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A caccia di Conte

Valerio Valentini

Altro che prescrizione. Lo scontro tra il premier e Renzi, ora, ha come obiettivo il futuro di Palazzo Chigi

Roma. A metà pomeriggio arriva il messaggio del capo a rasserenare gli animi della truppa. “Ora è il momento della politica, calma e gesso”, scrive Matteo Renzi ai suoi parlamentari. Col tono di chi evidentemente sa che il fermento, nei gruppi di Italia viva, è febbrile. E infatti un paio di senatori si scambiano tra loro un’occhiata di rassicurazione quando scoprono che gli impegni in agenda, per i giorni seguenti, sono confermati: “Vuol dire che non vuole davvero staccare la spina”. No, quello che vuole, Renzi, è lasciare che semmai se l’assuma Giuseppe Conte la responsabilità della crisi.

 

Perché in fondo è proprio il premier l’obiettivo finale della guerriglia: gli emissari dell’ex premier lo dicono chiaramente ai loro ex amici del Pd, nelle loro ambasciate. Lo confessano perfino ai ministri del M5s, non si sa se più per terrorizzarli o più per irretirli.

 

E loro, esasperati, si ripetono tra loro che “questo è peggio di Salvini”, proprio nel mente che Conte attacca, con inedita durezza, la “maleducata opposizione di Iv”. “E finalmente”, sospirano nel Pd, da cui attendevano da giorni una presa di posizione da parte di Conte. “Non possiamo essere solo noi quelli che rispondono a Renzi: chi chiede uno spazio politico poi deve usarlo”, sospira il dem Enrico Borghi. Perché in fondo è proprio quello, l’oggetto della discordia: lo spazio politico, il centro, che Renzi rivendica per sé. Se non fosse che a occuparlo, ora, è proprio il fu “avvocato del popolo”. E’ da qui che origina lo scontro. Uno scontro che, però, Conte vorrebbe condurre a bassa intensità, senza sporcarsi troppo le mani. Ma siccome il confine tra il garbo e la pavidità è sottile, in politica, nel Pd si spazientiscono: “Deve capire che la politica è sangue e m....”, dice un sottosegretario del Pd riferendosi al premier. Il quale, invece, troppo a lungo ha rinunciato a far ragionare Alfonso Bonafede, e poi arrivati al momento dello scontro finale, s’è risolto a sfidare Renzi nel modo più scomposta. “Modificare la legge sulla prescrizione attraverso il Milleproroghe sarebbe stato un pasticcio dal punto di vista tecnico”, ammette Franco Mirabelli, capogruppo del Pd in commissione giustizia al Seanto. Ed è per questo che lunedì sera, in un vertice concitato a Palazzo Chigi, la voce di Dario Franceschini è irrotta, via telefono, nella stanza dove Conte, insieme al Guardasigilli, Fraccaro e Patuanelli discuteva sulla linea da tenere: “Per noi del Pd così non è sostenibile”.

 

Solo che Renzi non aspettava altro. E quella che sembrava una concessione fatta per placare l’alleato riottoso, a lui è sembrata un cedimento. “Sanno anche loro, nel Pd, che abbiamo ragione”, ha spiegato ai suoi. E dunque per tre volte in due giorni Iv s’è ritrovata a votare con la Lega. Martedì, quando a confermare il sostegno del Carroccio al lodo Annibali è arrivato in commissione Affari costituzionali il capogruppo salviniano Riccardo Molinari, ai deputati del Pd è apparso chiaro il segnale: “I due Matteo stanno tramando insieme”. “Ma i suoi non lo seguirebbero, si ritroverebbe con metà delle truppe”, dice, pensando a Renzi, Bruno Tabacci, grand commis del contismo, il cui intervento è stato decisivo, lunedì sera, per evitare che la maggioranza andasse sotto in commissione nel voto di un lodo analogo a quello della Annibali, presentato dal radicale Riccardo Magi. E la stessa convinzione di Tabacci ce l’hanno anche i senatori del Pd: i quali l’hanno ben vista la estrema prudenza con cui il renziano Giuseppe Cucca ha fatto e rifatto i conti, prima di ordinare ai suoi, di nuovo, di votare insieme al centrodestra contro lo stop alla Bonafede: è finita 12 a 12, in commissione Giustizia al Senato, e l’incidente è stato evitato d’un soffio. “Al momento giusto, gli faremo vedere che lui non conta più niente, che non controlla neppure più i suoi parlamentari”, dice un ministro del M5s. E nell’elenco dei presunti renziani riluttanti, timorosi di un colpo di testa del leader, finiscono, oltre a Cucca, anche Leonardo Grimani, Eugenio Comincini e Gelsomina Vono.

 

Ma la scommessa del senatore di Scandicci, a ben vedere, non poggia sull’idea del ribaltone, né tanto meno sull’ipotesi di elezioni anticipate. Anzi, è proprio dalla certezza che – tra il referendum sul taglio dei parlamentari, i nuovi collegi elettorali da riscrivere e l’ansia generale di perdere lo scranno – a votare non si andrebbe, che deriva la sua convinzione che sì, si può osare. Con l’obiettivo di rimuovere Conte, in ogni caso, che resta l’ingombro principale. E in effetti anche Matteo Richetti, luogotenente di Carlo Calenda, ammette che “se si cambiasse assetto di governo, sarebbe più facile una convergenza tra Azione e Iv”. Motivo in più, agli occhi di Renzi, per accelerare, con l’obiettivo di varare una nuova maggioranza allargata, magari quel “governissimo” di cui da tempo vagheggia Giancarlo Giorgetti, magari “guidato da uno dei vostri”, come i renziani dicono ai deputati del Pd, quasi a volerli tentare. Tutte ipotesi che, stando a quanto riferiscono i confidenti di Sergio Mattarella, non rientrano nei piani del Quirinale. “La verità è che così è sfiancante”, sbuffa Alfredo Bazoli, capogruppo dem in commissione Giustizia alla Camera, buttandosi su un divanetto del Transatlantico al termine di una settimana di trattative sulla prescrizione che lo hanno estenuato. “Coi grillini che non abbandonano i loro eccessi, e Renzi che rilancia di continuo, non possiamo essere noi del Pd gli unici a sopportare il peso del governo”. Ma a Renzi questi sfoghi d’insofferenza del Pd devono giungere come lamentele irrilevanti. Ormai le manovre per rimuovere Conte sono troppo avanzate perché possa suonare la ritirata. Il “momento della politica” è anche questo: un azzardo da cui non si torna indietro.