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Il cappio dei social

Girotondo di idee fra politici ed esperti dopo l’intervista di Minniti al Foglio: la politica si deve liberare da Facebook e Twitter? Spunti e opinioni

Il buon senso, in politica e sui social

di Andrea Romano, deputato del Pd

E se Togliatti o De Gasperi avessero avuto a disposizione Twitter o Facebook, che uso ne avrebbero fatto? Impossibile rispondere, se non immaginando che entrambi avrebbero usato sui social lo stesso metodo politico e retorico che utilizzavano sulla stampa, nelle riunioni, nei comizi. Perché in fin dei conti i social sono solo uno strumento in più di cui disporre nell’azione politica. Minniti ha ragione da vendere quando sottolinea il rischio del “consenso a breve termine” per chi assume decisioni o la distorsione tribale che nasce dal circondarsi solo dal plauso di utenti adoranti. Ma politici dominati dal “breveterminismo” sono esistiti ben prima della schiavitù da social, così come la differenza tra un leader di qualità e un mediocre dirigente ha sempre coinciso con la differenza tra il circondarsi di collaboratori dotati di capacità critica e il cedimento alla tentazione degli yes-men. Può apparire banale, ma anche in politica vale la massima coniata da Aree Sreenivasan (colui che più di ogni altro ha indagato l’incrocio tra giornalismo e social media): “Ciò che è buon senso nella vita reale, è buon senso anche sui social”. E un politico capace di buon senso dell’èra pre-Facebook lo sarà anche ai nostri giorni. Tutto come prima, dunque? Nessuna minaccia alla democrazia dai social? Qui confesso di essere meno tranquillo di Minniti, che pure ha sempre un effetto rassicurante sulle mie ansie da cittadino e parlamentare. Perché non sono poi così convinto, come sostiene il Ministro, che non esista un solido rapporto tra la proliferazione del populismo e la proliferazione dei social. Se c’è una miniera dove il nuovo strumento dei social è riuscita a moltiplicare la capacità estrattiva, quella è la miniera del falso. La materia prima di cui si è sempre composto qualunque populismo oggi è straordinariamente più abbondante che in passato: più abbondante, più scadente, più economica. Non solo per questo, ma anche per questo accade che il populismo sia dotato di maggiore energia che in passato. E qui la sfida del “buon senso” rischia di non essere più sufficiente, mentre ogni democrazia contemporanea si interroga su come introdurre meccanismi a garanzia di un dibattito pubblico che conservi la differenza tra ciò che è verificabile e ciò che non è altro che una clamorosa patacca.

Echo chamber? Paura giustificata ma..

di Lorenzo Pregliasco, Quorum/YouTrend

 

La paura per le echo chamber è giustificata, ma ci sono evidenze empiriche che raccontano un quadro un po’ diverso. Secondo lo studio di Bill Dutton e colleghi, condotto su più paesi, l’80 per cento degli utenti ha affermato di aver trovato sui social opinioni diverse dalle proprie. Il 36 per cento di leggere addirittura “molto spesso” contenuti con cui era in disaccordo. E una quota compresa fra il 70 e l’85 per cento, a seconda del Paese, ha cambiato opinione su un argomento almeno una volta grazie a informazioni reperite sul web. Il confirmation bias, poi, la tendenza ad accogliere cioè opinioni e orientamenti che più facilmente confermano ciò che già pensiamo, è un fenomeno che arriva prima della tecnologia e dei social. Inoltre (dati Censis 2017) i tg rimangono la fonte di informazione abituale per oltre il 60 per cento degli italiani, inclusa la maggioranza degli under 30: non tutta l’informazione arriva dai social (anzi!), questa è semmai un po’ una eco chamber di giornalisti e osservatori dei social….

La resistenza politica al virtuale

di Giovanni Maddalena

 


Certo, chi governa dovrebbe fare a meno dei social network, così come dovrebbe evitare di leggere i sondaggi e andare ai talk show. Se possibile, dovrebbe fuggire anche i commenti dei giornali e le recensioni ai propri interventi o libri. Tutta la comunicazione è tendenzialmente pericolosa e almeno per quanto riguarda social, sondaggi e talk show ampiamente manipolata e manipolatoria della percezione di chi vi partecipa. Del resto, è la natura dei mezzi di comunicazione quella di alterare anche il proprio contenuto ed evitarli del tutto permette totale autonomia a chi deve prendere delle decisioni. Vero, ma funziona bene solo in una politica commissariata o in una dittatura, augurandosi che ci siano commissari e dittatori illuminati. In democrazia, i politici devono cercare il consenso ed è impossibile che a esso non facciano riferimento e ricorso con tutti i mezzi possibili. Immaginare una campagna elettorale senza questi strumenti, e senza le loro inevitabili distorsioni, sarebbe impossibile almeno quanto ri-soppiantare la cultura scritta con quella orale.

