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Il M5s sperimenta l'orrore inquisitorio

Salvatore Merlo

Marcello De Vito è in carcere da 20 giorni e i pubblici ministeri non lo interrogano. Vecchio metodo

Dicono che ogni tanto l’avvocato bussi con timida discrezione alla porta del pubblico ministero, “dottore ma quando lo interrogate il mio assistito?”. E l’altro, il magistrato, con l’aria che hanno gli uomini da tempo rassegnati a monotoni e faticosi orizzonti di lavoro: “Eh, sapesse lei quanti fascicoli ci sono, impellenze, carte, verifiche. Ma stia tranquillo”. Intanto i giorni passano, le settimane sembrano secoli, il tribunale del riesame rigetta una prima istanza di scarcerazione. Le ore non si contano più quando si è rinchiusi dietro le sbarre, seduti accanto alla tazza alla turca, misurando macchinalmente con lo sguardo la cella: la canottiera e le ciabatte, l’odore di tabacco, di cibo scadente e di sudore. Marcello De Vito, il presidente del Consiglio comunale di Roma, il fondatore del M5s capitolino accusato di corruzione, è ancora lì, dopo quasi un mese, sempre lì, nel limbo che ottunde. E non lo interrogano. Vecchia, drammatica storia. I magistrati queste cose le sanno dai tempi di Mani pulite, come raccontò Antonio Di Pietro a Giorgio Bocca. Correva l’anno 1993 e il pm, allora impegnato in una crociata giudiziaria che sarebbe presto diventata politica, diceva al vecchio giornalista: “Abbiamo adottato il metodo del dentro-fuori, pochi arresti mirati ogni giorno. E ottenuta la confessione, subito libertà o arresti domiciliari”. La confessione richiede d’altra parte i suoi tempi, spiegava Di Pietro, allungati dalle incombenze. Intanto la lingua dell’inquisito si scioglie, l’indagato si ammorbidisce, arriva a percepire che le pareti della prigione sono tutt’uno coi limiti della sua anima, e che “le esigenze di custodia cautelare cessano quando ha reso una effettiva confessione”.

   

E allora se non si trattasse di una tragedia, di carne e sangue e lacrime e sofferenza, si potrebbe scorgere in tutta questa faccenda di De Vito una punta di satira discreta e persino una certa amara ironia. “Non lo vogliono interrogare. Lo tengono così. Sospeso”, pare dica al telefono con gli amici, piangendo, la moglie, Giovanna Tadonio, anche lei nel M5s, ex assessore municipale. Mentre la sorella, Francesca De Vito, consigliere regionale del Lazio, membro di questa famiglia il cui destino coincide col Movimento cinque stelle, mormora ai pochi giornalisti con i quali si confessa che “lo terranno dentro almeno fino a dopo le elezioni europee”. E si capisce che Marcello De Vito – e con lui tutto il mondo grillino romano, le sue reti di solidarietà e di affetti – sperimenta adesso sulla propria pelle, e con un misto di stupore e turbamento, l’inferno concentrazionario, il sistema inquisitorio di sempre, quello di cui era un tifoso con venature di fanatismo. Proprio De Vito che appena tre anni fa augurava il carcere a Ignazio Marino, l’ex sindaco adesso assolto in Cassazione, lui che portava le arance per gli inquisiti in Consiglio comunale, e poi si sollevava in piedi sguainando un cartello con scritto “onestà”, quindi urlava: “In galera”. Elemento militante di un fenomeno che ha invaso Roma, e poi l’Italia intera, proponendo slogan vendicativi e parole d’ordine forsennate, coltivando persino per legge, una volta arrivati al governo, l’idea di una giustizia poliziesca, una visione contorta del mondo e dei rapporti sociali e politici. “Non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti”, è la filosofia di Piercamillo Davigo, alla quale si ispira il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, autore della famosa Spazza Corrotti.

   

“L’obiettivo di questi magistrati… è di costringere ciascuno di noi a rompere con quello che loro chiamano il nostro ambiente. Ciascuno di noi deve adottare un atteggiamento di collaborazione che consiste in tradimenti e delazioni”, scrisse Gabriele Cagliari alla moglie, poco prima di suicidarsi il 3 luglio del 1993 a San Vittore, dopo centotrentatré giorni di carcerazione preventiva. Certo oggi ogni grandezza è scomparsa, anche nel dramma. Le misure sono in scala nanometrica. Al governo c’è Di Maio e in carcere c’è De Vito. Ma sempre e ancora, come allora, il carattere feroce degli italiani emerge con tratti tragici e anche grotteschi, perché tutti i moralizzatori furono, e ancora sono, uno dopo l’altro violentemente moralizzati. Mentre lo sradicamento della corruzione, ecco, quello rimane invece un vasto programma. Come l’abolizione della fame, della sete o della stupidità.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.