Camera dei deputati (foto LaPresse)

Ecco perché ora il governo traballa alla Camera (più che al Senato)

Valerio Valentini

I dolori del ministro D’Incà alle prese con le risse nel M5s. Le vendette dei non riconfermati, le faide per il nuovo capogruppo

Roma. L’aritmetica porterebbe a pensare al contrario, visto che è al Senato che la maggioranza è più risicata. “Ma tenere insieme i pezzi non è solo questione di algebra”, sorrideva giorni fa, dissimulando la fatica che pure doveva costargli il nuovo incarico, il grillino Federico D’Incà. Al quale, dopo un anno e mezzo da questore di Montecitorio, non serviva certo diventare ministro per i Rapporti col Parlamento per conoscere la fragilità degli equilibri interni alle truppe di deputati del M5s. Solo che, da quando è nato il governo giallorosso, tutto s’è terribilmente complicato, nelle relazioni interne. E così è capitato perfino che al gran debutto, subito si sbracasse. E’ capitato, cioè, che la risoluzione di maggioranza sulla Nadef, il 10 ottobre scorso, sia passata con soli 318, appena tre in più di quelli necessari per garantirne l’approvazione. E se non fosse stato per i deputati del Misto e delle Autonomie, la baracca sarebbe già crollata, specie per colpa di quelle quattordici assenze non giustificate tra i banchi del M5s, tra le quali c’era un po’ di tutto: sciatteria, disattenzione dello staff (alcuni degli assenti erano in Tv, mentre si votava), e forse anche la ritorsione perversa di qualche ex sottosegretario non riconfermato (come Simone Valente o Claudio Cominardi). E deve essere stato un po’ per l’ansia di non perseverare nella leggerezza commessa, che martedì D’Incà ha mobilitato tutto il governo per votare delle semplici e tutto sommato inoffensive mozioni presentate a Montecitorio da FdI. E tra gli esponenti dell’esecutivo è circolata una certa perplessità, anche perché alcuni hanno dovuto disdire appuntamenti già presi e precipitarsi a Roma. Salvo poi scoprire che il margine era fin troppo ampio.

   

Ma al di là dei paradossi procedurali, il subbuglio vero sta nella faida, ormai quasi semestrale, che dilania il gruppo dei deputati sulla scelta del nuovo capogruppo. Al Senato – dove ieri s’è celebrata l’ennesima riunione “decisiva” alla presenza di Luigi Di Maio – hanno optato per un sano ballottaggio: e così, nel giro di quindici giorni, la baruffa s’è risolta in favore di Gianluca Perilli. Alla Camera, invece, “rischiamo di non uscirne vivi”, si sfoga un esausto Sergio Battelli, che da tesoriere uscente sta coordinando i lavori per l’elezione. I deputati hanno deciso che per eleggere il nuovo direttivo servirà la maggioranza assoluta degli eletti. All’inizio i candidati erano undici, poi si sono ridotti a tre. Quindi Anna Macina s’è ritirata, ed è diventata una sfida tra Francesco Silvestri e Raffaele Trano. Il quale una mediazione l’ha tentata: “Perché andare avanti a oltranza è ridicolo”, dice.

 

E così, in vista dell’ennesima conta programmata per mercoledì prossimo, ha proposto al rivale di mescolare le squadre: Silvestri capogruppo, Trano vice e Marco Rizzone tesoriere. “Ma una sintesi non è può essere solo uno scambio di posti”, s’oppone Silvestri. Che, da capogruppo facente funzione, garantisce “la piena operatività dell’esecutivo”. Battelli, in verità, scuote la testa: “E’ chiaro che manca un riferimento, sia per il nostro gruppo sia per gli alleati”. E deve pensarlo anche lo stesso D’Incà, che nelle ultime assemblee di gruppo s’è mostrato alquanto irritato: “Sta arrivando la legge di Bilancio, non possiamo continuare senza un organigramma definito”.

 

Lo pensano anche gli atri capigruppo di maggioranza, che guardano con crescente angoscia al montare dei dissidi tra gli alleati grillini, in una baruffa perpetua fatta più di ripicche e invidie personali, che non di dialettica politica. Senza contare, peraltro, che ad aumentare l’entropia dell’Aula, a Montecitorio contribuisce anche il disimpegno momentaneo di Ettore Rosato, riconosciuto metronomo dei lavori, che però, più che altro, in queste settimane gira l’Italia per inaugurare le succursali regionali di Italia viva. “Da quando non ci sei tu a dirigere il traffico, qui è il caos”, gli hanno detto dei colleghi leghisti. E lui, un po’ lusingato, s’è stretto nelle spalle: “Ho un futuro nella polizia municipale”.

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