Le previsioni sul global warming fatte trent'anni fa, si sono poi avverate?
Le certezze di Hansen nel 1988 oggi sono state smentite dai fatti
Roma. Il 23 giugno del 1988, lo scienziato della Nasa James Hansen tenne una drammatica testimonianza davanti alla commissione Energie e Risorse naturali del Senato americano. Quel giorno la temperatura aveva toccato i 98 gradi Fahrenheit, un record per quell’inizio estate. Erano giorni di caldo eccessivo, e Hansen spiegò ai preoccupati senatori che c’era un’alta probabilità che ci fosse uno stretto rapporto di causa-effetto tra l’effetto serra e il riscaldamento osservato in quel periodo. L’isteria sul riscaldamento globale è iniziata quel giorno. Dopo quella testimonianza, ben rilanciata dalla stampa americana prima e mondiale poi, il global warming ha iniziato a farsi spazio nell’agenda politica di mezzo mondo, a occupare pagine di giornali, spezzoni di tg, film e documentari.
Le parole di Hansen hanno dato la linea a qualunque discussione, studio e previsione sul tema, arrivando a innervare nel profondo le politiche climatiche dell’Amministrazione Obama, basate su modelli che davano per certo un riscaldamento sempre più rapido. Gli scenari che Hansen aveva prospettato trent’anni fa erano tre: il primo, quello del “business as usual”, incui si prevedeva un innalzamento delle temperature globali medie di un grado entro il 2018. Il secondo, che immaginava un aumento moderato delle emissioni di CO2 – il più “plausibile per Hansen” – prevedeva un aumento di 0,7 gradi entro quest’anno. Il terzo, il più ottimista e per questo “altamente improbabile”, immaginava emissioni costanti dal 2000 in poi, con un aumento delle temperature contenuto in pochi decimi di grado nei successivi trent’anni. Tutti sappiamo come è poi andata: le emissioni di CO2 sono aumentate esponenzialmente, le Nazioni Unite, i governanti, gli ambientalisti, gli attori impegnati e i cantanti preoccupati hanno lanciato appelli, promosso incontri, organizzato summit per costringere tutti a tagliare i gas serra. Poco, molto poco, è stato fatto. Eppure, lo ricordavano sul Wall Street Journal in questi giorni Pat Michaels e Ryan Maue del Cato Institute, lo scenario che si è realizzato trent’anni dopo quella sudatissima testimonianza di Hansen al Senato è il terzo: le temperature globali sono sì aumentate, ma di poco. Anche i modelli ideati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite hanno, in media, previsto circa il doppio del riscaldamento osservato da quando il monitoraggio della temperatura satellitare globale è iniziato 40 anni fa. Per tre decenni i governi hanno quindi fatto politiche costose per combattere i cambiamenti climatici basandosi su previsioni che non si sono assolutamente avverate, ma che all’epoca erano considerate verità assolute. Hansen aveva fatto anche altre profezie, però.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta si sarebbero dovute osservare temperature più alte della media negli Stati Uniti sudorientali e nel Midwest: nessuno strumento ha mai rilevato variazioni significative. Nel 2007 Hansen provò a raddoppiare. Il riscaldamento globale avrebbe naturalmente cominciato a far sciogliere la Groenlandia, con conseguente innalzamento dei mari: una ricerca pubblicata su Nature ha spiegato come questo sia impossibile anche nel caso di un innalzamento molto maggiore di quello attuale delle temperature. Ulteriori previsioni di Hansen non si sono avverate: né l’aumento dei tornado, né quello della potenza degli uragani, né dei danni provocati dalle tempeste. Eppure continuiamo a sentirci dire che sono necessari sacrifici per fermare i cambiamenti climatici. Perché la gente – si chiedono Michaels e Maue – dovrebbe pagare costi drastici per tagliare le emissioni quando la temperatura globale agisce come se quei tagli fossero già stati fatti?