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Dimenticate il modello Greta. La protesta “green” non offre soluzioni praticabili

Alberto Brambilla

Perché senza sviluppo non si governa nemmeno l’inquinamento. Il caso italiano e l’ambientalismo sconfitto dall’ideologia della decrescita. Un’inchiesta

A Greta Thunberg, la bambina prodigio e la nuova faccia del movimento giovanile per combattere i cambiamenti climatici, hanno raccontato una favola millenarista sulla fine imminente del pianeta per colpa dell’essere umano. Greta, nata quindici anni fa a Stoccolma, ha imparato la favola e la racconta da un un po’ ai rappresentanti dei governi alle Nazioni Unite e ai big della finanza e della tecnologica al World economic forum di Davos accusandoli di averci “messo in questo casino”. Greta dice alle élite che “noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no”, che “siete rimasti senza scuse e noi siamo rimasti senza più tempo”. Per questo invoca “giustizia climatica” per il popolo. Lo scorso agosto Greta ha pedalato sulla sua bicicletta fino al Parlamento svedese, tre settimane prima delle elezioni, sedendosi sui ciottoli del marciapiede con un cartello dipinto a mano “sciopero per il clima”. Lo scorso venerdì migliaia di studenti, in oltre settanta paesi, hanno imitato l’iniziativa, hanno saltato le lezioni, e hanno letto fuori dalle scuole la preghiera climatica della bambina che vuole salvare il mondo. La genesi dello “school strike” è in un post su Twitter dell’account “We don’t have time” – non abbiamo più tempo (sottinteso: per salvare il pianeta) –, una start-up fondata e guidata dal comunicatore Ingmar Rentzhog che ha come logo un orologio a pochi istanti dallo scoccare della mezzanotte, l’ora “x” della fine dei giorni. Il tweet del 20 agosto con la bambina sola davanti al palazzo del potere ha tra i “tag” il movimento giovanile per la giustizia climatica “Zero Hour” (l’ora zero), la sua fondatrice adolescente Jamie Margolin, e il Climate Reality Project del pioniere della rivolta contro il climate change Al Gore. Rentzhog, fondatore di una società di comunicazione svedese per servizi finanziari, la Laika, è membro dell’organizzazione dell’ex vicepresidente democratico Al Gore e da lui è stato istruito a Denver nel 2017 e a Berlino l’anno scorso. Al Gore è partner della “We don’t have time” di Rentzhog. A simpatizzare per la campagna di Greta c’è insomma la stessa compagnia che nell’ultimo decennio ha raccontato al mondo “La scomoda verità” (è il titolo del docu-film di Gore del 2006) del riscaldamento globale contro i politici e gli accademici che ridimensionavano o negavano la minaccia, i “deniers”. Con Greta il messaggio diventa più minaccioso: dice che il tempo è scaduto. Si era prefigurato, lo scorso 1° agosto, l’Earth overshoot day, il punto di non ritorno, per cui senza basi scientifiche veniva prevista la “fine delle risorse nutritive” planetarie. L’umanità ha superato con successo quella previsione (siamo ancora vivi). Ora i nemici di Al & Greta non sono più i negazionisti ma quelli che ritardano la soluzione del problema, i “delayers”. La sfida per gli amici di Greta è cambiare modello di sviluppo entro il 2030 – in soli dieci anni – eliminando i combustibili fossili dalla generazione di energia: “Dobbiamo lasciarli sotto terra e dobbiamo focalizzarci sull’uguaglianza”, prega la bambina.

