Sergio Mattarella (foto LaPresse)

I conti di Mattarella

Valerio Valentini

Le truppe di Di Maio, la tentazione di Carfagna. E poi Conte che arretra. Equilibri per una legislatura duratura

Roma. Più che un gesto di cortesia, è stato un semplice rispetto della procedura. “E’ venuto Luigi a riferire in Aula perché l’interrogazione era rivolta al ministro degli Esteri”, dice infatti, asettico, il titolare dei Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, al termine dell’intervento che ha visto Di Maio spiegare le ragioni di Giuseppe Conte sul caso Retelit e sul presunto conflitto d’interessi denunciato da Fratelli d’Italia. E però, visto il clima attossicato delle ultime settimane, anche il breve colloquio che martedì, a margine del vertice sulla manovra a Palazzo Chigi, il premier e il capo grillino hanno avuto per condividere le informazioni sulla faccenda anglo-vaticana, è valso a ristabilire un po’ di pace tra i due. D’altronde, i segnali partiti dal Quirinale erano stati recepiti con la dovuta attenzione anche alla Farnesina, all’indomani del disastro umbro e della conseguente scomposta reazione di Di Maio, che aveva di nuovo fatto fibrillare i già precari equilibri di governo. E certo, l’avviso ai naviganti (“Se cade Conte, si vota”), è servito a suggerire la calma ai vari leader della maggioranza, compreso quel Matteo Renzi che è il più irrequieto di tutti, e che perfino da New York s’è sentito in dovere di ribadire la fiducia per il premier. E però, l’invito alla responsabilità che Sergio Mattarella ha voluto diramare è stato raccolto anche dallo stesso presidente del Consiglio, che dopo qualche mese di velleitario interventismo s’è convinto ora a tornare al suo ruolo di mediatore: magari un po’ impalpabile, ma comunque più sicuro. “E questo testimonia comunque l’intelligenza di Conte”, dice Cristian Romaniello, deputato grillino che, da psicologo, abbozza una analisi caratteriale del premier. 

 

“I leader sono tutti un po’ schiavi della loro megalomania: anche Hitler – spiega Romaniello – rinchiuso nel bunker, mentre il Terzo Reich crollava era convinto di vincere. Conte, invece, ha capito che deve forse tornare un po’ alla fase uno”. Quella, cioè, in cui rivendicava la sua indiscrezione, la sua capacità di “fare sintesi”, e rifuggiva l’agone politico. E’ a quel compito, ora, che deve tornare per evitare di mettere in crisi Di Maio, sempre più in affanno nella gestione dei gruppi parlamentari, sempre più in ansia di vedersi sottrarre lo scettro della leadership dallo stesso premier. “Tranquillo, Luigi: è un generale senza truppe”, riferivano al ministro degli Esteri quelli che gli tenevano il pallottoliere a Montecitorio e Palazzo Madama. Ma glielo dicevano, più che altro, per tranquillizzarlo. Perché in effetti i “contiani” ci sono, tra Camera e Senato, specie tra i grillini. “Solo che non si compra una cosa che non è sul mercato”, sorride Luciano Cadeddu, deputato sardo coinvolto da Giorgio Trizzino in questo ancora evanescente “gruppo dei competenti”. “Conte non ha fatto il passo decisivo e per ora è meglio così”, conclude Cadeddu. Quasi a indicare, insomma, una forma di disimpegno, di estremo ripensamento del premier rispetto all’intenzione di entrare nell’aringo parlamentare. “Ma il punto è anche un altro”, spiegava, giorni fa, il renziano Roberto Giachetti. “Il punto è che non sempre chi gode di buon gradimento da presidente del Consiglio ha poi la capacità di sporcarsi le mani con la politica. Basta ricordare la storia di Lamberto Dini”. Ed è un po’ la sensazione che deve avere avuto anche Bruno Tabacci: il quale per due volte, il mese scorso, ha incontrato Conte. Un po’ per confrontarsi con lui sull’amato Maritain (“Quel concetto di ‘nuovo umanesimo’ tanto citato dal premier mi è molto caro”), e un po’ forse anche per fiutare l’aria. “Non che gli manchino le ambizioni – dice Tabacci – ma rispetto a un mese fa ha fatto un passo indietro, e gli spazi per lui si sono ridotti”.

 

I “gruppi autonomi” della Carfagna

Il che dimostra come, in una fase d’incertezza generale, al possibile impegno di Conte hanno guardato in parecchi. “Anche tra noi”, spiegava alla buvette, giorni fa, il forzista Osvaldo Napoli, “almeno una ventina si muoverebbero, se Conte decidesse di fare il suo partito”. E forse è in questa stessa vertigine di disorientamento che alcuni tra gli esponenti di Forza Italia meno inclini allo sbraco sovranista stanno spingendo Mara Carfagna a pensare che l’ora delle decisioni irrevocabili è arrivata. E così ieri pomeriggio la voce di un’imminente costituzione di un gruppo autonomo ha improvvisamente preso a serpeggiare tra i corridoi di Montecitorio, e ha guadagnato forza quando la vicepresidente della Camera ha radunato una decina dei deputati a lei più vicini davanti alla buvette. Manovra che poi si sarebbe interrotta, malignano i forzisti della sponda salviniana, perché non si sarebbe raggiunta la soglia minima di venti componenti, nel mentre che cominciava a circolare anche una bozza di documento su cui raccogliere le firme degli interessati per denunciare il tradimento dei valori liberali sull’altare del nuovo accordo con la Lega (che si sostanzierebbe poi intorno alla promessa di quindici posti in lista, nulla più). Erano le stesse ore in cui anche al Senato si allestivano operazioni analoghe, facendo affidamento sui forzisti meridionali di vecchia scuola democristiana, e in particolare su Antonio Saccone, già portavoce di Lorenzo Cesa, che porterebbe in dote il simbolo dello scudo crociato sotto cui è stato eletto nel 2018, così da consentire la nascita di una nuova formazione.

 

Il sollievo del Pd

Chi invece si sente tranquillizzato, dal deposto movimentismo politico di Conte, è il Pd. “In questa fase, tutti i momenti di tensione vanno circoscritti e isolati, e chi ha maggiori responsabilità deve dare l’esempio per primo”, dice il dem Enrico Borghi. Al Nazareno hanno in verità tirato il freno a mano, pare su suggerimento dello stesso che aveva invece dettato l’accelerazione. E cioè quel Dario Franceschini che aveva prima tentato di attrarre il premier nella sua orbita, così da mettere il capo del M5s di fronte al fatto compiuto di un’alleanza ormai decisa, e poi ha iniziato a predicare cautela, a dire che “senza Di Maio questa operazione non si fa”. E del resto la tribolazione che sta accompagnando la scelta sulle regionali è la dimostrazione di come non basta la convinzione di Conte, a tracciare il solco del nuovo centrosinistra. E non a caso Di Maio, martedì sera, dopo avere ascoltato la fermezza degli eletti emiliani e calabresi, quasi tutti concordi nel bocciare l’ipotesi di un cartello elettorale col Pd, ha fatto pervenire ai democratici il messaggio: “Insieme è difficile”. Ma si è tenuta aperta una strada, specie in Calabria, e lasciando capire agli interessati che alla fine, comunque, il verdetto definitivo lo darà Rousseau.