Carlo Calenda (foto laPresse)

Tutto il potere in un tweet

Andrea Minuz

Campagna elettorale extralarge con i 280 caratteri. A ciascuno il suo stile, ma la vera star è Calenda

Invece di contrastare la crisi della democrazia con un salutare sbarramento a tre righe per i post su Facebook, sono raddoppiati i caratteri su Twitter. Un regalo per Donald Trump, Grillo, Salvini, oltre che per gli azionisti della società che lo scorso anno era a un passo dal tracollo. I posteri alle prese con la storia della politica italiana nell’epoca dei social lo vedranno come uno spartiacque decisivo. Twitter che passa da centoquaranta a duecentottanta caratteri è un gancio formidabile per la naturale inclinazione allo sbrodolamento della lingua di Dante, del melodramma e del paese dove i talk-show durano quattro ore. Il nove per cento dei tweet in inglese – secondo i dati in possesso della società di Jack Dorsey – raggiungeva infatti il limite dei caratteri disponibili, costringendo gli utenti a rivedere frasi, punteggiatura e in molti a casi a mollare il tweet a metà. Figuriamoci in italiano. Figuriamoci in campagna elettorale.

   

Sarà certo un caso, ma l’avvio di questa nuova fase di Twitter coincide anche con la repentina ascesa del ministro Carlo Calenda. La media di un tweet o un retweet ogni cinque ore, una bio che recita “dalle aziende alla politica, per ora senza pentimenti”, il globo terrestre come immagine di copertina, Calenda ha trasformato il suo canale in un tavolo di concertazione permanente, aperto, disponibile al dialogo. Un luogo dove si accendono discussioni con colleghi di partito, avversari politici, giornalisti, perfetti sconosciuti e fan dello sceneggiato “Cuore”, il nostro “Flags of our Fathers”, col piccolo Calenda nei panni di Enrico Bottini. Ironia social quanto basta, uso sobrio degli #hashtag, niente selfie, su Twitter Calenda si esercita instancabilmente nella nobile arte della confutazione con piglio logico-pragmatico, un po’ Circolo di Vienna, un po’ Canottieri Lazio. Dal canone Rai alle tasse universitarie libere & uguali, dall’Alitalia ai fact-checking sui Cinque stelle, dal Dossier Ilva alla Costituente per Roma, Calenda parla con tutti, ascolta tutti, risponde a tutti, anche agli avatar e ai fake (su Twitter c’è “Ciccio Calenda”, ministro di “Roma Norde” che lo invita a rivedere il taglio di capelli; “Ciccio piantala!” risponde Calenda, “gli avatar dovrebbero aiutare, l’estetica è quella che è, accontentati”).

 

Brilla Calenda con i duecentottanta caratteri che sfrutta fino in fondo togliendo articoli e virgole (ma non il punto esclamativo) per dialoghi socratici con Matteo Orfini e Andrea Fabiani sul canone che sono tutto un punto di domanda: “Servizio pubblico?” “Privatizzazione?” “Piattaforme diverse?” “Residuo ideologico?” Confronti sempre eleganti, in punta di fioretto, pieni di “non credo”, “mi spiego meglio”, “ti ringrazio per questa osservazione”, belli, bellissimi, inspendibili in campagna elettorale ma struggenti nell’epoca degli haters. Magistrale Calenda su Grasso e l’università: “Pietro provo a metterla giù semplice” (attacco formidabile, un primo piano di Calenda che spunta dall’ombra, si siede, spegne la sigaretta e guarda Grasso negli occhi) “non capisco perché un operaio senza figli dovrebbe pagare, sia pure proporzionalmente al suo reddito, l’università per sua figlia. Si aumenti allora la soglia di esenzione, o ancora meglio si rafforzino le borse di studio per alloggio etc…”, dove “etc” significa “non voglio infierire” prima che “ho finito i caratteri”. 992 retweet, 2.946 cuori. A star is born.

 

Calenda è il volto buono, deamicisiano, della casta. Per questo difende Di Maio da chi lo attacca sul curriculum scadente. Perché Calenda crede nello spazio pubblico di Habermas, mica nei selvaggi di Rousseau, crede nell’avvento di tempi migliori, nella logica modale, nella dialettica dell’illuminismo. Pochi giorni fa al Teatro Parenti di Milano per presentare la candidatura di Giorgio Gori, Renzi ha detto: “Io e Calenda non abbiamo iniziato a discutere ora, abbiamo sempre discusso, solo che lui ora ha scoperto Twitter”. Se Trump, come rivela il “New York Times”, passa la giornata sul divano, sbragato davanti alla tv con dodici lattine di Diet Coke e l’i-Phone sempre in mano per twittare, Calenda lo immaginiamo dentro una smart in coda sul Muro Torto che twitta guardando fuori dal finestrino, col Sole 24 Ore sulle ginocchia. Così trova anche il tempo di rispondere ai fan di “Cuore”. Loro gli fanno notare quanto sia rimasto uguale al Calenda bambino, lui ringrazia ma precisa: “Però come attore ero un cane, bisogna ammetterlo”.

