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Una giornata al Festival della Letteratura italiana a Londra

Cristina Marconi

Marco Mancassola, Lisa Appignanesi e Veronica Raimo. Così gli scrittori italiani hanno stregato gli inglesi

Londra. Sarà l’atmosfera da fine di un’epoca che si respira a Londra, sarà che nessuno vuole pensare al futuro di questa strana comunità internazionale su cui invece bisogna riflettere, ma il Festival della Letteratura italiana che si è svolto sabato e domenica in un vecchio cinema vittoriano a Notting Hill è apparso più che mai come un evento necessario. Con alle spalle il risultato brillante della prima edizione del 2017, 1.500 biglietti venduti e il tutto esaurito, anche quest’anno il FILL, Festival of Italian Literature in London, ha affrontato temi importanti, dall’inclusione degli intellettuali neri nel contesto culturale italiano e mondiale alla maniera in cui la narrativa deve porsi davanti al flusso degli eventi e della politica, senza appiattirsi sulla cronaca ma senza prenderne le distanze al punto da diventare fumoso. E riuscendo nel miracolo di creare un evento né italiano né inglese, con un pubblico di tutte le età, al passo con la città, con l’atmosfera di ottimismo che solo i dibattiti veri sanno sprigionare. “Io con l’Italia non voglio più avere niente a che fare, paese del cavolo!”, urla una ragazza davanti all’impietoso sold out di un panel avventurandosi furibonda nel gelo di Londra. Peccato, perché il FILL è lo specchio di un paese parallelo che sta crescendo lontano da casa e che inizia ad avere gambe molto lunghe.

 

“Ci vogliono tutti emotivi e sentimentali, ma noi dobbiamo pensare, cercare il contesto, e il romanzo è contesto”, ha spiegato la venerata Ali Smith, tempestiva a parlare di Brexit nel suo Autunno ma convinta che senza una seria ribellione nei confronti di tutta questa visceralità incoraggiata dai social e dalla politica si finirà male, molto male. Olivia Laing, autrice del fortunato Città sola, annuisce soddisfatta, mentre Walter Siti, con quella pensosità da intellettuale italiano così diversa da quella che si trova nel mondo anglosassone, ricorda come “non sappiamo vivere senza un assoluto. Se negli anni Settanta la ricerca dell’assoluto avveniva attraverso i consumi, ora attraverso il bisogno di seguire un leader”. Mentre la letteratura si va appiattendo anche per colpa di editor “con un piede” nella letteratura “e uno nel mercato”, che promuovono argomenti alla moda al cui novero, negli ultimi anni, si “è aggiunto quello dei migranti”, quello che manca sempre di più sono sperimentazione e voglia di spingere più in là gli orizzonti della conoscenza, superando le barriere dell’ovvio. Nei contenuti, ovviamente, ma anche nello stile. “Una letteratura impegnata che usi la lingua in un modo banale è destinata a invecchiare presto e quindi non è contemporanea”, dice Siti, e la Laing e la Smith fanno un balzo sulla sedia come a dire: hai capito questo Siti, vi sbrigate a tradurlo?

 

Uno dei problemi principali è che sperimentale o no, contemporaneo o no, ormai chi scrive è élite e l’élite è diventata il male. Sarà che forse sono stati fatti degli errori? “In questo paese la scuola pubblica è ideologica, si danno meno opportunità ai poveri, è una cosa assolutamente politica”, spiega la Smith, mentre per Siti “se il popolo ha sempre ragione, dovrebbe avere anche un’istruzione”, perché forse anche l’ondata di sovranismo becero e razzista, come la mafia secondo Gesualdo Bufalino, si combatte con un esercito di maestre elementari. L’eccellente Martin Esposito riporta tutto in inglese con precisione ed eleganza, le sue traduzioni sono piccole perle che gli valgono l’affetto del pubblico. Laing e Smith balzano di nuovo, che bello dialogare, che bello lo scambio, altro che echo chambers. “Il racconto letterario non è fatto per convincere nessuno, serve per portare alla luce le cose che stavano nascoste”, conclude Siti. Come il fatto che “l’Europa è una piccolissima parte del mondo, una rana che si sentiva bue grazie all’imperialismo, e ora sta esprimendo la sua frustrazione con il razzismo”. La sala è scossa da un brivido a pensare a quello che sta succedendo alla rana britannica, e contro chi sta rivolgendo il suo razzismo.

