Alfonso Bonafede (foto LaPresse)

Il silenzio degli incoscienti

Claudio Cerasa

Gli avvocati contro Davigo, i magistrati contro Bonafede, la politica che prova a cambiare la prescrizione (occhio alla mozione di sfiducia). Il dissenso c’è, ma dove sono finiti i mitici difensori della Costituzione? Appello contro gli altri pieni poteri

La formidabile protesta andata in scena sabato scorso al Palazzo di giustizia di Milano, con i 120 eroici avvocati della Camera penale che hanno manifestato il proprio dissenso contro il metodo Davigo uscendo dall’aula nel momento stesso in cui veniva data la parola al consigliere del Csm, è lì a segnalare una questione cruciale che c’entra ovviamente con il dibattito sulla prescrizione e che ha almeno due dimensioni diverse. La prima riguarda il livello dello scontro sulla legge Bonafede-Salvini, legge approvata un anno fa dal governo gialloverde che ha abolito la prescrizione dal 1° gennaio del 2020, e attorno alla lotta contro il metodo Davigo c’è un tema che ha a che fare non solo con il futuro dello stato di diritto ma anche con il futuro del governo. La seconda dimensione riguarda invece un punto diverso e il gesto di protesta messo in campo a Milano contro l’aggressione allo stato di diritto costituita dalla legge che abolisce la prescrizione è in fondo lì a segnalare un problema che potremmo così sintetizzare: il silenzio degli incoscienti.

  

  

La prima questione, che è una questione politica, può riguardare il futuro del governo perché in mancanza di una modifica alla legge Bonafede da parte della maggioranza, come chiede Renzi, l’ex segretario del Pd ha fatto sapere ieri pomeriggio ad alcuni interlocutori che non si fermerà lì e che se la prescrizione dovesse rimanere come è oggi il suo partito chiederà al Senato una mozione di sfiducia contro il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (sommando i senatori di Italia viva, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si arriva a 156 voti, maggioranza a 161). La seconda questione, che è una questione più culturale che politica, ha a che fare con il fronte schierato accanto a coloro che in queste settimane stanno combattendo per evitare di trasformare ogni imputato in un presunto colpevole a vita e il dato interessante degli ultimi giorni è che a scendere in campo contro il metodo della gogna non sono stati solo gli avvocati ma anche molti magistrati. Magistrati come Giovanni Mammone, primo presidente della Cassazione, convinto che la riforma della prescrizione “prolungherà la durata dei processi” e produrrà una “prevedibile crisi” per il “giudizio di legittimità”. Magistrati come Giovanni Melillo, procuratore capo di Napoli, che pochi giorni fa, nel corso di un convegno con le Camere penali di Napoli, ha criticato la riforma sulla prescrizione affermando che “l’amministrazione della giustizia è segnata quotidianamente da differenze a parità di condizione normativa e se a parità di condizione normativa le cose cambiano è del tutto evidente che non è la leva normativa quella che cambia qualcosa”. Magistrati come il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, che proprio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario ha detto che la sospensione del corso della prescrizione “non servirà sicuramente ad accelerare i tempi del processo, semmai li ritarderà senza limiti e presenta rischi di incostituzionalità” aggiungendo poi che rispetto alla norma introdotta “non si può sottacere che essa andrà a incidere sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo”.

  

 

La Costituzione, già. Nel novero di coloro che potrebbero essere iscritti al fronte degli incoscienti non vi sono soltanto i molti magistrati che potrebbero intervenire, e non lo fanno, a fianco degli avvocati contro il metodo Davigo e la spettacolarizzazione della giustizia penale ma vi sono anche tutti coloro che negli ultimi anni hanno mostrato una sensibilità a targhe alterne rispetto al tema della difesa della Costituzione. La gagliarda protesta dei mitici 120 dalla Camera penale di Milano non è avvenuta scommettendo solo sulla forma, ovvero l’uscita dall’aula del Palazzo di Giustizia, ma è avvenuta anche scommettendo sulla sostanza, ovvero sul modo in cui la riforma della prescrizione starebbe aggredendo alcuni princìpi non negoziabili della nostra Costituzione. E i tre articoli stampati a caratteri cubitali sui cartelli esposti di fronte a Davigo dagli avvocati sono lì a segnalare i giusti articoli da tenere in considerazione quando si parla di effetti dell’abolizione della prescrizione. C’è in ballo, per esempio, l’articolo 24, quello secondo il quale “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, e non c’è molto da discutere sul fatto che un processo che diventa eterno rende più facile la vita dell’accusa e più difficile quella della difesa. C’è in ballo l’articolo 27, quello secondo cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, e non c’è dubbio che in un sistema giudiziario all’interno del quale i tempi non contano più gli indagati e gli imputati avranno maggiori probabilità di essere considerati colpevoli fino a sentenza definitiva.

   

  

C’è in ballo poi l’articolo 111, quello secondo cui “la legge assicura la ragionevole durata dei processi”, e ci sono pochi dubbi sul fatto che una legge che trasforma ogni processo in un processo potenzialmente eterno è una legge che assicura la non ragionevole durata dei processi. E allora viene da chiedersi: dove sono finiti tutti i difensori della Costituzione? Dove sono finiti i cugini di campagna di Libertà e Giustizia? Dove sono finiti i compagni della Zagrebelsky associati? La nostra giustizia non perderà la sua verginità a causa della prescrizione, purtroppo, ma chi oggi ha scelto di restare lì a fischiettare di fronte alla trasformazione dell’Italia in una repubblica fondata più sulle procure che sul lavoro prima o poi dovrà ammettere che non lo sta facendo per esprimere equidistanza: lo sta facendo semplicemente per esprimere complicità. Forse è ora di svegliarsi.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.