   


Nella favola millenarista raccontata a Greta Thunberg la propaganda mendace dell’estremismo ambientalista


 

In questa frase c’è il succo della propaganda mendace dell’estremismo ambientalista, rimasta pressoché immutata negli ultimi decenni. La prima falsità è che si possa evitare di usare combustibili fossili, “lasciarli sotto terra”. Secondo le previsioni del World energy outlook 2018 di Bp, colosso energetico inglese, col quale altre analisi sono allineate, nel 2040 la produzione di energia mondiale arriverà ancora al 74 per cento dai fossili – dal petrolio (27 per cento), dal gas naturale (26) e dal carbone (21). La seconda falsità, implicita, nonché vecchia bufala, è che il petrolio non serve più: la domanda petrolifera mondiale ha superato i 100 milioni di barili/giorno, un record storico. L’idroelettrico rimarrà invece stabile al 7 per cento nei prossimi trent’anni. Anche il nucleare rimarrà stagnante (dal 4 al 5 per cento) proprio per la volontà politica di depotenziarlo benché sia un perfetto sostituto della generazione di energia elettrica da carbone. La terza menzogna è che non ci sia sensibile sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili: sempre secondo Bp al 2040 passeranno dal 4 al 14 per cento – un aumento del dieci per cento – del portafoglio energetico mondiale perché incentivate dagli stati benché incapaci di sostenere da sole le attività umane esistenti, in quanto vento e solare sono intermittenti e quindi inaffidabili. Se per ipotesi la produzione di energia dovesse essere rimpiazzata immediatamente da eolico e solare ci troveremmo senza corrente elettrica, e la catastrofe sarebbe davvero immediata. Le rinnovabili hanno una importanza crescente e ormai sono arrivate ad avere costi competitivi, il problema sono gli accumulatori per conservare l’energia prodotta che altrimenti viene dispersa: la soluzione sta in più investimenti in tecnologia per riuscirci (non certo nella fuga dalla tecnologia) e così avere un congruo ritorno in termini di produzione energetica in paragone all’impiego di risorse naturali necessarie a costruire gli impianti eolici e solari. Agli attivisti ambientali piacciono le rinnovabili perché non emettono anidride carbonica, ma dimenticano dei minerali e del petrolio necessari per realizzare una pala eolica che – a parità di energia prodotta – consuma acciaio e ferro in quantità quindici volte superiori alle centrali a carbone e cento volte rispetto ai metanodotti. 

     


La prima falsità è che si possa evitare di usare combustibili fossili, “lasciarli sotto terra”. Il petrolio serve ancora


     

La mistificazione più grave è probabilmente il richiamo al concetto di “uguaglianza”. Se dovessimo proporre ora il modello “tutto rinnovabili” ai paesi più poveri e assolati della terra probabilmente ci risponderebbero come il keniota James Shiwati dell’Inter Region Economic Network nel documentario “The Great Global Warming Swindle” (“La grande truffa del cambiamento climatico”, 2007). “I paesi ricchi possono anche permettersi di avventurarsi in sperimentazioni di lusso con altre forme di energia, ma noi non siamo ancora a questi livelli di sopravvivenza”. “Non capisco – continua il keniota – come un pannello solare potrebbe alimentare una fabbrica di acciaio o una linea ferroviaria. Potrebbe alimentare, al limite, una piccola radio a transistor”. Ovvero sarebbe una condanna al sottosviluppo per i paesi in via di sviluppo. Applicata ai paesi occidentali sarebbe invece una regressione economica assicurata e auto-inflitta.

   

La protesta “green” si nutre di catastrofismo (“siamo in emergenza”) ma non offre soluzioni praticabili (“fate qualcosa”). Lancia allarmi e richieste disperate di intervento ai governi che, a loro volta, assecondano il richiamo. Secondo Umberto Minopoli, manager, saggista e presidente della Associazione nucleare italiana, il rischio è proprio che i leader politici si lascino incantare dalle sirene ambientaliste senza portare risultati. “Che i governi si nascondano dietro ai bambini per denunciare lo stato del mondo è paradossale e ipocrita – dice Minopoli – E’ paradossale perché sono trent’anni che si fa questa denuncia e se davvero siamo in uno stallo come dice il paradigma degli ambientalisti da fine del mondo, con le emissioni carbonifere che non diminuiscono e l’allarmismo che cresce, è perché si è sempre detto che ‘si dovrebbe fare qualcosa’ anziché intraprendere azioni concrete. E’ ipocrita che i governi si accodino alla protesta – dice Minopoli – non solo perché era loro responsabilità agire ma soprattutto perché dicono alla popolazione di cambiare le abitudini di consumo, imponendo un cambiamento drastico e insostenibile. Sono i nostri comportamenti l’oggetto della rivolta. Dovremmo proporre un’evoluzione energetica graduale che non si identifica con un modello penalizzante dei modi di vita della persone”.

 


 Se dovessimo proporre ora il modello “tutto rinnovabili” ai paesi più poveri, li condanneremmo al sottosviluppo


   

Il popolo però non è incline a modificare i suoi comportamenti. L’inverno scorso il movimento dei “gilet gialli” in Francia è nato dai pendolari delle periferie in protesta contro il rincaro del carburante usato per finanziare iniziative di mobilità sostenibile e incontrare gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima. I “gilet” hanno costretto il presidente francese Emmanuel Macron a rinunciare al provvedimento eco-friendly quando la protesta è arrivata a chiedere le sue dimissioni. Non sembra ci sia consapevolezza da parte dei politici della ritrosia della classe media a vedersi sottrarre porzioni di reddito per destinarle a rivoluzionare le proprie abitudini di consumo energetico come imposte dai governi. Tuttavia la tematica ambientalista che dagli anni Settanta è appannaggio della sinistra post comunista è diventata pensiero egemone. Ha affascinato non solo i liberali come Macron ma, ultimamente, anche la destra repubblicana americana e quella conservatrice inglese. Negli Stati Uniti il repubblicano Carlos Curbelo della Florida ha proposto di introdurre una tassa sulle emissioni di anidride carbonica, in controtendenza palese rispetto alla ostilità decennale del suo partito e del presidente Donald Trump verso qualsiasi misura volta ad affrontare il cambiamento climatico soprattutto se riduce la competitività delle imprese. Nel Regno Unito il Partito conservatore, attraverso il cancelliere dello Scacchiere Phillip Hammond, ha appena accolto la proposta del gruppo di pressione Committee on Climate Change di non installare più fornelli a gas nelle nuove abitazioni a cominciare dal 2025 dopo anni di proteste ambientaliste contro l’estrazione in Galles di gas naturale dalle rocce profonde, il “fracking”. In Europa l’attivismo di Greta ha ricevuto plausi per esempio dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Per le elezioni europee di maggio i segnali di una “onda verde” sono però flebili. Nessun partito verde è rimasto stabilmente sopra al 20 per cento nei sondaggi. C’è però, anche qui, la cannibalizzazione del tema. In Germania, dove i Grünen hanno intercettato i voti della Spd alla elezioni in Baviera di ottobre, l’estrema destra da tempo cavalca l’estremismo ambientalista opponendosi alla costruzione di infrastrutture e impianti energetici. Per le europee sta emergendo l’ambizione anche delle sinistre a vestirsi di verde nella speranza di risollevarsi da consensi ai minimi.

     

Mark Blyth, professore di politica alla Brown University, dice che “la sinistra mainstream è morta o in declino terminale” nel continente. Blyth considera l’Italia “un esempio calzante” perché “l’economia non è cresciuta in vent’anni, i salari sono rimasti stagnanti a lungo, e la sinistra mainstream è considerata responsabile di politiche di privatizzazione e deregolamentazione dalle quali gli italiani si sentono danneggiati. Il disincanto ha radici reali”, dice. “C’è anche uno spostamento generazionale a causa della crisi dell’Eurozona. I loro consensi elettorali a lungo termine non si riprenderanno mai a meno che non saltino sulle giovani generazioni che attraggono i verdi”.

 


    La tematica ambientalista, che dagli anni Settanta è appannaggio della sinistra post comunista, è diventata pensiero egemone


    

Il segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, sembra volere catturare l’elettorato giovane amico di Greta al punto che non appena eletto alle primarie ha promosso un “New deal verde” – piattaforma coniata dall’astro nascente della nuova sinistra americana anti Trump Alexandria Ocasio-Cortez – per lo “sviluppo sostenibile” in una “società più giusta”. Obiettivo: incentivare la mobilità elettrica, l’auto produzione di energia da rinnovabili e un piano di manutenzione del territorio. Un’offerta non distante da quella del Movimento 5 stelle delle origini di cui il Pd di Zingaretti vorrebbe raccogliere gli elettori oramai delusi da quasi dieci mesi di governo. Che sia una scommessa vincente è da vedere. La quota di popolazione italiana che considerava importanti le questioni ambientali era dell’11,5 per cento nel 1989 e dopo la crisi del 2008 è scesa al 2,4 per cento. La tattica del M5s è stata catastrofica, replicarla avrebbe probabilmente lo stesso esito. La propaganda ambientalista del Movimento – la cui quinta stella simboleggia proprio l’ambiente – si è tradotta in una utopia decrescitista che ha catturato quella preoccupazione per l’ambiente incarnata dagli oppositori a industria, infrastrutture e a ogni genere di sviluppo tecnologico per assecondare i comitati No Tav, No Tap, No Ilva, No inceneritori e altri. Una volta al governo – con il controllo del ministero dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e Trasporti, e dell’Ambiente – il M5s ha deluso le aspettative nell’impossibilità di fermare le opere o di arrestare le industrie come promesso. L’esempio più chiaro è a Taranto, con il ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, che in agosto ha consegnato l’acciaieria Ilva al colosso europeo Arcelor Mittal consentendo un aumento della produzione, e quindi delle emissioni, senza imporre correttivi immediati all’inquinamento. A Taranto il M5s aveva ottenuto circa il 50 per cento dei consensi alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 con la promessa di chiudere l’Ilva anche se in realtà non ci sono mai state, negli anni, azioni concrete da parte di parlamentari ed esponenti locali per farlo davvero. Un anno dopo, in città, di Cinque stelle non ne vogliono sentire parlare. “Hanno fatto come gli altri, anzi peggio. Ci sentiamo traditi, penso che voterò Lega la prossima volta”, dice Stefano, abitante del quartiere Tamburi, in prossimità del siderurgico, quando a marzo un aumento delle emissioni inquinanti rilevate dalle centraline interne allo stabilimento nei primi due mesi del 2019 stava motivando proteste delle associazioni cittadine, come accaduto in passato. “Avere assecondato questi approcci, nel momento in cui sono diventati forza di governo, non può reggere a un confronto con la realtà che è difficile gestire con la scelta del No”, dice Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente, che ha gestito la crisi di Ilva dopo il sequestro della magistratura nel 2012 seguito dal commissariamento e poi dalla cessione degli impianti. “Non hanno voluto governare la situazione. Magari cercando la possibilità di usare nuove tecnologie avrebbero potuto dare una svolta. L’approccio negativo non risolve il problema. Se rimani ostaggio dell’ideologia, di questa forma della rappresentanza politica che si identifica con indicazioni negative, alla fine subisci le situazioni invece di governarle”, dice Clini.

   

