Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Fuoco su Conte

Valerio Valentini

Oltre le tasse. Così la manovra diventa una sessione straordinaria di nuove consultazioni per il futuro del premier

Roma. Questione di appeal. “Quello che esercita Giuseppe Conte su di noi è senz’altro enorme”, dice Stefano Lucidi, senatore grillino. “E’ riconosciuto da tutti come una persona per bene, competente, seria. E’ attrattivo per tanti cittadini, non può non esserlo anche per noi parlamentari del M5s”. Questione di appeal, dunque, ma anche di tempi. “E’ a suo modo una tragedia comica”, diceva, quando era ancora un deputato semplice e non il presidente del Copasir, il leghista Raffaele Volpi. “La tragedia di un signore che credeva di essere diventato il leader del nuovo centro, e che però il centro se lo vede scippare all’improvviso da uno più sveglio di lui, cioè Renzi”. E il protagonista della storia era sempre lui, Conte. 

 

 

E si spiega anche così, il fuoco incrociato sotto cui rischia di cadere l’“avvocato del popolo”. E si spiega pure la fretta di chi vuole impallinarlo. Perché, quella che doveva essere una guerra di logoramento ai danni del premier, si sta trasformando invece in una sorta di spedizione punitiva. Di Maio sa che c’è una fascinazione che cresce ogni giorno tra i suoi parlamentari, per Conte. E questo lo si è visto nella faida interna per la scelta del capogruppo al Senato, quando solo 40, su 106, sono stati i voti certi su cui il candidato espresso dai vertici del partito, Gianluca Perilli, ha ottenuto nel corso delle prime consultazioni, prima che il ballottaggio con Danilo Toninelli ne decretasse comunque la vittoria (“Meglio di Danilo, chiunque”). E lo si vede anche nella guerriglia quotidiana che funesta il gruppo: le commissioni vogliono contare di più, i singoli eletti reclamano più visibilità sui media, e allora ecco che il sostegno a Conte è in parte anche posticcio, strumentale a mettere in difficoltà il capo politico. Ed è così che, a metà pomeriggio, i malumori di un manipolo di senatori deflagrano nel cortile di Palazzo Madama, dove il calabrese Giuseppe Auddino dice che sulla questione del contante è “assurdo preferire fare un regalo al Pd che sta al 20 per cento anziché farlo a chi, come Renzi o Leu, sta al 5”; e il calabrese Francesco Castiello rilancia: “Alla prossima riunione dobbiamo dire che con questi rendiconti e queste restituzioni sta diventando un delirio. Basta”. Quanto alla Camera, la sintesi dello stato d’animo dei deputati sta nel fosco presagio di un gruppo di deputati campani in Transatlantico: “Una scissione ora è verosimile”. E forse anche per questo lo stesso Di Maio ha chiesto ai suoi ufficiali di collegamento di riportargli l’umore della truppa. E uno dei suoi ministri lo ha confortato, dicendogli che “al dunque, nessuno avrà il coraggio di fare davvero un gruppo per Conte”. Un altro gliel’ha messa giù in tono più battagliero: “Se Giuseppe si mette a fare la sfida nel partito, per lui diventa un inferno”. Entrambi, poi, riservatamente convengono su un fatto: che “più che la eventuale forza di Conte, ad alimentare le divisioni interne è la certa debolezza di Di Maio”. Il quale spera di arrivare indenne alla definizione della nuova segreteria politica, prevista entro dicembre, confidando nel fatto che, attraverso la distribuzione di cariche e stellette, potrà sedare il malcontento interno.

 

E la fretta è anche il sentimento dominante nell’animo di Renzi. Il quale sa bene che, tanto più col cedimento del Cav. al sovranismo salviniano, dentro Forza Italia il subbuglio è grande: ma in quell’ala moderata che fa capo a Mara Carfagna parecchi parlamentari pronti all’ammutinamento sono proprio in dubbio tra il seguire l’ex premier in Italia viva e il consegnarsi a quello attuale, non appena decidesse di costruire una sua formazione. E Renzi sa già quale potrà essere la sua arma persuasiva migliore: “Al prossimo rimpasto, saremo noi a garantire loro un ingresso al governo”. Ma perché il rimpasto ci sia, Conte deve essere messo da parte.

 

 

Stesso motivo, d’altronde, per cui Dario Franceschini continua a voler tutelare Conte. L’investitura che il premier ha ricevuto da Grillo è stata decisiva: è lui che ora può guidare, sotto l’egida del comico, la convergenza tra Pd e M5s, e dunque è lui, nella logica aristotelica di Franceschini, che va protetto. Ed è anche per questo che nell’immaginario degli esponenti di governo del M5s il ministro della Cultura ha già soppiantato la figura minacciosa di Giancarlo Giorgetti (uno che Laura Castelli definiva, privatamente, “un criminale”), al punto che lo stesso premier s’è sentito in dovere di chiarire a Di Maio che no, l’intesa con Franceschini non è sui contenuti. “Sulle pene agli evasori non siamo allineati, ma siamo convinti entrambi che serva un metodo più ordinato”. Sempre che, intanto, il fuoco incrociato non ottenga il suo scopo. Lunedì, mentre Conte riceveva singolarmente le delegazioni dei singoli partiti della maggioranza per provare ad appianare le divergenze sulla manovra, nel corso di quella irrituale trafila di incontri a Palazzo Chigi prima del Cdm, i gruppi di Iv e del Pd si sono incrociati davanti allo studio del premier. “Sembrano le consultazioni di un premier incaricato, queste”, dicevano gli uni. “Chissà – dicevano gli altri – se scioglierà la riserva”. 

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