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Elogio della rappresentanza

Massimo Adinolfi

Quanto più i populisti dicono che loro non solo rappresentano il popolo ma "sono" il popolo, tanto più si conviene che rappresentare è meglio che essere. Una questione di efficienza, razionalità, verità. Basta guardare una mela di Cézanne

Per cominciare, vorrei anzitutto provvedermi di una definizione di populismo. Siccome, nel tempo e nello spazio, si son chiamati populismi soggetti politici anche molto diversi, non è facile trovare una definizione che vada bene per ogni cosa. Ma per fortuna sono secoli che la filosofia non crede più che dietro ogni nome ci sia una sostanza, e così possiamo rinunciare alla smodata ambizione di restituire con una definizione l’essenza della cosa. Quel che ci serve è solo qualcosa che funzioni. Jan Werner-Müller ha sostenuto che populisti sono quelli che pretendono di detenere una rappresentanza morale esclusiva del popolo. Ecco: per il populismo di casa nostra può funzionare. Se mai aveste dei dubbi, sarebbe sufficiente che vi guardaste il gustoso siparietto offerto qualche settimana fa dal nostro presidente del Consiglio, Conte, l’orgoglioso difensore del populismo del suo governo. Intervistato in tv da Giovanni Floris, alla domanda “che cos’è il popolo?”, Giuseppe Conte non ci ha pensato su e ha risposto: “Il popolo è la somma degli azionisti che sostengono questo governo”. Bene: e tutti gli altri? Non ci aveva pensato: ci ha dovuto pensare per le sollecitazioni del giornalista, e così nel popolo, dopo qualche balbettamento, mi ci sono ritrovato per fortuna anche io, che questo governo non sostengo affatto. La prima risposta però è quella che vale, anche perché di fatto coincide con la definizione di Werner-Müller: c’è un popolo vero, un popolo autentico, ed è quello che sta con il governo. Tutti gli altri: ci vuole un attimo, e finiscono sotto qualche squalifica morale che li rende indegni di far parte del popolo. Sono le élite, sono la Casta, sono l’establishment, e naturalmente i manutengoli del potere, e tutti quelli che c’erano prima. O più sbrigativamente i corrotti che – come si sa – un muscoloso decreto ha già cominciato energicamente a spazzare via.

 

Sembra esserci un popolo vero, quello che sta con il governo. Tutti gli altri, ci vuole un attimo e finiscono sotto qualche squalifica morale che li rende indegni di far parte del popolo. Sono le élite, la Casta, i manutengoli del potere e tutti quelli che c’erano prima. Il pluralismo non è di casa tra i populisti

Da questa impostazione derivano alcune conseguenze. La più rilevante delle quali è che il pluralismo non può essere di casa, tra i populisti. E infatti, come nella legislazione scorsa, così anche in questa sono ricominciate le espulsioni. E poi c’è la personalizzazione (il capo politico), e poi c’è la disintermediazione (l’uno vale uno, i portavoce, la piattaforma Rousseau), e poi c’è il giustizialismo (niente prescrizione, e chissà cosa in futuro: niente appello? niente avvocato?): cose che sappiamo. Io vorrei però lanciarmi nella difesa del tratto più screditato della politica contemporanea – più screditato, s’intende, dalla canea populista. Dico la rappresentanza, il fatto che a decidere non sia io, di mio pugno, con la mia mano alzata, ma qualcuno che mi rappresenti. Nonostante la sovranità popolare, nonostante la democrazia, nonostante il suffragio universale, nonostante “l’ulteriore difficoltà che l’uomo pensa” – così avrebbe detto quel reazionario di Hegel – e, per il solo fatto che pensa, pensa pure di poter pensare di testa sua.

 

La mia difesa può formularsi nientedimeno che così: rappresentare è meglio che essere. Quanto più i populisti dicono che loro sono il popolo, sono la parte sana e la parte vera del popolo, quanto più insistono sul fatto che ciascuno di loro non rappresenta soltanto ma “è” uno di loro (e che schifo i rappresentanti), tanto più io ripeterò: d’accordo, ma sappi che rappresentare è meglio che essere.

 

Dico in generale. La prendo cioè molto, ma molto alla lontana, come credo che sia necessario. E in generale la difesa della rappresentanza può essere condotta in tre modi, legandola cioè a tre valori: al valore dell’efficienza, a quello della razionalità, infine a quello della verità. Io punto all’ultimo, a quello più ambizioso: rappresentare è meglio che essere dal punto di vista della verità. Prima però una parola sugli altri due modi.