   

Siamo insomma molto distanti dal “positive thinking” di Renzi, dei suoi slogan, dei suoi hashtag, la buona scuola, la volta buona, stai sereno. Renzi è stato l’apripista. Il tweet “Arrivo, arrivo” con cui entrò a Palazzo Chigi sta alla politica italiana come la “discesa in campo” del 1994. “Un cinguettio che rompeva ogni tabù istituzionale”, come scrivono Roberto Tallei e Matteo Grandi nel loro libro sui tweet di Renzi, “ma che è anche un po’ la summa di tutta la comunicazione social del premier più giovane della storia repubblicana”. Nel paese dove la tv generalista non muore mai, Renzi e Twitter erano diventati praticamente sinonimi.

 

Quella mancanza di profondità, quell’impossibilità di costruire pensieri complessi in centoquaranta caratteri si convertivano nell’emblema di una “leggerezza” calviniana all’epoca della Leopolda, la nostra Silicon Valley in maniche di camicia arrotolate. “Tra Dante e Twitter”, diceva il titolo del suo libro sulla “rivoluzione della bellezza” (“Stil novo”). Renzi diventava il leader europeo più seguito su Twitter e Twitter era una delle manifestazioni più compiute della rottamazione, la tavola da surf su cui Renzi volava via dalla melma ideologica del Novecento. Se Renzi non twittava i giornali lo scrivevano e allora Renzi gli rispondeva con un tweet. Non l’uomo della sintesi, semmai l’uomo “delle” sintesi che sfociavano in una narrazione nuova fatta di tweet, come i romanzi a puntate su Twitter che per un po’ presero piede persino dalle parti di Radio3, salvo poi renderci tutti conto dell’inutilità della cosa. Incisività, rapidità, disinvoltura, efficacia. In Italia, Twitter e Renzi sono cresciuti e si sono sviluppati praticamente insieme. Le caratteristiche di uno si riversavano nello stile comunicativo dell’altro e viceversa, decretando così il successo dell’operazione Matteo Renzi ma anche indicando subito i suoi limiti strutturali (pochi utenti in Italia, una diffusa diffidenza per quell’aria fighetta che si associa al social network “per giornalisti”). Poi arrivarono gli altri.

  

Tra il 2014 e il 2016, la parola più usata da Salvini sui social fu “Renzi”. Oggi Salvini è padrone del mezzo almeno quanto lo era il Matteo Renzi di “Arrivo, arrivo!”.  Calenda ha trovato il suo stile, in tutto e per tutto diverso da quello di Renzi. Non segue l’istinto, le immagini alla Baricco, l’Apple Park di  Cupertino, la leggerezza calviniana; non insegue la persuasione, né aspira a trasformare la propria vita in un hashtag. Calenda porta Twitter sulla sponda opposta sia di Renzi che del Movimento 5 stelle, dove la comunicazione è immediata, il linguaggio azzerato: montaggi, video, parole d’ordine, link, insulti.  Renzi e Grillo hanno in comune il lancio degli hashtag, ma tra un social media come Twitter e la galassia semantica della parola “blog”, automaticamente legata all’attivismo digitale dal basso, c’è la stessa differenza che passa la Leopolda e il V-Day. Sarebbe stato impossibile costruire il Movimento 5 stelle su Twitter e i tweet di Grillo rimandano quasi sempre al suo blog. Nel frattempo, su Twitter Grillo ha cambiato anche la bio. Dal celeberrimo “ci vediamo in Parlamento, sarà un piacere” a un più ecumenico “in alto i cuori”, in linea con la svolta pseudomoderata del nuovo Di Maio da rotocalco Cairo, tra endorsement di Orietta Berti e baci a San Gennaro. Per Grillo gli hashtag di Twitter non sono solo slogan elettorali, ma tasselli decisivi del più vasto mosaico della Casaleggio Associati, col suo flusso di dati e il proprio esercito di troll, ghost, fake. Grillo retwitta i suoi fedelissimi. Nessun confronto, nessun dialogo, niente replica. La democrazia diretta non parla. Di Maio invece ha una copertina a fumetti con lui che spunta fuori da un’auto da rally sullo sfondo della Torre di Pisa, del Colosseo, del Duomo, in linea con la campagna “#Rally per l’Italia. A tutta velocità verso il governo”. Hashtag di rivolta, come #vogliamosapere, e un grande uso di video, come quello in cui Di Maio al volante saluta Orietta Berti mentre sfreccia verso Aosta sulle note di “Fin che la barca va”.

