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Fiori d'acciaio al festival di Cheltenham, basta col vittimismo del #metoo

Cristina Marconi

Dialoghi su uomini e donne, ora “avversari”. Ma l’attenzione eccessiva per l’identità non è progresso 

Londra. Se quella tra uomo e donna si sta avviando a diventare una “relazione tra avversari”, buona parte della colpa è del #MeToo, movimento nato con uno scopo nobile e presto trasformato in uno schema sbagliato e asfissiante, in cui “tutti devono avere un trascorso di un qualche terribile abuso sessuale per potere avere un’opinione su uno qualunque di questi temi”. Per questo è bene che finisca presto, anzi, è giunto il momento di mettere un punto. Lo dice Lionel Shriver, nome da uomo e opinioni forti, autrice del fortunatissimo “Dobbiamo parlare di Kevin”, romanzo che parla di una donna il cui figlio ha fatto fuori compagni di classe e insegnanti con un arco, diventato poi un famoso film con Tilda Swinton. “Non voglio che le giovani donne collochino il loro senso di potere nella loro debolezza, nella loro fragilità”, ha spiegato la Shriver nel corso del festival letterario organizzato dal Times a Cheltenham.

 

Il tema ufficiale era quello dell’oriente, ma molti degli interventi del ricchissimo programma erano incentrati sul tema del potere femminile dopo l’anno delle rivendicazioni, delle denunce contro gli abusi e, inevitabilmente, della caccia alle streghe. Tra gli ospiti c’era anche la pluripremiata attrice americana Sally Field, che nella sua autobiografia intitolata “A pezzi” racconta delle molestie subite dal patrigno quando era bambina e del fatto di non essersi mai ribellata alla cultura maschilista delle avances sul set cinematografico. Trascorsi su cui riflettere, non su cui piangersi addosso, secondo la settantunenne Field, che ha ammesso: “Ai tempi, a metà degli anni Settanta, non era neppure strano, era il modo in cui le cose venivano fatte”. Non vuole che le sue nipoti adolescenti leggano il libro, non ancora, “lasciatemi fare la nonna ancora per un po’”, ma quella dell’ex Fiori d’Acciaio è l’ennesima voce di chi rivendica il diritto di raccontare la propria storia imperfetta al di là dei ruoli precostituiti.

 

Un altro panel dal titolo “La vita è dura ma pure noi lo siamo” ha visto la paladina della lotta alla Brexit, Gina Miller, oggetto di attacchi e minacce di morte, dialogare con la direttrice di Cosmopolitan, Farrah Storr, quarantenne di estremo successo che racconta la solitudine di chi raggiunge le vette della propria professione. Donne politicamente molto poco corrette che, come la Shriver che quest’anno ha attaccato la casa editrice Penguin Random House per aver annunciato che entro il 2025 sia gli autori sia il personale saranno un riflesso accurato della società britannica, accusandola di essere “ebbra di virtù”, non hanno paura di accendere polemiche. A Cheltenham la scrittrice americana ha criticato anche “l’ossessione” per il gender e la conseguenza, inevitabile, di dover a tutti i costi definire in maniera rigida quello che significa essere “un ragazzo o una ragazza”, creando spazio per polemiche vuote.

 

Anche per Francis Fukuyama l’attenzione eccessiva per l’identità rischia di avere conseguenze negative. “Il problema è che la maniera in cui l’identità si è sviluppata sia a destra sia a sinistra ha finito con l’incentrarsi su schemi sempre più biologici e fissi: razza, etnia, religione, genere, orientamento sessuale”, ha spiegato l’autore de “La Fine della storia”. “Quando la politica si focalizza troppo su un’identità fissa, la democrazia moderna inizia a sembrare il medio oriente, in cui una particolare classe di persone non esercita potere individuale nel modo in cui vengono prese le decisioni politiche. Si vota seguendo queste categorie”. Come a dire che l’individuo non guarda più alla società nel suo insieme ma solo a quello che lo riguarda. E non è un progresso.