 

Primo modo, ovvero dell’efficienza. Se io non posso essere presente a una riunione, e posso mandare qualcuno al posto mio, la rappresentanza mi risolve un problema. La rappresentanza è così un metodo, una tecnica, qualcosa che esonera dalla presenza, non potendo nessuno essere presente sempre e dappertutto. Quando nel mondo occidentale hanno pensato che il popolo poteva governarsi da solo, si sono subito resi conto che c’era bisogno di rappresentanti, che non si poteva riunire tutto il popolo permanentemente in un sol luogo. Ci voleva perciò la democrazia rappresentativa. Oggi tuttavia c’è la Rete, e questo argomento non fila più come prima: se si può votare la qualunque, standosene comodamente a casa propria, perché non si dovrebbe votare anche nelle cose della politica? Posso cacciare un cantante da “X Factor” o un Vip dal “Grande Fratello”, perché non potrei cacciare anche un deputato dal Parlamento (vedi alla voce: mandato imperativo): la sovranità non appartiene anche a me? Viene allora in soccorso la seconda linea difensiva, quella fondata sul valore della razionalità. La mediazione rappresentativa introduce un elemento di razionalità nei processi decisionali. Per due motivi: perché richiede tempo, e si suppone che se uno pensa un po’ sulle cose sbaglia di meno, e perché permette di mobilitare specifiche competenze. Io trovo convincente questo argomento, e sarei disponibile a dargli pure un fondamento antropologico: l’uomo è l’animale che differisce la risposta, che mette tempo – quindi riflessione, quindi cultura – fra lo stimolo e la risposta, fra l’istinto e il soddisfacimento dell’istinto. Il fatto che anche in politica non si passi subito all’atto ma ci si pensi su, mi pare che costituisca ancora una buona ragione per tenere in piedi l’architettura istituzionale della rappresentanza.

 

Tuttavia, non è così semplice. Perché da un lato c’è questa faccenda del tempo da impiegare, della lentezza che i tempi velocissimi del presente non apprezzano; dall’altro c’è comunque l’antipatico ricorso a una delega: un altro al posto mio. Un’obiezione potrebbe dunque essere: invece di mandare dei rappresentanti a Roma, facciamo che di volta in volta si indicono le votazioni per una certa data, così ognuno ha il tempo di prepararsi secondo i propri percorsi di studio e di riflessione, e poi, all’ora fatidica, si vota. In diretta differita, come si diceva una volta: in diretta, perché si salta la mediazione istituzionale del Parlamento, ma in differita, perché si dà il tempo di documentarsi, di studiare, di riflettere. La razionalità è salva (o così pare).

 

Se anche fosse, rimarrebbe comunque l’ultimo modo di difendere la rappresentanza. Dal punto di vista della verità. Secondo l’idea, cioè, che nel rappresentante la mia verità – proprio la mia, proprio quello che io penso – si chiarisce a me stesso meglio di quanto io stesso non possa fare. Dico proprio io, sul mio conto. A più di un secolo dall’Interpretazione dei sogni di Freud, la cosa non dovrebbe, in realtà, apparire troppo sorprendente. Se poi a certe considerazioni della psicanalisi sulla inautenticità della sfera intima personale aggiungessimo quelle della sociologia sulla colonizzazione dell’immaginario avremmo qualche robusto sostegno a questa idea. Ma c’è una maniera di darle maggiore evidenza, e, quasi, di vederla coi nostri propri occhi.

 

Dico proprio vederla: basta pensare a ciò che diciamo essere la verità del ritratto. Un ritratto non è vero perché riproduce esattamente l’originale, ma perché rivela la verità dell’originale, mostrando cose che nell’originale non si vedono con altrettanta nitidezza. La messa in ‘forma’, la trasmutazione produce un aumento di senso. Gadamer diceva addirittura un aumento d’essere. E Maurice Merleau-Ponty la metteva così: la vera mela non è quella che sta sulla mia tavola, ma quella che sta in una tela di Cézanne. Che è tanto più vera quanto più riesce a imprimere una nuova direzione dello sguardo. Noi non andiamo dalla mela sul nostro tavolo alla mela del quadro, per verificare la somiglianza, ma dalla mela del quadro alla mela sul tavolo, per guardarla sotto una nuova luce. Vale per i ritratti, vale per le nature morte del pittore provenzale, ma vale anche per un paesaggio di Corot o per le figure umane che danzano in una celebre opera di Matisse: vale per l’opera d’arte in generale.

 

Poi però arriva una bravissima ricercatrice italiana, Roberta Sinatra, e il Corriere della Sera titola: calcolato l’algoritmo dell’arte. In realtà, nello studio pubblicato su Science la Sinatra non prova a svelare il segreto della creazione artistica ma a quantificare il peso che hanno i network istituzionali nel determinare il successo e la reputazione di un artista. Fatti tutti i calcoli – su quasi 500.000 mostre in gallerie, e quasi 300.000 esposizioni in 7.568 musei diversi, e quasi 130.000 vendite all’asta, in un arco di tempo di 36 anni, per ricostruire le carriere di quasi 500.000 artisti – fatto tutto ciò, si trova che un peso ce l’hanno e come: è, anzi, un peso determinante. Conta il talento, ma se dietro non hai il gallerista o il museo che ti sostiene, c’è poco da fare. Tutta la polemica contro l’establishment si può ricavare facilmente da qui: ma come? Un’opera è tale solo perché qualcuno, all’interno del mondo dell’arte, pretende che sia tale? Sospetto ci sia uno strettissimo rapporto tra “l’uno vale uno” dei grillini e questo genere di proteste, accompagnate dall’immancabile esclamazione: “Questo lo so fare pure io!” che – come si capisce subito – è il vero principio di ogni indignazione (e della prosopopea di certi ministri).