L’azione di governo è stata ancora più caotica e, in linea di principio, controproducente rispetto a obiettivi di lungo termine per contenere l’impatto ambientale delle attività antropiche. Nessun partito ambientalista rifiuterebbe di spostare il traffico delle merci dal trasporto su gomma a quello su rotaia, quindi riducendo le emissioni, come vuole fare il M5s bloccando la costruzione del tunnel di base del Moncenisio, la Tav, con la motivazione che la riduzione degli incassi delle accise da carburante sarebbe troppo onerosa per lo stato. Il trasporto merci su strada emette 139 grammi di anidride carbonica per tonnellata chilometro, vale a dire quasi dieci volte di più del trasporto merci su ferro. Così come è difficile definire ecologista la scelta del M5s di imporre una tassa per penalizzare le automobili a benzina o diesel più diffuse per incentivare quelle ibride ed elettriche più costose. Per quelle elettriche non c’è una infrastruttura capillare in grado di alimentarle né un produttore nazionale per costruirle. Il risultato è di finanziare l’acquisto di automobili più costose prodotte all’estero per chi se le può permettere penalizzando quelle che lo sono meno, disincentivando la dismissione di un parco auto nazionale vecchio e quindi più inquinante. Il M5s ha poi scelto come ministro dell’Ambiente Sergio Costa, un generale della Guardia forestale, unitasi all’Arma dei Carabinieri, diventato celebre per avere cavalcato l’“emergenza” della Terra dei Fuochi setacciando campi agricoli in cerca di fusti tossici e radioattivi. Non sono mai stati trovati. Anzi, negli anni, “l’inferno atomico” campano, raccontato ai media, si è in realtà ridotto a una porzione di pochi ettari con criticità potenziali. Una visione poliziesca dell’ambiente quella di Costa che però non lo aiuta a tenere in riga le truppe. Il gruppo parlamentare del M5s ha complicato una norma per semplificare il riciclo dei rifiuti proposta dallo stesso ministro Costa, al punto che quel testo – se non fosse stato stralciato all’ultimo – avrebbero bloccato anche gli impianti attivi. Così, oltre a non volere costruire inceneritori, il M5s nemmeno intende sviluppare il riciclo dei rifiuti in un momento critico di saturazione degli impianti, con costi di smaltimento in crescita esponenziale per le imprese, in quanto dall’anno scorso la Cina ha bloccato l’importazione di carta, plastica e altri scarti dall’Europa. Non a caso i roghi, i fuochi nelle discariche, sono in rapido aumento in Italia: senza uno sbocco industriale la filiera dei rifiuti diventa oggetto di attività illecite. “Il M5s fino a che non è andato al governo ha cavalcato tutte le proteste territoriali e ha fatto il pieno di voti in quel mondo. L’ambientalismo del No è ben rappresentato in Parlamento a prescindere dalle decisioni del governo. Noi non ci riconosciamo, non siamo mai stati questo”, dice Stefano Ciafani, ingegnere ambientale, presidente nazionale di Legambiente. “Avevamo grandi aspettative perché la presenza ambientalista è più nutrita del governo precedente, che aveva fatto molto. Speravamo facesse di più ma invece non ha fatto nulla sul tema ambientale”. Probabilmente è un motivo valido per strappare la stella “green” dallo stemma pentastellato.

   


    Dalla mancata metanizzazione della Sardegna alla dipendenza della Puglia dalla generazione a carbone fino alla dipendenza nazionale dall’importazione dell’energia dall’estero per il 90 per cento. Nel paese è chiara solo la vocazione a bloccare tutto senza ormai avere più nemmeno un bersaglio


   

Gli effetti distorsivi della parlamentarizzazione dei contrasti su ambiente ed energia si sono avverati con il M5s e il risultato è l’apoteosi di un “ambientalismo di maniera”, una specialità italiana, ovvero incapace risolvere problemi sostanziali. Dalla mancata metanizzazione della Sardegna alla dipendenza della Puglia dalla generazione a carbone fino alla dipendenza nazionale dall’importazione dell’energia dall’estero per il 90 per cento. Nel paese è chiara solo la vocazione a bloccare tutto senza oramai avere più nemmeno un bersaglio. Basti pensare che su 359 progetti bloccati censiti dall’Osservatorio Nimby Forum il 57 per cento sono energetici e di questi il 75 per cento sono riferibili alle fonti rinnovabili, in particolare gli impianti di produzione di energia e carburanti da biomasse (scarti di materiale vegetale o animale).

   

“La politica ne è massimamente responsabile – scriveva l’economista Alberto Clò – perché cavalca ogni sorta di protesta lungo ‘geometrie variabili’ a seconda sia al governo o all’opposizione. Il risultato di questa schizofrenia è la paralisi decisionale, politicamente bipartisan, impermeabile ai problemi del paese. L’interrogativo viene allora: come costruire e raccogliere un imprescindibile consenso a quel che si dovrebbe fare?”.

