Un gradiente di aggressività verbale ha risvegliato da qualche tempo le peggiori coscienze, alitando un fiato fetido di vanità e idiozia (particolare di "Pollice verso" di Jean-Léon Gerome, 1872)

La deriva del libero insulto

Fabiana Giacomotti

Social pieni di volgarità e parole ostili. Né i libri né la televisione riescono a fronteggiare gli odiatori

L’ultima frontiera dell’Italia che corre sempre a due velocità è la parola. Il lessico. L’insulto e l’aggressività verbale contro l’uso appropriato e anche affilato della parola. Le parole per dirlo e quelle per riempire lo spazio rumoroso dell’aggressione fisica. Il sapere e l’ignoranza: siamo sempre allo stesso punto, con la differenza che se un tempo l’insulto e l’aggressione verbale erano patrimonio degli incolti, oggi, dopo il trattamento grillino, il lessico violento è stato equiparato all’autenticità. Parlo come mangio, e purtroppo, con chi applica la regola, non si può né parlare né tanto meno stare a tavola. Al Salone del Libro in programma a Torino e di cui molti vanno cercando le ragioni extra-commerciali, il tema del lessico adeguato a questi tempi social-mediamente ansiogeni è al centro di una serie di incontri e di una raccolta di racconti curati da Loredana Lipperini per Laterza che illustrano il manifesto “Parole O-stili” lanciato lo scorso anno nelle scuole contro bullismo e violenza verbale: una bella iniziativa che, come vi sarà evidente, va nel senso diametralmente opposto alle volgarità del “Grande Fratello” sul quale non mi soffermo a lungo perché il caro Andrea Minuz ne dà ampio resoconto in altra pagina di questo stesso inserto.

  

A Torino la raccolta di racconti curata da Loredana Lipperini per il manifesto “Parole O-stili” lanciato lo scorso anno nelle scuole 

In via generale, terrei a sottolineare un punto che ritengo dirimente. Ci sono molti strumenti per segare i pioli della scala sociale ma quello che il marxismo più temeva, a ragione, è l’ascia dell’ignoranza usata a scopi liberisti; nel nostro caso, in ossequio al moloch dell’audience. Il profluvio di oscenità e di insulti rivolti nel corso del “Grande Fratello” a ogni categoria portatrice di handicap e la successiva, orchestratissima sfuriata della conduttrice Barbara D’Urso contro i suoi concorrenti, ha portato infatti a uno share medio del 27 per cento, dimostrando, tesi liberista, che l’oscenità e l’aggressività “sono quanto vuole il mercato” e che, il seguito potreste aggiungerlo voi come in una litania, “è il mercato a decidere”. Se vogliamo metterla sul grado zero dell’intrattenimento, il presunto mercato sarebbe pronto a vedere in diretta anche stupri, sgozzamenti e percosse inferte agli infermi, e dopotutto è questo che trova cercando sul web e fra i social e che di solito accoglie con una salva di like. Ad eccezione delle faccine e dei pollici alzati, questo è quanto si legge anche nelle cronache della Rivoluzione francese, fra le foto della Liberazione del 1945 e sui reportage dall’Etiopia: immagini e racconti di gentaglia che assiste fra risate e sghignazzi alle atrocità di cui sopra e che, anzi, vi partecipa appena possibile e soprattutto se certa di uscirne impunita. Le cose stanno sempre ed esattamente come cento e duecento anni fa, a dispetto dei diversi mezzi di comunicazione e del ricco, apparente ventaglio di opportunità offerte a tutti: mentre nel mondo alla portata popolare viene data in pasto una nuova saga dei Rougon-Macquart, purtroppo senza la penna di Emile Zola a raccontarne vizi e tare contando sull’avvento di una rivoluzione sociale che possa sollevarli dal loro abbrutimento, nel piccolo universo di chi legge e continua a farlo ci si dota invece di mezzi lessicali atti a far sì che le masse prive della stessa consuetudine alla lettura usino parole che non conoscono. Una palese contraddizione: mezzi educativi per chi è già educato.

  

Eppure, il “Manifesto della comunicazione non ostile”, lanciato lo scorso anno anche nelle scuole e di cui questo libro Laterza prefato da Nicola Lagioia è testimonianza in forma narrata, rappresenta una piccola zattera di civiltà che non si può mandare alla deriva nella melma, e a cui bisogna giocoforza aggrapparsi. “Se oltre all’uso della lingua, ciò che ci distingue dalle altre specie è il possesso del libero arbitrio (o perlomeno di un arbitrio non del tutto precluso), allora usare le parole per evolverci o tornare a essere dei bruti è il nostro banco di prova quotidiano”, scrive Lagioia nell’introduzione, ed è impossibile contraddirlo. Come sapete, al Foglio amiamo legare i politicamente corretti con le stesse corde delle loro ipocrisie e difendere la satira a oltranza. Esiste però un gradiente di aggressività verbale che, con la complicità silente ma non latente dei social media, da qualche tempo ha risvegliato le peggiori coscienze alitando loro addosso un fiato fetido di presunzione, vanità e idiozia e che va combattuto. La nuova edizione del reality di Canale 5 ne è solo la deriva più visibile e immediata, proposta alla nonna che non usa Internet e dell’adolescente di casa che lo guarda in streaming fra i banner della pasta al sugo precotta e delle merendine, non si capisce per quale motivo interessati ad associare il proprio marchio a simile immondizia. Anno dopo anno, giorno dopo giorno, è però e innanzitutto il web ad aver alimentato, cullato e premiato bullismo, maleducazione e violenza verbale, ammantandoli di manifesta “ironia”, annullando l’offesa in un presunto chiacchiericcio mondano o affogandola nella finta legittimità del dibattito politico. #sifaperdire. Hashtag-ma-non-è-una-cosa-seria. “Mongoloide”. Volevo scherzare. “Puttana”. Non intendevo offendere. “Laido”. Non ne conosco il vero significato. E talvolta, non si tratta di falsa ignoranza: il lessico dell’italiano medio è inferiore alle diecimila parole, di cui solo ottocento vengono usate con grande frequenza.