 

L’intervista a Minniti sul Foglio di venerdì 17 novembre, in realtà, diceva solo che occorrerebbe che il politico, come ogni uomo, fosse in controllo dei mezzi di comunicazione e non ne fosse succube. E’ una frase di buon senso che si sente ripetere spesso, ma che nasconde la vera piaga: come si fa a essere in controllo dei mezzi e non lasciarsi controllare da essi? Lasciando perdere quelli che non vedono il problema perché divinizzano la tecnologia, finora le soluzioni presentate sono principalmente due. Da un lato, si dice che occorre più pensiero critico – più abitudine al dubbio e allo scetticismo – come se non fosse proprio questa abitudine ad aver reso pericolosa una comunicazione del tutto insensibile al richiamo della verità. Dall’altro, si demonizzano i mezzi di comunicazione attuali come frutto di una tecnica poco umanistica fatta per dominare l’uomo e renderlo schiavo. Sono le stesse opinioni che si erano create con l’invenzione della stampa e, temo, con l’invenzione della scrittura. Sono in fondo soluzioni poco rispettose dei fatti e un po’ ipocritamente moraliste. Nell’intervista a Minniti c’era invece un bel accenno a una terza possibilità. Minniti fa giustamente la differenza tra una comunità virtuale e una reale. In fondo, la grande resistenza alle possibilità degenerative delle reti non si trova né in una maggiore o più sofisticata intelligenza né in un rifiuto ma nella possibilità di usare le reti virtuali all’interno di reti umane. E’ una resistenza che diventa uso consapevole e che è di natura affettiva e non intellettuale. O, per dirla con parole antiche, è una resistenza politica, nel senso più nobile della parola.

Il grido di allarme di una politica debole

di Stefano Epifani, docente di Internete Social media Studies, Sapienza

 

“Si possono dire le cose sbagliate, basta che le ragioni siano giuste” diceva Umberto Eco. Tuttavia talvolta succede il contrario: una serie di considerazioni giuste porta a conclusioni irrimediabilmente sbagliate. Minniti nella sua intervista analizza perfettamente i fenomeni distorsivi generati dalle echo chamber dei social network. Vede chiaramente quanto sia centrale il ruolo di questi strumenti nel processo di costruzione delle idee e del consenso. Percepisce distintamente la fallacità del ragionamento per il quale uno varrebbe uno che, dal punto di vista della scienza delle reti, è sbagliato nel metodo e nel merito: in una rete ogni nodo ha un peso diverso dagli altri in funzione della sua posizione, del numero di connessioni, della qualità dei legami.

 

Ma se le premesse del suo discorso sono inappuntabili le conclusioni lasciano esterrefatti. Restare fuori dai social media per non esserne influenzati ricorda un po’ il Lando Buzzanca di “Fermate il Mondo voglio scendere!”, e non può che portare agli stessi risultati. Quello di Minniti è il grido di allarme di una politica debole, che gioca in difesa in una società che corre più veloce di lei e che adotta strumenti ai quali essa non riesce ad adeguarsi e, invece di cercare di comprenderne le dinamiche e le opportunità, cerca di negarne il ruolo, non riuscendo però ad evitarne gli effetti negativi. Una politica che ammette di essere guidata da like fraintesi per consensi ma che non trova la forza di imporsi in un processo di rimediazione del ruolo dei partiti, che sono lungi dall’essere la soluzione, essendo – in un paese di astensionisti – parte del problema. Una politica il cui cervello è affetto da una agenesia del corpo calloso che le fa percepire ancora oggi il mondo diviso in reale e virtuale. Che lo abbia detto James Freeman Clark o De Gasperi c’è da chiedersi, se è vero che uno statista pensa alle prossime generazioni mentre un politico alle prossime elezioni, cosa siano, oggi, quei personaggi che si fanno influenzare dal consenso istantaneo di un post su Facebook. E se il problema sia dei social media o della nostra classe politica.

