Danilo Toninelli (foto Imagoeconomica)

Così l'analisi sulla Tav smentisce dieci anni di ecologismo a cinque stelle

Valerio Valentini

Le conclusioni del dossier curato dal professor Marco Ponti portano ad affermare che è sconveniente, per la collettività, qualsiasi progetto infrastrutturale che punta a trasferire il traffico dalla gomma alla rotaia

Roma. “E’ paradossale, ma è proprio così”, conferma Francesco Ramella, uno dei cinque tecnici che hanno lavorato all’analisi costi-benefici voluta dal ministro Toninelli. E il paradosso sta qui: nel fatto, cioè, che le conclusioni del dossier sulla Tav curato dal professor Marco Ponti portano ad affermare che è sconveniente, per la collettività, qualsiasi progetto infrastrutturale che punta a trasferire il traffico dalla gomma alla rotaia. Assurdo in senso assoluto. Ma ancora di più se a sventolare questo documento sono gli esponenti di un partito che, da sempre, fa dell’ecologismo e della transizione alla green economy le sue bandiere preferite. 

 

Una aporia che, dallo staff di Danilo Toninelli, giustificano come il frutto di un metodo “che non è dipeso dalla nostra volontà”, anche se Ponti e i suoi collaboratori, nelle loro premesse, scrivono che “la metodologia adottata è sostanzialmente quella delle ‘Linee Guida’ del Ministero dei Trasporti”.

In ogni caso, quello che emerge dall’analisi costi benefici sulla Tav è che, in sostanza, per ogni tonnellata di Co2 in meno emessa nell’atmosfera, lo stato ci rimette circa 310 euro: la differenza, cioè, tra i 90 euro di minore danno ambientale stimati da Ponti, e i 400 euro di minori introiti dovute alle accise sul carburante. E questo, al di là del tipo di opera e del costo necessario per realizzarla: trasferire il traffico dalla strada alla ferrovia risulta sempre sconveniente. E non solo quando ci sono da scavare dei tunnel sotto una montagna, ma anche quando, in ossequio al principio del “piccolo è bello”, si propongono opere più modeste. Tipo l’alta velocità Pescara-Roma, su cui tanto hanno disquisito Di Maio e Di Battista durante la campagna elettorale in Abruzzo: ecco, anche in quel caso, se ci si basasse sugli esiti cui conduce l’analisi di Ponti, converrebbe senz’altro incentivare il transito dei tir sulla A25, anziché potenziare le linee ferroviarie locali. Stesso discorso per le vagheggiate “tav Catania-Palermo e Roma-Matera” (Di Maio dixit): per le quali non è prevista alcuna analisi costi-benefici.

 

Ma non è certo questo l’unico controsenso del dossier. L’analisi risulta negativa perché, alla voce dei costi, oltre ai 7,6 miliardi di investimento (spesa condivisa tra Italia, Francia e Ue) vengono contabilizzate – nello scenario ritenuto “più realistico” – le minori accise riscosse dallo stato (-1,6 miliardi nel trentennio 2029-2059), e i mancati guadagni (-2,9 miliardi) dei concessionari autostradali, quelli contro cui, peraltro, Toninelli e Di Maio hanno lanciato una crociata furibonda. Un combinato disposto che fa sì che, paradossalmente, maggiore è la quantità di traffico maggiore è il “costo”. In sostanza, quanto più la Tav dimostrasse di essere un’opera utile, in grado cioè di trasferire i tir sulla rotaia, tanto più – secondo Ponti – si rivelerebbe sconveniente. E non a caso, lo scenario ritenuto “troppo ottimistico”, quello cioè ipotizzato nel 2011 e che prevederebbe un traffico di merci e di passeggeri doppio rispetto all’analisi voluta da Toninelli, porta a un “costo” maggiore: 7,8 miliardi di euro di passivo, a fronte dei 6,9 calcolati da Ponti. Il motivo? Proprio la maggiore incidenza delle mancate accise (in quel caso sarebbero 6,1 miliardi di “perdita”) e dei mancati guadagni per i concessionari autostradali (7,9 miliardi in meno). Insomma, sarebbe più “vantaggioso”, una volta fatta la Tav, chiuderla al traffico. A questo esito irragionevole conduce la logica dell’analisi costi-benefici di Ponti.

 

Dopodiché, cosa succede se al calcolo finale togliamo accise e pedaggi? Succede che i circa 6,5 miliardi di “rosso” diventano due. E poi bisognerebbe sottrarre il miliardo circa che costerebbe “richiudere il buco” (il “ripristino delle opere già realizzate”) e mettere in sicurezza la linea storica, quella voluta da Cavour nel 1854. E ancora, secondo l’analisi giuridica sempre del Mit, andrebbero messi in conto i costi relativi a penali e risarcimenti vari (alla Francia, all’Unione europea, alle imprese con cui si sono già firmati dei contratti) che si aggirerebbero intorno – stima approssimativa – ai due miliardi. E a quel punto, tutto sarebbe ribaltato.