Le maschere di Matteo Salvini e Beppe Grillo allo scorso Carnevale di Viareggio (foto LaPresse)

Il timer del carnevale populista

Claudio Cerasa

La debolezza del governo non dipende dai litigi della maggioranza ma dall’arrivo di un iceberg economico di nome realtà. Sarà davvero questa maggioranza a occuparsi della prossima manovra? Perché il Quirinale fa bene a cerchiare di rosso il mese di settembre

Il problema in fondo è tutto lì: fino a quando si potrà continuare a fuggire dalla realtà? La ragione per cui negli ultimi giorni tra i principali palazzi della politica è tornata a rincorrersi in modo molto prepotente l’idea che il governo del cambiamento possa avere una vita più breve del previsto non è legata a una qualche divisione interna al governo, a un qualche scazzo sulla Tav, a un qualche dissidio sulle infrastrutture, a un qualche screzio sulle trivelle, a un qualche problema sul garantismo. E non è legata neanche a un qualche famigerato inciucio tra pezzi della Lega e pezzi del Pd, tra pezzi del salvinismo e pezzi del renzismo. Ma è una ragione legata a un dato di fatto difficilmente contestabile che vale la pena mettere a fuoco con una domanda semplice: questo governo è in grado oppure no di affrontare la prossima legge di Stabilità?

  

La domanda sarebbe valida anche senza mettere insieme i dati cupi relativi alle previsioni sull’economia italiana – il governo ha previsto per il 2019 una crescita all’uno per cento, l’Fmi e l’Ocse hanno previsto una crescita allo 0,5 per cento, Goldman Sachs e Barclay’s hanno previsto una crescita allo 0,4 per cento, la società di consulenza britannica Oxford Economics ha previsto una crescita allo 0,3 per cento, la Banca d’Italia ha riscontrato nei giudizi delle imprese sulle prospettive di crescita “un netto deterioramento in tutti i settori di attività” in merito alla “situazione economica” con una evoluzione “in parte attribuibile all’incertezza relativa a fattori economici e politici”. E l’idea che il governo populista sia in grado di affrontare una manovra che porterà l’Italia a dover trovare 44 miliardi solo per rifinanziare il reddito di cittadinanza e la quota cento (11 miliardi) e disinnescare le clausole di salvaguardia sull’Iva (23) alzate da Salvini e Di Maio (considerando l’aumento dell’Iva, che al momento è legge dello stato, nel triennio la pressione fiscale supererà il record del 43,8 per cento toccato sotto il governo Monti in tutt’altro contesto economico) somiglia a una chimera considerando cosa è stato costretto a fare l’esecutivo per portare a casa poche settimane fa una manovra da 31 miliardi di euro.

 

Dunque la domanda resta sempre quella, con una piccola aggiunta: questo governo è in grado di affrontare la prossima legge di Stabilità o Salvini e Di Maio ragionando sulla prossima manovra hanno messo nel conto la possibilità concreta che non sia questo governo a occuparsi del prossimo bilancio? Rispondere a questa domanda non è facile ma rispetto a questo dilemma l’elemento di analisi ulteriore che andrà considerato nelle prossime settimane riguarda il rischio imminente per gli italiani di ritrovarsi di fronte a una tempesta perfetta autoindotta da un governo che da mesi in modo quasi scientifico, alimentando la sfiducia, minando la credibilità, terrorizzando le imprese, aumentando le tasse, distruggendo lavoro, mettendo in fuga gli investimenti, giocando con lo stato di diritto, soffiando sul giustizialismo, ha scelto di fare di tutto per rendere possibile una fase di decrescita economica. E rispetto a questo scenario la domanda che un osservatore attento dovrebbe porsi non può che suonare più o meno così: quale razza di ragione potrebbe trattenere Matteo Salvini dallo staccare la spina a un governo che ha rimesso la pallina dell’Italia su un piano inclinato che rischia di riportarci in uno scenario non troppo diverso dal 2011? Il ragionamento vale sia in presenza sia in assenza di una fase di stagnazione economica, che l’Istat dovrebbe registrare entro la fine del mese, e vale ancora di più se si pensa che è entro fine aprile, e non entro fine dicembre, che il ministro dell’Economia Giovanni Tria dovrà consegnare alla Commissione europea il Documento di economia e finanza con cui il governo spiegherà in che modo vorrà finanziare la prossima legge di Stabilità.

 

Una ragione per cui Salvini, nonostante l’arrivo dell’iceberg della realtà, potrebbe essere tentato dal decidere dopo le europee che strada far prendere alla sua Lega non ha a che fare solo con l’ebbrezza di custodire con forza la divisa del potere, e con la possibilità di poter trasformare ogni giorno il ministro dell’Interno in una tetra maschera carnevalesca, ma ha a che fare anche con una circostanza politica spesso ignorata: a maggio, dopo la tornata di elezioni regionali in Abruzzo, Basilicata, Sardegna, Piemonte, si voterà anche in 3.860 comuni in Italia, quasi il 50 per cento del totale, e per la Lega arrivare ai ballottaggi forti di un’alleanza nazionale con il Movimento 5 stelle potrebbe essere un modo per portare dalla propria parte gli elettori del M5s in tutti quei comuni, e promettono di essere molti, in cui il 5 stelle farà flop. Ma una volta superato maggio – e una volta capito probabilmente che in Europa l’internazionale sovranista in fondo era solo una fake news – rimettere in discussione il governo per il segretario della Lega potrebbe essere l’unico modo per capitalizzare il proprio consenso e provare a non essere considerato dagli elettori il vero responsabile del disastro economico italiano. Certezze sul futuro naturalmente non ce ne sono, e giocare con la palla di vetro è un rischio troppo pericoloso. Ma ci sarà una ragione se i principali fondi di investimento e le principali banche d’affari prevedono un 2019 ancora più movimentato del 2018 immaginando che nel giro di pochi mesi, così suggerisce per esempio Bofa Merrill Lynch, i guai economici potrebbero portare alla destabilizzazione del governo. Non sappiamo se accadrà – anche se sappiamo che il presidente della Repubblica non avrebbe molto da dire qualora la Lega dovesse portare l’Italia al voto a settembre prima della prossima manovra – ma sappiamo che se dovesse accadere la ragione non sarebbe legata a un dissidio interno alla maggioranza, ma unicamente a un dissidio creato dal governo con il più pericoloso dei nemici contro i quali poteva schierarsi in modo compatto: la forza della realtà. Il timer forse è già partito. Tic tac.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.