Potere decisionale e qualità della discussione politica

di Elisa Simoni, deputata di Mdp

 

Il modo con cui il ministro Minniti ha affrontato il mondo dei social network ci apre a un’analisi che mette al centro il rapporto tra il potere decisionale e la qualità della discussione politica possibile sulle piattaforme social. Bisogna premettere una cosa: personalmente ritengo impossibile che un politico oggi non abbia una propria presenza sui social network dato che è innegabile che una fetta importante dell’opinione pubblica e dell’elettorato ormai utilizzi prevalentemente Facebook e Twitter per informarsi e per sviluppare le proprie idee politiche. Escludere questi spazi dal proprio agire rischia di essere anacronistico. Detto questo, è importante invece interrogarsi sul linguaggio e sulle dirette conseguenze che si hanno nel campo delle politiche. Il modo di dialogare sui social, infatti, è condizionato dal ruolo istituzionale che si occupa; escluso il caso limite di Donald Trump che, a quanto pare, utilizza direttamente l’applicazione di Twitter, chi ricopre ruoli apicali -come ha ammesso lo stesso Macron – ha un’impossibilità materiale nel mantenere un rapporto dialogico con i propri follower. Un capo di stato o un ministro sicuramente devono riflettere sull’atteggiamento da tenere su questi canali: un profilo istituzionale costringe di fatto a depersonalizzare il linguaggio e a servirsi di uno staff che lavora per te in tutto e per tutto, ma è un passaggio probabilmente necessario. Il rischio di cui parla Minniti, come abbiamo visto anche nella politica italiana, è reale: parlare “direttamente” ai cittadini-elettori rischia di spostare il linguaggio verso una comunicazione con toni populisti senza la necessaria visione prospettica propria della politica, privilegiando allo stesso tempo il presente e la risposta immediata. Questo non toglie che il dialogo e la raccolta di opinioni rimangano attività fondamentali da perseguire qualunque sia il ruolo ricoperto. In tal senso recupero anche l’analisi di Enrico Letta che, al riguardo, aveva fatto notare che sui social network “le leadership si consumano più rapidamente” anche perché “sono oggi sottoposte a una pressione non paragonabile al passato”. Il risultato è “soffrire un’usura del tempo molto più accelerata rispetto a prima e deperire in fretta”, perché  “la normalità non esiste più e il concetto di leadership è trasformato dai social media”. Questo è il punto: la comunicazione politica è di fronte a un cambio paradigmatico del proprio linguaggio di cui i social sono lo strumento per arrivare a un nuovo modo di porsi e confrontarsi. Una sfida per le nostre democrazie che va affrontata con coraggio e senza sottrarsi ai problemi che essa implica. E’ anche una sfida anche per la sinistra che, fino ad oggi, si è occupata dei social alla stregua di stampa e propaganda come nei decenni passati; bisogna capire se questi strumenti sono permeabili allo sviluppo di un pensiero politico che possa contrastare o meno l’attuale egemonia culturale.

Uscire dalla schiavitù senza snobismi

di Claudio Velardi

 


Un vecchio dirigente del partito in cui Marco Minniti è cresciuto, traeva vaticini sugli ‘orientamenti delle masse’ dal suo barbiere e li riferiva nella direzione del partito. Dal coiffeur di fiducia d’antan alla rete dei giorni nostri il passo è grande ma non troppo, e Minniti ha ragione a dire che non bisogna farsi condizionare da urlanti e follower dei social. Un politico deve avere lo sguardo lungo, non può perdersi nel narcisismo dei like. Ma – sia chiaro – dalla rete non può prescindere. Lo dicono proprio i buoni libri che il mio amico Marco ha sul tavolo: Acemoglu e Robinson che spiegano come a vincere sono i sistemi inclusivi, quelli che vivono di implementazione delle reti, e Daniel Kahneman che parla delle dinamiche psicologiche profonde, non razionali, che orientano le nostre decisioni quotidiane nel mondo iperconnesso. Il punto è uscire dalla schiavitù di Facebook senza inutili snobismi. Il bravo politico deve avere un pensiero forte e nello stesso tempo persuadere la gente delle proprie buone opinioni. Come dice Francesco Nicodemo nel suo Disinformazia , non fare come Eco che se la prendeva con gli imbecilli del web, ma come Gianni Morandi, che interloquisce in rete con pazienza e buonsenso, instilla il dubbio nei fanatici e prende gli haters per stanchezza. Si perde un po’ troppo tempo? Forse, ma solo così si toglie acqua ai populismi e, soprattutto, si può pensare di governare l’agenda pubblica. Che è l’unico e solo compito di un politico moderno.