    



         

Sul piano politico l’energia e l’ambiente dovrebbero esseri liberati dalle contese partitiche e non essere più considerati prerogative di una o di un’altra parte a seconda delle fonti energetiche. Si è avuta una prima divaricazione lacerante sulla questione negli anni Settanta con le discussioni precedenti il referendum sull’energia atomica – poi abbandonata nel 1987, a vantaggio della vicina Francia nonostante la Ansaldo fosse un’avanguardia. A proposito Gianfranco Borghini ricorda di quando era responsabile industria del Partito comunista italiano: “Questa invasione dell’ideologia nel campo energetico arriva lì, con una sbandata, per cui si diceva che il solare è di sinistra perché è diffuso sul territorio e quindi è democratico per definizione – un’idea di Giovanni Berlinguer, fratello di Enrico – e il nucleare invece è di destra perché – tesi di Stefano Rodotà – si sosteneva che il nucleare era una tecnologia complessa e a rischio, quindi solo una società autoritaria avrebbe potuto gestirla. La storia ha dimostrato esattamente il contrario: l’Unione sovietica ha avuto Chernobyl, mentre una società aperta come quella americana controllava eccome perché c’erano autorità a guardia dell’azione politica insieme all’opinione pubblica. Si aderì però all’idea di abbandonare il nucleare”. Borghini ora fa parte della Fondazione Ottimisti e Razionali che si propone di promuovere un dibattito sui temi energetici e ambientali con approccio scientifico e sviluppista. La Fondazione giovedì scorso ha presentato una iniziativa per liberare dalle divisioni partigiane la discussione sulla transizione energetica coalizzando un gruppo di parlamentari di diversi partiti – Salvatore Margiotta (Pd) e Luca Squeri (FI). Gianluca Benamati (Pd), Chiara Braga (Pd), Luca Carabetta (M5s), Giorgio Mulé (FI), e i senatori Paolo Arrigoni (Lega), Pasquale Pepe (Lega), Adolfo Urso (FdI) – e iniziare a rimediare così a una divisiva sindrome nazionale. Sul piano ideologico la sindrome è allo stesso modo figlia degli anni Settanta, quando è avvenuto il distacco tra l’energia e l’economia: con idealismo si iniziò a pensare che l’ambiente fosse una variabile indipendente dallo sviluppo e anzi proprio lo sviluppo capitalistico, che accompagnava la crescita del benessere e della popolazione, dovesse essere rallentato insieme all’aumento demografico occidentale. Con la prima relazione del Club di Roma si affermò la teoria dei “limiti dello sviluppo” che l’ambientalismo assimilerà fino a identificare l’uomo come un parassita del mondo. Con i limiti dello sviluppo, per la prima volta, si lanciò l’allarme parlando di “crescita zero”. Riproporre una ideologia ambientalista basata sulla crescita zero cinquant’anni dopo vuol dire affermare una ideologia pre-moderna. Un’ideologia che vuoi per arretratezza dello sviluppo di una cultura scientifica, vuoi per una cultura umanistica impermeabile a quella scientifica nel M5s si è sedimentata diventando ignoranza delle questioni in gioco. Come se ne esce? E’ possibile recuperare una dimensione ecologica in cui uomo natura e tecnoscienza sono complementari e non antagonisti? Invece di imporre “limiti dello sviluppo” si può iniziare a “sviluppare i limiti” attraverso l’applicazione delle scoperte scientifiche nella trasformazione della natura e delle condizioni umane?

    

L’opposizione governativa senza precedenti a progetti energetici sta motivando una reazione altrettanto inedita che può costituire una parte della soluzione al problema culturale, prima, ed economico, poi. In ossequio ai No Triv, il M5s aveva promosso un provvedimento capace di bloccare le esplorazioni e le perforazioni di idrocarburi su terra e su mare motivando, per la prima volta, la protesta unanime e corale di lavoratori e imprese del settore Oil & Gas scesi insieme per la prima volta in piazza a Roma nel febbraio scorso con i “caschi gialli”, usati per la sicurezza degli operai, invece dei “gilet”. “E’ la prima volta che vengo in piazza con un gruppo così grande. Oggi stiamo accanto alla nostra gente, ai nostri lavoratori, perché questa è la loro battaglia. Siamo fianco a fianco per cercare di fare business in Italia”, aveva detto Sioux Sinnott, presidente di AleAnna del gruppo americano AleAnna Resources che da anni ha progetti in Italia così messi in pericolo.

