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Che fine ha fatto l'emergenza climatica?

Piero Vietti

Come succede a tante battaglie politicizzate dalla sinistra, non gliene frega più niente a nessuno

Che fine ha fatto l’emergenza climatica? E’ solo un’impressione o la lotta ai cambiamenti climatici non è più all’ordine del giorno di molte agende governative, mediatiche e burocratiche? Come sembrano lontani gli anni delle marce in occasione dei summit delle Nazioni Unite sul clima, degli appelli di politici, vip della musica e del cinema, delle prime pagine dei giornali sugli iceberg che si staccano dall’Antartide e ogni anno erano un po’ più grandi (come Roma, di più!, come la Valle d’Aosta, di più!, come l’Austria!), delle conferenze del principe Carlo che, come in “Non ci resta che piangere”, ci ricordava con un inquietante conto alla rovescia che eravamo tutti destinati a morire se non avessimo fermato la produzione di gas serra – e ce lo diceva attraversando il mondo in aereo.

 

“Climate change is over”, scriveva due giorni fa sul Wall Street Journal Steven F. Hayward. Non nel senso che il clima abbia smesso di cambiare, o che le attività umane non abbiano più alcuna influenza sull’aumento delle temperature globali, ma nel senso che del tema a nessuno sembra ormai fregare più niente. E no, la colpa non è di Donald Trump che ha deciso di sfilare gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi: la mossa del presidente americano non ha che ratificato in mondovisione ciò che molti governi hanno iniziato a fare da mesi, abbandonare poco per volta la decarbonizzazione forzata. In effetti, a parte qualche editoriale pavlovianamente indignato, nessuno è sceso in piazza a chiedere più tasse per salvare l’ambiente, né Greenpeace ha imbrattato di sangue di foca il Congresso americano. Nei sondaggi il cambiamento climatico non è più visto come un’emergenza dalla gente. Come è successo? L’editoriale del Wall Street Journal inquadra alla perfezione il punto: “Un buon indicatore del perché il problema del cambiamento climatico non è più percepito come tale si trova all’inizio del testo dell’accordo di Parigi. Il patto ‘non vincolante’ dichiara che l’azione per il clima deve includere preoccupazione per ‘l’uguaglianza di genere, l’empowerment delle donne e l’equità intergenerazionale’, nonché l’importanza del concetto di giustizia climatica”. Non solo, prosegue l’articolo del quotidiano conservatore americano: durante un recente incontro dell’American Geophysical Union, è stato detto che “il cambiamento climatico non può essere pienamente affrontato senza lottare contro la misoginia e l’ingiustizia sociale che hanno perpetuato il problema per decenni”. Politicizzato soprattutto dalla sinistra, il cambiamento climatico negli ultimi anni è stato così immerso nell’abisso delle politiche sull’identità sociale: ma questo non è che l’ultimo sussulto di una causa che ha perso da tempo la sua vitalità.

 

Già nel 1972, ricordava ancora il Wall Street Journal, Anthony Downs aveva teorizzato la parabola dei movimenti politici, i quali a un certo punto muoiono perché i sostenitori più convinti non sono disposti a scendere a compromessi per trovare una soluzione (l’esempio più noto è quello dell’energia nucleare: ridurrebbe di molto le emissioni di gas serra, ma è osteggiata dagli stessi ambientalisti che vogliono ridurre le emissioni di gas serra). Scienziati ed esperti sinceramente preoccupati per il destino del pianeta dovrebbero prendersela per come la sinistra ha politicizzato la questione e come la comunità politica internazionale ha ristretto la gamma di risposte accettabili. “Trattare il cambiamento climatico come un problema su scala planetaria che potrebbe essere risolto solo da uno schema normativo internazionale – concludeva il Wall Street Journal – ha trasformato il tema in un credo politico per i credenti impegnati”. Alla lunga, e in mancanza di risposte sul breve periodo, la gente si è stufata. Quando la politica (di sinistra) prende in mano una battaglia e la fa diventare una questione di diritti inalienabili, possiamo scommetterci: presto quella battaglia annoierà tutti.

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  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.