 

Per Marco Mancassola, scrittore in prima fila nell’organizzazione del FILL, l’iniziativa è servita anche a “scrollarsi di dosso un senso di inferiorità che spesso gli italiani sentono rispetto alle voci anglosassoni”, che hanno accesso a un mercato globale che permette loro di prosperare nonostante l’autoreferenzialità. Senz’altro la Brexit ha cambiato le cose, c’è un “senso di eccezione condiviso”, spiega Mancassola, e ha ragione, anche se forse per troppi anni si è lasciato che berlusconismo e antiberlusconismo informassero tanta, troppa dell’attività culturale italiana all’estero. “La lingua italiana è sempre più studiata, ma non è certo dovuto ai meriti della contemporaneità”, prosegue Mancassola, che con gli altri organizzatori, scrittori, traduttori e lavoratori dell’editoria, ha potuto contare sul supporto del vivacissimo Istituto italiano di Cultura guidato da Marco Delogu. Si è parlato di distopie femministe con Veronica Raimo e Sophie Mackintosh, di nuovi fascismi, di Forensic Oceanography, l'innovativa agenzia multidisciplinare che indaga sulle morti di migranti nel Mediterraneo, di paradossi fascisti e nuovi nazionalismi, ma anche di traduzioni e di identità londinesi, con il bicchiere di vino in una mano, come sempre nei teatri britannici, e il blocchetto degli appunti nell’altro per non dimenticare le cose più significative.

 

Rimasta sola dopo la defezione all’ultimo minuto di Ben Okri, Michela Murgia ha tenuto banco per più di un’ora, raccontando come “costruire narrazioni pubbliche su basi ideologiche sia troppo difficile, quindi ci si basi sulle paure”, che sono più comuni delle idee. E per mettere a tacere le persone c’è sempre il mare di irrilevanza della rete, il fatto di lasciare che tutte le idee siano sullo stesso piano, in una cacofonia soffocante. Gli inglesi ascoltano, la sala è piena, si fanno domande, gli isterismi sono lontani, la flemma è britannica, l’intuizione italiana. L’Europa antropizzata a cui si potrebbe fare un carotaggio in qualunque momento trovando storie su storie, la descrivono Nicola Lagioia e Mathias Énard, che dibattono delle sue identità contrastanti, “Atene e Gerusalemme, la ragione e la rivelazione”, e su quello che rende gli europei diversi da chiunque altro. “Nei grandi romanzi europei senti sempre il pericolo possibile del rovesciamento del piano che porta a una possibile salvezza o a un possibile disastro”, secondo Lagioia, che pensa che il “romanzo è più vitale e scalciante di quanto si pensi”. E se questa Europa è finita, come sembra suggerire uno degli spettatori, secondo l’erudito Énard non c’è che da aspettare la prossima. Da Bernardo di Chiaravalle che girava per conventi, agli Asburgo che esportavano Stato e efficienza fino alla Ue malconcia, i progetti sono stati tanti e ambiziosi, tramontati e risorti.

 

Tra un banco di arancini portati a livelli di perfezione palermitana e il banchetto dei libri gestito dall’inossidabile libraia Ornella Tarantola, ci si prepara all’evento finale, quello sulla serie dell’Amica geniale, con Lisa Appignanesi, autrice di Mad, Bad and Sad e Everyday Madness, e Eva Ferri della casa editrice E/O. L’attrice Haydn Gwynne legge con il suo accento di cristallo alcune pagine di Elena Ferrante in traduzione, sullo schermo del vecchio Coronet scorrono le immagini del trailer, lo spirito ferrantiano pervade la sala, si parla di follia e femminismo vecchio stile, i britannici se lo godono. Qualche intellettuale italiano in cerca di distinzione ribadisce sottovoce che lei è un po’ da soap opera, ma intanto se si traduce tanto è anche grazie a lei. Non male quelle pagine lette dalla Gwynne, sarà la traduzione ma proprio soap opera non sembra, forse dovremmo iniziare a goderci quello che siamo. Rallegrandoci dell’italiano globale e promuovendolo senza complessi quando ne abbiamo l’opportunità, sicuri delle nostre qualità. Evitando quella tendenza al fratricidio che, come osservava Umberto Saba, dai tempi di Romolo e Remo ci tiene impegnati in polemiche sterili e stanziali senza mai permetterci di uccidere un re e farne finalmente un altro.

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