Tutto cominciò con la giudiziarizzazione della vita democratica

di Matteo Forte, consigliere comunale di Milano

 

In principio fu la giudiziarizzazione della vita democratica. Un approfondimento delle parole rilasciate da Marco Minniti al Foglio, in merito all’attacco cui è sottoposta la politica da parte del mito della democrazia dei social, non può non partire da quel lento svuotamento delle prerogative di chi fa politica perpetrato da chi si occupa di diritto. Non è possibile tacere su quello sbilanciamento avvenuto in Italia a fine guerra fredda ad opera di certe procure e che ha ridisegnato l’assetto istituzionale, colpendo alcuni partiti e risparmiandone altri. Il resto è cronaca degli anni più recenti: una sorta di sovranità condivisa e accettata ha permesso l’ingresso nell’ordinamento di “nuovi diritti” per via giurisdizionale. Si tratta, appunto, della giudiziarizzazione della vita democratica, che tende a frammentare i processi decisionali e ad erodere la responsabilità della politica. Indebolita in queste fondamenta l’Italia si approccia alle sfide del nuovo millennio, si trova a fare i conti con la crisi generale della democrazia rappresentativa. Crisi che, per la natura del mito della trasparenza tanto in voga e in analogia con il processo di giudiziarizzazione, dovrebbe risolversi con il sorgere di un decisore che annulla la propria responsabilità personale limitandosi a deliberare quel che viene suggerito da altri: siano essi i followers, siano le toghe. Gli algoritmi che governano la rete e scandagliano le nostre mail, le chat, i like, le nostre condivisioni e cerchie di amicizie sono sempre più in grado ormai di rivelare le sottostanti motivazioni neurologiche per le quali si fanno talune scelte piuttosto che talaltre. Da qui nasce l’idea di una tecnocrazia diretta chiamata a soppiantare la democrazia. Per coloro che la teorizzano basterebbe sviluppare una classe dirigente di esperti ingegneri informatici, in grado di leggere gli ingenti flussi di dati prodotti dal nostro connetterci e prevedere soluzioni da applicare nel giro di un tempo brevissimo, per superare quelle che sono considerate le lungaggini e le inconcludenti liturgie della democrazia. Tuttavia gli stessi teorizzatori delle soluzioni che guardano al buon governo come ad un mero problem-solving sono tutto fuorché post-ideologici. Non è un caso che essi – come Parag Khanna – facciano riferimento alla repubblica di Platone e all’idea di un comitato di guardiani in grado di ripulire la “tela” del governo da ogni immagine di città e attitudini umane per riprodurne di nuove attenendosi “a un modello divino” (cfr. Platone, La repubblica, Libro VI). Oggi il modello sarebbe ovviamente quello intellegibile attraverso i Big data. Ma questo è un approccio che tende ad appiattire la persona ad un’unica idea matrice, ovvero quella della sua importanza funzionale al flusso e alla trasparenza delle informazioni Inoltre la tecnocrazia finisce per piegare sotto presunte migliori performance ogni libera competizione fra sensibilità e concezioni del mondo che limitano le pretese totalizzanti le une delle altre. Stessa sorte tocca al libero associarsi dei cittadini tra loro e alla loro conseguente iniziativa in vista del bene comune.

 

Per questo lottare oggi a difesa delle prerogative della politica coincide con il difendere quelle della persona e la sua libertà. Osserva giustamente il filosofo contemporaneo Byung-Chul Han nel suo recente Psicopolitica: “Essere-liberi originariamente significa essere tra amici. Nell’indogermanico, libertà (Freiheit) e amico (Freund) hanno la stessa radice: la libertà è essenzialmente un termine di relazione. Ci si sente davvero liberi soltanto in una relazione soddisfacente, in un felice essere-insieme all’altro” (p. 11). Non certo perché un governo di tecnocrati disegna la città attenendosi ad un modello divino.

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