna contro le molestie sessuali in una campagna di promozione del puritanesimo sia un modo come un altro per trasformare in un delitto non solo uno stupro ma anche un’avance non gradita. La grande Natalia Aspesi – una delle poche firme dei grandi giornali ad aver segnalato per tempo la necessità di non trasformare a priori ogni accusato in un mostro, la necessità di saper sempre distinguere una avance da una molestia, la necessità di non sovrapporre nel giudizio su una persona il piano morale a quello penale e la necessità di non utilizzare la battaglia del me too come se fosse un processo sommario contro la categoria dell’essere umano di sesso maschile – sabato su Repubblica ha raccontato un’esperienza vissuta negli ultimi giorni e ha descritto le minacce di morte ricevute dopo essersi permessa il lusso di aver messo in luce, a proposito di Asia Argento, che cosa si rischia a trasformare ogni sospettato in un colpevole fino a prova contraria.

 

Natalia Aspesi ha ragione così come ha ragione chi ricorda che la degenerazione del me too ha avuto sulla vita di alcune persone effetti ancora più letali rispetto a quelli vissuti da attori trasformati in orchi solo sulla base di un’accusa (dovremmo imparare ad accettare il fatto che un talento può restare un talento anche se il talento ha una condotta morale disdicevole) e prima o poi toccherà ricordare nuovamente che in giro per il mondo cominciano a essere molti i casi di suicidi provocati dall’impossibilità di potersi difendere da una qualsiasi accusa di molestie.

 

Chiedere alla cantante svedese Anne Sofie von Otter, il cui marito si è suicidato dopo essere stato accusato di molestie senza prove. Chiedere ai familiari del deputato gallese Carl Sargeant, laburista, che a novembre si è ammazzato dopo essere stato sospeso da tutti i suoi incarichi per accuse di molestie a suo carico. Chiedere ai familiari dell’ex produttore cinematografico Jill Messick, suicida anche lui dopo essere stato accusato di essere un difensore dei mostri solo per non aver espresso solidarietà con coloro che avevano denunciato Weinstein. Chiedere ai familiari dell’attore sudcoreano Jo Min-Ki, trovato morto a febbraio in un parcheggio sotterraneo a Seul dopo essere stato accusato di molestie.

 

Quello che Asia Argento non potrà mai ammettere è che il vero motivo per cui le ragioni della sua difesa non verranno mai prese in considerazione come le ragioni dell’accusa è legato all’essenza della caccia alle streghe del me too: la celebrazione della gogna, la fine dello stato di diritto, la trasformazione in virtù dello sputtanamento giustizialista. Mai come oggi anche a causa delle degenerazioni del me too moralista, servirebbe una grande battaglia universale in difesa del me too garantista. Non per difendere Asia Argento ma per difendere semplicemente i principi non negoziabili di uno stato di diritto. E’ il momento del me too garantista. Chi ci sta?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.