    

“Che rischio è una Parola! Quando penso ai cuori che ha speronato o affondato…”, scriveva Emily Dickinson 

Uno dei più noti modelli di persuasione, la cosiddetta “finestra di Overton”, dal nome del suo teorizzatore, sociologo e attivista statunitense scomparso nel 2003, dimostra come qualunque idea, anche la più folle e inaccettabile, possa essere sposata dall’opinione pubblica, purché proposta in diversi gradi e stadi condivisibili. La premessa a contrariis, seguita dall’avversativa, ne è parte integrante: “Io non sono antisemita ma”. “Io non sono razzista, però”. “Io amo le donne eppure”. Per far sì che qualcuno si appropri di una certa idea e la faccia sua, talvolta è sufficiente che un personaggio politico e pubblico la promuova con espressioni caricaturali o estreme, offrendo dunque il destro alla smentita o alla dura presa di posizione contraria, perché attecchisca e inizi a germogliare: non c’è per caso l’ironia, alla base della politica cinque stelle di Grillo? Non ci sono sempre la smentita e la dura reprimenda, e sempre un po’ in ritardo, agli atti di bullismo e alle espressioni violente dei concorrenti del Grande Fratello? E’ trascorso meno di un mese da quando Paola Cortellesi lesse il suo monologo ai David di Donatello, una riflessione sul doppio significato di certe espressioni declinate al maschile o al femminile (“cortigiano/cortigiana”; “passeggiatore/passeggiatrice”). “Sono soltanto parole”, disse mentre veniva sommersa dagli applausi che, non ne ho dubbi, scoppiarono anche nei milioni di case che oggi godono degli insulti sessisti e delle volgarità del Grande Fratello: “Però”, aggiunse, “se fossero la traduzione dei pensieri allora sarebbe grave, sarebbe un incubo”. Poi accendiamo la televisione, apriamo i nostri account social (Instagram quasi del tutto escluso, in quanto specchio quasi esclusivamente fotografico delle nostre vanità e delle nostre fichissime esistenze) e veniamo continuamente esposti al peggio dell’espressione verbale e fisica dell’umanità. Per la solita regola di base del giornalismo, le buone notizie faticano a trovare lettori, e l’eleganza piace solo se affiancata da una rovinosa caduta e da un commento sapido. Avrete certamente letto i commenti alle immagini della (oggettivamente trashissima) serata di apertura del Fashion Costume Institute del Met: sulla scollatura debordante di Rihanna incoronata da una mitra para-vescovile sono uscite scurrilità irriferibili. E almeno il venti per cento dei commenti che affiancano le immagini di donne violentate, malmenate e uccise sul web racchiude parole talmente ostili nei loro confronti (il più banale e atroce: “Se l’è cercata”) da duplicare la violenza e lo sfregio subito, come sappiamo dalle cronache dei suicidi che non di rado hanno fatto seguito al secondo affronto subito, quello verbale.

  

Ogni parola conta, ogni espressione è dirimente e, come ha provato la John Hopkins University, influenza l’attività cerebrale, danneggiandola. D’altronde, quante volte ci siamo trovati a “bannare”, cioè a cancellare, mettere al bando, commentatori così ostili ai nostri post da mozzarci il fiato? E quanti, fra i nostri “amici” di Facebook, abbiamo avvertito che cancelleremo alla prossima espressione razzista, al nuovo insulto, all’ennesima banalità disinformata? Stiamo diventando i garanti del nostro stesso benessere sui social, impossibilitati però a farlo in tv e a proteggere i soggetti più deboli e impressionabili, esposti a ogni suggestione, titillati dall’orrore. Viene da domandarsi come riesca quella faccina pulita e perbene di Francesca Fialdini con il suo “Caffè” di sentimenti e carriere normali delle tre del pomeriggio a tenere testa a “Uomini e donne” con i tronisti oliati. I presunti talent sono diventati teatro di risse dove vince il più aggressivo, mentre in rete i controlli sono talmente labili da sfiorare l’insussistenza. Sul web, chiunque nutre la convinzione di poter attaccare qualunque sconosciuto in forma anonima o persino in modo palese, “mettendoci la faccia” come si dice adesso, addirittura nella speranza di farsi notare, di trasformarsi in un commentatore ascoltato, da invitare nelle trasmissioni di seconda serata.

  

“Che rischio è una Parola! Quando penso ai cuori che ha speronato o affondato, a malapena oso alzare la voce per qualcosa di più di un saluto”, scriveva Emily Dickinson. Eppure, senza quel rischio, cosa saremmo? Instillare nuovamente il tema del valore della discussione in una politica che va modellandosi sul vaffa vincente di Grillo e le sue derivazioni non è facile; meno ancora chiarire, e soprattutto ai più giovani, il confine fra pubblico e privato. Parlare si deve. Ma se, come ipotizza Lagioia in un felice paradosso, ogni parola usata è un possibile attentato contro la specie, allo stesso modo in qualunque nostra parola può nascondersi, ogni giorno, il segreto della nostra liberazione.

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