       


L’Adriatico è un distretto soprattutto gasiero e il gas è un carburante con una combustione estremamente pulita, genera carbonio e idrogeno puri, e viene usato come materia prima per la produzione di carburanti


   

La preoccupazione riguarda il rischio di perdere migliaia di posti di lavoro e di rinunciare a investimenti miliardari per la produzione di energia da gas e petrolio proveniente da bacini locali e relegarsi alla dipendenza perpetua dall’estero. In particolare è interessato il distretto di Ravenna, dove Enrico Mattei cominciò la metanizzazione dell’Italia con l’Eni, nel quale il settore sostiene oltre cinquemila famiglie e dove lavorano anche produttori di macchinari per il settore petrolifero venduti all’estero. “Abbiamo un segnale inequivocabile – dice Gianni Bessi, consigliere regionale in Emilia-Romagna del Pd, tra i promotori dell’iniziativa – Il nuovo protagonismo dei corpi intermedi su investimenti e crescita”. L’Adriatico è un distretto soprattutto gasiero e il gas è un carburante con una combustione estremamente pulita, genera carbonio e idrogeno puri, e viene usato come materia prima per la produzione di carburanti. “Tenerlo sotto terra” non solo sarebbe improduttivo ma significherebbe rinunciare a una transizione energetica controllata e non traumatica per un futuro, non vicino, in cui le rinnovabili avranno un uso più massiccio. “Un mondo con risorse limitate ci obbliga a modificare il modo di produrre e consumare ma senza le risorse economiche necessarie nessuna transizione sarà possibile, nessuna economia circolare sarà attuabile, nessuna tecnologia sostenibile avrà costi economicamente compatibili”, dice Paolo Pirani, segretario della Unione italiana lavoratori del tessile, energia e chimica (Uiltec). Per questo ancora sabato scorso, dopo lo “school strike”, sindacati e imprese hanno manifestato a Ravenna. Dal lato delle imprese si nota un analogo risveglio. Essere scesi in piazza con i lavoratori è già un evento per un settore come quello dell’Oil & Gas che negli anni è stato remissivo nel mostrarsi e nello spiegare alle persone come contribuisce alla crescita economica e crea posti di lavoro. Il risultato della timidezza è stato lasciare correre false notizie e una cultura del pregiudizio, producendo in sostanza un danno all’industria stessa. E’ però ancora lontano il momento in cui vedremo un petroliere difendere in televisione il suo lavoro e quello dei suoi operai perché ancora oggi prevale la volontà di occultare la propria produzione di punta (Chevron ed Exxon avevano evitato di fare comparire la parola petrolio sul loro sito). I manager trascorrono la maggiore parte del tempo sulla difensiva proponendo rapide “svolte verdi”. La riduzione dell’impatto ambientale per i colossi petroliferi nel lungo termine è in realtà una scelta obbligata da investitori istituzionali, come i grandi fondi pensione, che basano le loro scelte di allocazione del capitale anche su criteri di sostenibilità stringenti.

    

Se c’è un motivo per cui negli Stati Uniti le emissioni inquinanti prodotte dagli idrocarburi sono diminuite nel corso degli ultimi quarant’anni, e continuano a scendere, è che sono state impiegate le innovazioni intervenute nel frattempo oltre a investimenti in trasporti, industria ed energia. Allo stesso modo in India e in Cina. E per questo respiriamo e respireremo un’aria migliore di quella dei nostri simili un secolo fa. Alla giovane Greta hanno raccontato che “non c’è più tempo”, ma il tempo bisogna prenderselo per programmare sviluppo, investimenti e applicare soluzioni tecnologiche contemporanee e future. La favola che forse non hanno raccontato a Greta è quella del “pifferaio di Hamelin”. Come l’accalappiatore di ratti i pifferai delle catastrofe climatica hanno promesso di liberare la città globale dalla peste dell’uomo, ma non hanno avuto abbastanza, non sono stati pagati a sufficienza, e così adesso hanno portato via i bambini.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.