 

Ora, però, a parte il fatto che, senza numeri e senza algoritmi, esiste da una cinquantina danni una teoria istituzionale dell’arte per la quale, grosso modo, è arte ciò che il mondo dell’arte ritiene che sia tale, il punto vero è che al turista smarrito dinanzi a certe opere che gli appaiono insignificanti e banali bisognerebbe rispondere che non è affatto così, e che la banalità sta semmai nella sua povera testa. Fuori, invece, sta l’operazione dell’arte, che Arthur Danto chiamava “trasfigurazione del banale”. Una cosa che nessuno da solo può fare, che richiede per l’appunto il sostegno delle istituzioni, della storia, delle scuole, di un insieme di relazioni che non stanno mai nella testa di uno solo e che stanno persino fuori dell’opera stessa, materialmente presa. Ricordate Hegel il reazionario? Questa cosa la insegnava pure lui: per pensare non basta avere le proprie, personalissime rappresentazioni. Le rappresentazioni sono meramente soggettive; il pensiero, come il linguaggio, è una concrezione oggettiva che dipende da me ma anche dal concorso di altri. Senza questa mediazione non c’è pensiero e non c’è verità. Il pensiero non è, insomma, un pallido fantasma mentale. Al contrario: è realtà aumentata. Solo che quel che ha di più non gli è conferito da nessuno sulla sola base del proprio individuale (e solamente presunto) talento. Che infatti ciascuno sovrastima enormemente, e questo è quanto nessuno dei nobili deputati pentastellati, ne sono ragionevolmente sicuro, sarà disponibile ad ammettere.

 

Così, per quel che mi riguarda, la difesa è compiuta: dal funzionamento di meccanismi di rappresentanza dipende la possibilità di costruire un senso che non è la semplice, idiosincratica somma di opinioni soggettive, ma è ciò che un circuito istituzionale rilascia come la verità di quei soggetti, verità che in democrazia non viene imposta, ma in cui tuttavia c’è da riconoscersi. Detta così suona forse complicato; nel fatto non lo è. Perché tutti sappiamo che quel che riconosciamo come nostra verità non è quel che già sappiamo, ma è quel che ci ritorna a partire da una differenza: proprio perciò la “ri”-conosciamo. Così è del ritratto, così è della mela di Cézanne o della danza di Matisse. Così è pure di parole che non sono nostre, ma di cui ci appropriamo: si trovino scritte in un libro o pronunciate da un altro uomo. Eccola, la mediazione dell’altro, di cui è fatta tutta la civiltà umana.

 

Infine: alcune postille intorno al buon uso della rappresentanza. La prima. Nonostante ogni difesa e ogni elogio, rimane sempre possibile che essa perda effettività, che prenda un significato solo decorativo. Del resto, oggi parliamo di populismo quanto ieri parlavamo di tecnocrazia: uno è il rovescio dell’altra, e tutte e due fanno a meno dei principi democratici della rappresentanza. Di mezzo tra l’uno e l’altra ci sarebbe la politica, se a furia di neutralizzazioni e tecnicizzazioni non venisse sempre più svuotata di senso.

 

Un ritratto non è vero perché riproduce esattamente l’originale, ma perché rivela la verità dell’originale, mostrando cose che nell’originale non si vedono con altrettanta nitidezza. Ci sono parole che non sono nostre, ma di cui ci appropriamo. Eccola, la mediazione dell’altro, di cui è fatta tutta la civiltà umana

La seconda. Tripadvisor non è un modello di democrazia: è una piattaforma, che consente a ciascuno di dare il proprio voto ai ristoranti dove ha mangiato. In diretta e senza filtri! Ogni giudizio, lì sopra, vale uno: non è bellissimo? Temo di no, se chi consulta il sito pensa di essersi così sbarazzato dell’inutile mediazione dell’esperto. Non si accorge che la mediazione c’è, e anche se non ha le fattezze del gastronomo, è tuttavia esercitata proprio dalla piattaforma, dal suo invisibile algoritmo proprietario (privato). Vale per Tripadvisor, che però fa legittimamente i suoi affari, e vale pure per la piattaforma Rousseau, sulla legittimità dei cui affari non so nulla.

 

La terza e ultima. Democrazia significa anche democratizzazione. Liberalismo vuol dire separazione, ma democrazia vuol dire accesso. E non sempre è facile trovare il giusto equilibrio. Per quanto però si voglia esser democratici, bisognerà tener presente la differenza fra avere accesso ed eliminare le soglie, gli spazi differenziati. Il Parlamento non può essere un sacrario; però c’è e non è una scatoletta di tonno (copyright Beppe Grillo). Non è neppure il luogo in cui “il volere dei cittadini viene tradotto in atti concreti e coerenti”, come ha sostenuto sbrigativamente Casaleggio, mentre ipotizzava che forse in futuro non sarà più necessario. E’ il luogo in cui “prende forma” la volontà popolare, ed è proprio di quel prendere forma, e di tutto quello che significa in termini di corridoi, aule, commessi, commissioni, pareri, uffici studi, che abbiamo ancora assoluto bisogno.

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