Beppe Grillo a Oxford

Grillo, i fischi e le conseguenze della politica abituata ai monologhi

Luciano Capone

A Oxford, la reazione del comico ai fischi degli studenti ci ricorda cosa capita quando i politici si abituano a non avere contraddittorio

Roma. “Non siete cortesi”, ha detto Beppe Grillo agli studenti della Oxford Union che l’hanno preso a fischi e pernacchie. Ci deve essere rimasto male. Non si aspettava un trattamento del genere. Probabilmente immaginava il solito monologo bislacco farcito di concetti che non maneggia neppure bene, tipo l’intelligenza artificiale o la blockchain, e condito con qualche parolaccia o idea visionaria, tipo la democrazia diretta o l’auto a idrogeno. L’ostacolo più grosso alla riuscita della sua performance pensava di averlo rimosso impedendo l’accesso dei giornalisti al suo speech nell’associazione che viene definita “l’ultimo baluardo della libertà di parola nel mondo occidentale”. Tutto prometteva bene, a partire dall’ingresso da showman con la benda sugli occhi “per non vedere il Regno Unito imprigionato dalle discussioni sulla Brexit”. Ma tutto è andato storto.

 

I problemi sono cominciati durante il comizio, con il malcapitato interprete in difficoltà a tradurre quel fiume di frasi sconclusionate, e sono andati crescendo quando l’esibizione si è avviata verso un genere che Beppe Grillo non maneggia bene: le domande. E gli studenti hanno preteso risposte precise invece delle solite battute o dei discorsi sconnessi. Così è finita tra fischi e “buuu”, lui che rinfaccia agli studenti all’estero di aver lasciato il paese, e quelli che gli danno del buffone. Quel dimesso “non siete cortesi” pronunciato in chiusura, da parte di un personaggio abituato a vomitare i peggiori insulti sui suoi interlocutori, dà la misura di quanto il fondatore del M5s sia stato colto di sorpresa. E d’altronde non è neppure colpa sua. Il fatto è che i politici italiani non sono più abituati alle domande e ai confronti serrati. Sono cresciuti in un habitat differente, dove tutti questi fattori di disturbo sono assenti: le interviste vengono spesso concordate, gli interlocutori selezionati e il contraddittorio evitato. 

 

Neppure gli applausi sono veri. Nell’epoca dei nuovi talk show sono un elemento della coreografia, come la sigla, scandiscono i tempi della trasmissione e la fine di ogni intervento, di durata sempre più breve, come le risate finte di Benny Hill e “Striscia la notizia”. Se hanno qualcosa da dire, i politici lo fanno con le dirette Facebook o le stories su Instagram, dal tetto di un palazzo o dall’abitacolo di una macchina, ben sapendo di poter predicare qualsiasi presunta verità senza paura di essere contraddetti, sicuri che poi i media rilanceranno senza filtro il messaggio.

 

Sono più lontani che mai i tempi della televisione in bianco e nero, quelli della “Tribuna politica”, quando leader e ministri vari si sottoponevano alle domande dei giornalisti dei quotidiani delle più diverse sensibilità politiche. Un format forse troppo ingessato, per le esigenze dell’infotainment odierno, certo. Ma in fondo sono lontani anche i tempi delle trasmissioni di approfondimento politico della Seconda Repubblica in cui si sono celebrati confronti accesi e scontri epocali tra politici e politici, ma anche tra giornalisti e politici. Anche in quella fase storica venivano allestiti salotti televisivi confortevoli in cui i politici costruivano la propria immagine facendo il risotto (adesso mettono le foto delle lasagne su Twitter) oppure presentando tabelloni di promesse realizzate (ora mettono su Facebook liste delle cose “fatte”), ma erano presenti spazi per la dialettica e lo scontro anche aspro ma vero. Ora questo spazio si è sempre più ridotto, anche a causa del discredito – meritato o meno che sia – dei giornalisti. Per le nuove forze politiche non discutere con i giornalisti – descritti come carogne, pennivendoli, schiavi, sciacalli e creature malvagie – è stata addirittura una linea politica vincente in termine di consensi.

 

Ma un po’ come le bestie vissute in cattività diventano incapaci di sopravvivere nell’ambiente esterno, così un animale da monologhi come Grillo va in difficoltà quando incrocia le domande. Pensava di aver risolto i problemi tenendo i giornalisti fuori, ma non aveva considerato gli studenti. E il fatto che le loro domande inevase abbiano ricevuto più applausi delle sue risposte contraddittorie indica cos’è che manca nel dibattito pubblico italiano.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali