Giuseppe Conte a Bruxelles con Jean-Claude Juncker (Foto LaPresse)

Il sovranismo antieuropeista finisce commissariato dall'Europa

Valerio Valentini

L'impotenza dei deputati gialloverdi che aspettano il verdetto di Bruxelles sulla manovra

Roma. Nel vuoto della Sala Verde della Camera, il respiro profondo di Giuseppe D’Ippolito sembra il preludio a un sonno profondo. Ed è lì, infatti, su un divanetto in penombra, che l’avvocato calabrese del M5s, noto anche per essere stato il legale di Beppe Grillo, si appisola. In Transatlantico, intanto, c’è chi si scatta selfie e chi si scambia regali di Natale. “D’altronde la manovra è al Senato che verrà discussa”, dice il deputato leghista Giuseppe Bellachioma, preoccupato in verità per la campagna elettorale in Abruzzo.

 

E però anche a Palazzo Madama, a ora di pranzo già passata, più che altro si ammazza il tempo. La commissione Bilancio, fissata a mezzogiorno, viene rimandata di mezz’ora. Le opposizioni chiedono aggiornamenti sullo stato dell’arte delle trattative tra Palazzo Chigi e la Commissione europea. “Non siamo titolati a entrare nel merito”, risponde il viceministro dell’Economia, il leghista Massimo Garavaglia. E allora la minoranza, rilancia: chiede un’audizione formale del ministro Giovanni Tria. Nuova convocazione alle 15. “Anzi no, alle 16:30”. E così nell’attesa di Godot, i tecnici della struttura economica del Carroccio incrociano in un corridoio del primo piano quelli del M5s: “È chiaro che la situazione è eterodiretta: si aspetta che una soluzione arrivi dall’alto”, ammettono.

 

Il Palazzo si anima solo nel tardo pomeriggio, quando arriva Riccardo Fraccaro. Ma anche quella del ministro per i Rapporti col Parlamento è una mossa per prendere tempo. Tria, spiega, arriverà. Ma non prima di domani mattina. Non prima, cioè, che la Commissione Ue formalizzerà il suo parere sulla manovra. E non è un bel segnale, nonostante l’ottimismo che arriva dal Mef, subito raffreddato, però, da Palazzo Chigi: c’è una “ragionevole previsione” che l’accordo si troverà, spiegano dallo staff di Giuseppe Conte. Nulla di più. E allora anche a Via XX Settembre stemperano l’entusiasmo: “L’accordo è solo informale: sarà passato al vaglio dei commissari”. E così Renato Schifani, che l’autunno del 2011 se lo ricorda bene, spiega che “il dilettantismo del governo rischia di trascinarci in una situazione drammatica.

 

Per mesi si è sbeffeggiata l’Europa, non capendo che il problema erano in realtà i mercati, e non la Commissione, come pure Giorgetti ha cercato di far capire ai suoi colleghi dell’esecutivo. E ora si va a Bruxelles col cappello in mano, a pietire una concessione”. Anna Rossomando, del Pd, è più sbrigativa: “Nel 2011 ci scrissero la letterina, stavolta direttamente la manovra”. E sembra insomma che siano quasi le mura stesse di Palazzo Madama a riproporre, in un’eco sinistra, le parole che Mario Monti scrisse sul “Corriere della Sera” nell’agosto del 2011, tre mesi prima di essere chiamato a fare il premier: anche il governo dei sovranisti, nella sua supposta autonomia dalle regole europee, si è sottomesso al “podestà forestiero”.

 

Il senatore grillino Gianluca Castaldi, incrociando il collega Daniele Pesco, lo incoraggia: “Tieni duro, presidente”. E non è facile, infatti, il compito di chi è chiamato a guidare la commissione Bilancio di Palazzo Madama. Bisognerebbe cominciare a discutere i circa 700 emendamenti alla manovra: ma a che serve, se poi il maxiemendamento del governo ridefinirà i saldi? “Intanto andiamo avanti – dice Pesco – su tutti i commi che non hanno a che fare con quota cento e reddito di cittadinanza”. E però quota cento e reddito di cittadinanza sono, di fatto, la manovra. E allora? Pesco aggrotta la fronte, prova a dissimulare l’imbarazzo per il ruolo ingrato che gli tocca svolgere. Ma quando gli si chiede se davvero Salvini e Di Maio abbiano intenzione di rimandare al 2020 le pensioni di cittadinanza, si stringe nelle spalle: “Io per certo non lo so. Ho solo notizie stampa”.

 

Tutti, è chiaro, aspettano il responso di Bruxelles, nella consapevolezza che ad essere commissariato, più che esautorato, non è solo il Parlamento, ma il governo nel suo complesso. Nel cortile di Palazzo Madama, Stefano Patuanelli si accende una sigaretta. “Si farà nottata”, dice con aria preoccupata il capogruppo del M5s. Fuori da Montecitorio, nel frattempo, va in scena lo sketch dei deputati grillini per l’approvazione dell’anticorruzione, appena licenziato. Espongono cartelli stradali con su scritto: “Attenzione: pericolo cambiamento”. Partono le dirette Facebook, il guardasigilli Alfonso Bonafede è raggiante. La manovra? “No, qui si parla di spazzacorrotti”, dicono i responsabili della comunicazione. “Niente manovra”.

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