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Enrico Borghi (Pd) spiega perché oggi i dem “sono i pretoriani di Conte”

Valerio Valentini

“Con la nascita del governo Conte II abbiamo varcato il Rubicone, scegliendo un approccio ‘moroteo’ verso i Cinque stelle”, dice il deputato del Partito democratico

Roma. Scherzando chissà fino a che punto, Enrico Borghi ricorre al parallelismo storico: “Noi del Pd saremo i pretoriani di Giuseppe Conte”, dice il deputato. E lo fa alla vigilia dell’audizione del premier al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, di cui lui stesso fa parte. E ci tiene subito a precisare, con sabaudo rigore: “Fermi tutti. Nessuno pensi di utilizzare il Copasir per regolare i conti della politica. Domani – dice Borghi, riferendosi all’audizione di Conte di oggi a Palazzo San Macuto – ascolteremo con grande attenzione il presidente del Consiglio. Io credo ci siano le condizioni per certificare che questa vicenda del Russiagate, e delle visite romane del ministro della Giustizia americano, sia stata null’altro che una tempesta di mezza estate. E siamo fiduciosi che le dichiarazioni di Conte consentano di fare assoluta chiarezza in tal senso”.

 


Enrico Borghi (foto LaPresse)


 

E insomma si capisce subito che l’interesse del Pd a tutelare l’“avvocato del popolo” ha ben poco a che fare coi servizi segreti, e molto con la politica. “C’è senz’altro, da parte nostra, la volontà di sostenere un percorso di convergenza politica tra Pd e M5s accompagnando lo sforzo di chi, di questa operazione, deve essere il garante. Su Conte, non a caso, sono arrivate le investiture di Beppe Grillo, nonché quella di Nicola Zingaretti e perfino di Matteo Renzi, che in fondo è stato il più convinto sostenitore della riconferma di Conte a Palazzo Chigi. Quanto a noi riformisti del Pd – dice Borghi, esponente di quella corrente, Base riformista, che fa capo a Luca Lotti e Lorenzo Guerini – con la nascita del governo Conte II abbiamo varcato il Rubicone, scegliendo un approccio ‘moroteo’ verso i Cinque stelle. Ovvero, un governo politico per inserire un movimento antisistema nel sistema di regole atlantiche, europee, istituzionali. Ovvio che questo comporti una evoluzione al loro interno, e Conte è lo snodo di questo passaggio”.

 

Insomma, arruolare Conte per spaccare i grillini? “Non necessariamente spaccarli: il M5s può evolversi. Io non entro nel merito della dialettica di altri partiti, che rispetto. Credo però che, al di là delle tensioni tra Conte e Di Maio, o della sfida interna ai gruppi parlamentari per l’elezione dei nuovi capigruppo, la novità vera è che il M5s sta cercando di cambiare pelle, diventando un movimento che vuole cambiare il sistema senza sfasciarlo. E noi del Pd, sin dallo scorso agosto, abbiamo assunto una funzione maieutica, rispetto a questo processo, che per ora ha portato il M5s in mezzo al guado”. Ed è davvero credibile, pensare che Di Maio e soci completino la traversata, abbandonando definitivamente ciò che più li qualifica e li legittima, e cioè la retorica dell’anticasta? “Non ci resta che tentare”, se la cava Borghi. “Di certo, il Pd non può rimanere inerte, di fronte a questo cambiamento nel M5s, ma anzi deve esercitare quella che un tempo si chiamava egemonia culturale: deve insomma tentare di indicare la direzione”.

 

Ma qui – sul che fare? – cominciano i distinguo. “Tra di noi c’è chi, come Goffredo Bettini, propende per la teoria dell’amalgama. Insomma, Pd e M5s dovrebbe ricostruire, insieme, quel campo largo che fu del Pci, per poi aprire anche ai moderati renziani e di Forza Italia. Noi riformisti – dice Borghi, cresciuto alla scuola di Donat-Cattin – crediamo invece che si debba stare attenti alle ‘operazioni Stranamore’. Pd e M5s restino ciascuno nel suo contenitore, per poi trovare l’intesa al momento in cui serve”. Che, per Borghi, può essere “sia prima sia dopo le elezioni”. Nel senso che “prima di parlare di coalizioni o ballottaggi, pensiamo ai valori comuni. Serve un’antropologia condivisa, mi viene da dire, prima di pensare a una legge elettorale condivisa. Una volta che ci sarà un’intesa di fondo, poco cambia se si opterà per un proporzionale che induce a fare accordi in Parlamento all’indomani del voto, o per un maggioritario che spinge a cristallizzare la coalizioni in campagna elettorale. Dopodiché, per quel che vale, io credo che siano tante e tali le lacerazioni nel tessuto sociale del paese, che un proporzionale oggi sia il sistema migliore”. Un’abiura, per quel Pd che nacque con la vocazione maggioritaria? “Non credo. Le ragioni della politica inducono a cambiare i piani. Moro e Fanfani decisero di abbandonare la stagione del centrismo proprio dopo il fallimento della legge truffa, aprendo così al centrosinistra. Il 4 dicembre del 2016 per noi è accaduta la stessa cosa: è finita una fase politica, e se ne deve prendere atto. Magari anche capendo che un certo ottimismo di maniera, à la Blair o à la Clinton per capirci, sulla globalizzazione e quel che ne è seguito, è meglio accantonarlo. Lo dico ad esempio ai miei amici di Italia viva che si sono ritrovati alla Leopolda”.

 

Sta di fatto, però, che il Pd rischia per l’ennesima volta di pagare la scelta di essere l’unica forza responsabile, nel bel mezzo del marasma. “Il rischio c’è”, ammette Borghi. “Ma solo se interpretiamo il nostro essere responsabili come una forma di immobilismo. L’idea che mi sono fatto girando il territorio è che ci sia una crescente nausea per il reality show della politica. Vale anche, ad esempio, per il confronto tra Renzi e Salvini a ‘Porta a Porta’: fomenta le curve degli ultras, ma deprime il resto degli spettatori. Noi dobbiamo rivendicare la serietà, ma per fare le riforme. E a chi gioca continuamente al rilancio per ottenere visibilità, ricordo che alla sindrome del ‘più uno’ hanno già ceduto altri, prima di oggi: penso a Bertinotti, a Mastella, a Di Pietro. Non gli è andata bene. Né credo che possa giocare questa partita il partito di maggioranza relativa, perché finisce per legittimare chi fa la guerriglia. Al M5s ricordo che De Mita e Forlani non hanno mai inseguito Altissimo”.

 

E la responsabilità vale anche, appunto, per il Copasir. “Bisogna essere molto accorti quando si tratta di intelligence: ne va della sicurezza dei nostri apparati e quindi dei nostri cittadini, oltreché della credibilità del paese. Utilizzare il Copasir per fini di bassa bottega politica è pericoloso e sconveniente: vale oggi per la vicenda di Conte, e potrà valere domani per altre vicende che magari dovessero riguardare i nostri avversari politici”.

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