Ormai l'allarme “climatico” ci è sfuggito di mano
L’allarmismo non serve, senza politiche espansive il taglio della CO2 è un’utopia retorica
Ormai è sfuggito di mano. L’allarme “climatico”, intendo. Vive di vita propria. Evocato, come causa ultima, dei fenomeni ed eventi più disparati dello “stato di salute del pianeta”. Si rischia l’overflow di allarmismo climatico. Con la conseguenza paradossale di ottenere l’effetto contrario: stanchezza e indifferenza. Anzi. La protesta recente dei gilet gialli in Francia, almeno nelle sue motivazioni originarie, avrebbe dovuto ammonire sui segni di rigetto e di insofferenza verso una retorica dell’allarme climatico che, nella policy dei governi, sembra ridursi solo a misure impositive in nome della “mitigazione” dei cambiamenti climatici. Occorrerebbe una riflessione. Si rischia una saturazione, una caduta di credibilità e di efficacia del messaggio climatista. Qualcosa non funziona se, dopo 30 anni di conferenze governative e campagne sul clima, si denuncia scoramento, impotenza e ansia.
La narrazione climatista dovrebbe trovare il coraggio di un’autoanalisi. Politici e intellettuali, anziché limitarsi ad accogliere e registrare le supposte verità “scientifiche” di tale narrazione, dovrebbero sottoporre a verifica critica il discorso climatista. Per cogliere ciò che non va. Anzitutto nella overdose di pessimismo e catastrofismo che sta prendendo la mano.
Tre esempi.
Il primo: non è corretto ridurre l’intero spettro dei fenomeni riguardanti lo stato di salute del pianeta – disponibilità delle risorse naturali, stato dei suoli, estensione delle foreste, stato degli stock ittici e delle risorse marine, inquinamento ecc. – agli effetti del riscaldamento globale. Si compie una mistificante opera di riduzionismo e semplificazione. Priva di basi scientifiche. Si è arrivati a prefigurare uno Earth Overshot Day, una data apocalittica che segnerà la “fine delle risorse nutritive” della Terra: una damnatio malthusiana che prescinde dalla tecnologia, dai miglioramenti di produttività in agricoltura, dalle tecniche di produzione e trasformazione, dalle invenzioni e dalla scoperta di nuove fonti.
Secondo esempio: è di moda attribuire alla scienza la responsabilità dell’ipotesi, dominante nella narrazione sui cambi climatici, che sia accertato (a meno di una rivoluzione energetica entro il 2030) un’evoluzione catastrofica irreversibile del clima terrestre fino ad esiti apocalittici. Non è corretto. La letteratura scientifica si limita a certificare l’esistenza (da un secolo) di un global warming (aumento di 1 grado delle temperature terrestri) e a formulare ipotesi e scenari (assai variegati e diversi) sull’evoluzione possibile del clima. Che spaziano tra intervalli di probabilità, a emissioni costanti, tra 1,5° C e 4,5° C. Per i valori prossimi a 1,5° C cadono tutti i proclami catastrofisti. E così, a gradazioni diverse, per molti degli scenari successivi. Questo è ciò che è attribuibile alla scienza (compresa quella ufficiale dell’Ipcc dell’Onu) in materia di evoluzione del clima. E’ una decisione politica, invece, quella di aver isolato, assunto e assolutizzato il valore più catastrofico, di aver trasformato un’ipotesi orientativa in verità incontrovertibile, di aver preteso di radicare, sull’ipotesi più catastrofica, le politiche pubbliche.
Terzo esempio: l’ipocrisia della politica. Oggi sono i politici di governo e i rappresentanti statali (soprattutto in Europa) a esercitarsi nella gara dell’allarme climatico, nell’appello “a fare qualcosa e a farlo presto”. E’ singolare. La politica (i governi) ha molte tare sul tema del clima. Anzitutto tace la verità: dopo 30 anni di conferenze governative sul clima, di unanimismi di facciata, di denuncia allarmistica sullo stock di CO2 antropica in atmosfera, di proclami solenni e assunzioni di impegni, le emissioni di CO2 sono costantemente crescenti. Quali sono le ragioni? Solo mancanza di volontà, resistenze delle popolazioni o negazionismi di alcuni? Troppo facile. La verità è che la politica climatica ufficiale, quella delineata alle Conferenze sul clima e assunta, senza differenze di colore politico, in ogni programma di governo è a un’impasse: il costo recessivo e sociale, non sostenibile, di politiche antiemissive fondate sulla penalizzazione delle fonti fossili, l’imposizione e misure di limiti e divieti. Il costo di una “transizione energetica” affidata, troppo e solo, a misure di penalizzazione e rinuncia ai vantaggi delle fonti fossili si presenta come, eccessivamente, stagnante e recessiva sullo scenario internazionale e a livello delle singole economie. E sta portando allo stallo delle politiche sul clima. Servirebbe il coraggio di un’alternativa: abbandonare gli allarmismi ansiogeni (dieci anni sono troppo brevi per la transizione energetica) e il pessimismo; coniugare decarbonizzazione con politiche espansive; sostituire alle politiche penalizzanti il driver della tecnologia. E convincersi: l’uomo non potrà mai mitigare il clima. Titanico e prometeico. Valeva per le mitologie primitive. L’uomo può mitigare, invece, gli effetti del clima, può adattarsi a esso (lo ha sempre fatto) con le opere e la conoscenza. Ma per fare questo il catastrofismo non serve, paralizza.