   

Ancora inarrivabile in televisione, Berlusconi usa Twitter più che altro in formato “vetrina” per rilanciare, espandere, incorniciare le sue dichiarazioni, la sua immagine, le apparizioni nei talk-show: “Sempre più spesso quando viene svaligiato un appartamento, i ladri cercano, prima che la cassaforte, il frigorifero. Vuol dire che sono persone alla fame. E chi è alla fame può fare qualsiasi cosa”, che detto come ospite da Matrix è un conto, ma letto nella timeline di Twitter fa pensare subito al finale dei “Soliti ignoti” di Monicelli che si mangiano pasta e ceci in cucina. L’utente di Twitter è diverso dal pubblico di Mediaset ma il Cavaliere è un genio e conosce bene il paese che ama. Il primo tweet lo dedicò alle pensioni minime, l’ultimo di ieri alle #mamme: “Le persone che hanno lavorato di più, fino a sera tardi, il sabato e la domenica, durante le ferie estive, senza essere mai pagate. Hanno diritto a una vecchiaia serena e dignitosa: per questo il nostro programma prevede la pensione anche per le mamme”. Tweet garbati, pieni di virgole, piccoli pezzi di scrittura che rimandano alla scrivania in noce con libreria alle spalle della sua “discesa in campo”, quasi fossero scritti a mano, come quelli di Monsignor Ravasi. La domanda ovviamente è: ma Twitter sposta voti?

  

No, non ancora, di sicuro non da noi. Twitter gioca semmai un ruolo decisivo nella polarizzazione del dibattito, favorisce gli estremismi, aggrega reti, contenuti, ma allo stesso tempo plasma nuove personalità politiche, definisce nuovi equilibri all’interno dei partiti. Con la scomparsa dei corpi intermedi, la crisi dei giornali e della tv, Twitter diventa un efficace strumento di misurazione della propria abilità comunicativa o dialettica (vedi Calenda), della capacità di gestire e coordinare reti (Grillo), della capitalizzazione delle proprie apparizioni televisive, come nel caso di Salvini o Berlusconi. Matteo Salvini è un ottimo esempio di come i social media, e Twitter in particolare, possano rilanciare i talk-show. Qualche anno fa, quando ancora era a “Ballarò”, Floris si arrabbiò in diretta:  “Salvini, o ci ascolta o scrive su Internet”. Avrebbe dovuto semmai ringraziarlo. Salvini da Floris diventa trendtopic, i suoi tweet innescano un circuito tra social e tv, il pubblico si sintonizza.

  

Nell’epoca della convergenza tra smartphone e tv, Twitter (soprattutto Twitter a duecentottanta caratteri) può essere integrato alle trasmissioni televisive in modi più raffinati della striscia di messaggi del “pubblico a casa”, rilanciando così il vecchio format dei talk. L’idea che Twitter e la tv siano due canali diversi e in competizione tra loro è del tutto errata. Per esempio, il celeberrimo hashtag #Enricostaisereno è nato in televisione, quando Renzi era ospite di Daria Bignardi e ormai vive di vita propria, riadattato, manipolato, remixato nei contesti più disparati. Studiare il comportamento dei leader politici su Twitter, le loro interazioni, gli hashtag, le discussioni, le reti di follower, è ormai un passaggio obbligato per comprendere le trasformazioni del rapporto tra i cittadini e la politica.

  

Con Twitter  si radicalizza l’idea di un rapporto fiduciario costruito esclusivamente sulla persona, ogni leader politico ha la sua “terza camera”, ma allo stesso tempo non è facile trasformare quel capitale simbolico in voti. In tal senso, Twitter è ancora molto lontano dall’opinione pubblica. La capacità comunicativa, vecchio cavallo di battaglia degli anni Ottanta, è sempre meno importante della viralità, ma la viralità in rete è poco gestibile. Alcuni giornalisti, come Conor Friedesdorf dell’Atlantic, sono arrivati persino proporre il divieto di utilizzo della piattaforma a tutti i capi di governo. Idea poco praticabile, regressiva e controproducente. Ottima semmai per trasformare Trump o (Dio non voglia) Di Maio in martiri dei media.

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