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Sì: i populisti hanno fregato i loro elettori

Claudio Cerasa

Il lavoro inizia a calare, dice Assolombarda. La crescita è un sogno, dice Bankitalia. L’azzardo del 2,4 ha già perso senso ed è un macigno sul futuro. Cos’è l’imbroglio shakespeariano di Salvini e Di Maio e perché ora è il momento della resipiscenza

Avevano promesso più crescita e la crescita è arrivata a zero. Avevano promesso più lavoro e il lavoro si è fermato. Avevano promesso di abbassare le tasse e le tasse non verranno abbassate. Avevano promesso più credibilità e la credibilità è andata giù. Avevano promesso più affidabilità e in cinque mesi lo spread è andato in aria come un missile di Musk. Avevano promesso meno disoccupazione e la disoccupazione è aumentata. Avevano promesso più credibilità e la credibilità è andata a picco. Avevano promesso di creare lavoro con le infrastrutture e le infrastrutture sono state bloccate. Avevano promesso di tutelare i nostri risparmi e la Borsa è crollata del ventitré per cento. Avevano promesso meno immigrati irregolari e con il decreto sicurezza gli irregolari senza protezione umanitaria aumenteranno – secondo l’Anci – di circa sessantamila unità nel giro di pochi mesi. Avevano promesso una legge di Stabilità per far ripartire l’economia e l’effetto della presentazione della legge di Stabilità è stato quello di bloccare l’economia italiana. Cinque mesi di tempo non sono sufficienti per dare un giudizio definitivo sui risultati prodotti da un governo, ma se c’è qualcuno che dovrebbe cominciare a valutare con serietà la traiettoria del governo del cambiamento, quel qualcuno dovrebbe coincidere proprio con il profilo degli elettori che il 4 marzo hanno votato in buonafede Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

 

Lo dovrebbero fare osservando con attenzione proprio la manovra che sarà presto votata dal Parlamento italiano e lo dovrebbero fare ponendosi una domanda semplice: ma tutto questo delirio, questo scontro con la Commissione europea, questo impuntarsi sul 2,4 per cento, questo atteggiamento che in sei mesi ha prodotto un aumento dello spread che vale 3,6 miliardi di euro per il 2018, oltre 5 miliardi per il 2019, quasi 9 miliardi per il 2020, un crollo del valore delle banche del 36 per cento; questa perdita di affidabilità del nostro paese che come ha ricordato ieri il vicedirettore generale di Bankitalia, Luigi Federico Signorini, in audizione nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato, “si sta ripercuotendo sull’intera economia italiana, su famiglie, imprese, istituzioni finanziarie”, tutto questo alla fine per fare cosa? Per fare una manovra in cui la crescita è prevista senza spiegare come? Per fare una manovra dove gli stanziamenti sugli investimenti valgono sei volte in meno gli stanziamenti su reddito di cittadinanza e riforma delle pensioni? Per fare una manovra in cui non c’è nulla per le imprese, non c’è nulla per il lavoro, non c’è nulla sulle tasse, se non qualche regalo agli evasori, e dove la rivoluzione sono due ddl assistenzialisti per le pensioni anticipate, per una quota cento che varrà al momento solo per un anno, e per un reddito di cittadinanza che il Movimento 5 stelle aveva promesso che sarebbe stato per tutti i poveri d’Italia e che sarebbe stato finanziato con coperture già trovate e che alla fine quando ci sarà verrà fatto senza le coperture promesse e senza neppure raggiungere la platea che era stata garantita? Tutto questo per fare cosa? Dimentichiamoci per un attimo della grammatica del rigore, del problema del debito, della stabilità dei conti pubblici, dei rendimenti dei titoli di stato e concentriamoci su questi punti, che poi sono i veri punti che fanno della manovra del cambiamento una manovra comprensibile solo se si sceglie di usare una lente elettorale.

 

Tema numero uno: è una manovra che farà guadagnare davvero consenso a qualcuno degli azionisti del governo? Naturalmente sì: le richieste per andare in pensione con quota cento verranno attivate nei mesi antecedenti alle europee e difficilmente prima delle europee sarà possibile capire quanto non funzionerà il reddito di cittadinanza. Bingo.

 

Tema numero due: a parte affidarsi alla generosità dello Spirito santo, esiste un solo elemento nella manovra capace di generare realistiche aspettative di crescita e giustificare così il prezzo che l’Italia ha dovuto già pagare a causa d’una legge di Stabilità che vìola le regole che un paese indebitato dovrebbe rispettare per non mettere in fuga gli investitori? Violare le regole per abbassare le tasse e per aiutare le imprese a creare lavoro sarebbe stata una scommessa pazza, ma al rialzo.

 

Molto rumore per nulla

Violare le regole per non abbassare le tasse e per non creare lavoro è una assurdità politica degna di una commedia di Shakespeare – “Much Ado About Nothing”, “Molto rumore per nulla”. E il dato paradossale della traiettoria del cambiamento è che l’ideologia del No, e della decrescita felice – che si trova dietro al modello di governo scelto da Di Maio e Salvini – è la stessa ma proprio la stessa che priva oggi l’Italia degli strumenti necessari per usare in modo appropriato i miliardi di deficit ottenuti violando le regole – senza considerare poi il fatto che la violazione delle regole rischia di far spendere all’Italia un numero di miliardi in tassi di interesse aggiuntivi grosso modo simile a quelli ottenuti grazie alla violazione delle regole. E quando il presidente dell’associazione che rappresenta gli imprenditori di una delle regioni più produttive d’Italia, ovvero la Lombardia, dice – come ha detto ieri Carlo Bonomi – che a causa del decreto dignità voluto da questo governo in Lombardia nel terzo trimestre del 2018 sono calate del 37 per cento le richieste di lavoratori in somministrazione, in riferimento all’area di Milano, Brianza e Lodi, e che le richieste di lavoratori sono calate del 26 per cento anche in un’area ricca come quella di Brescia, un elettore anti populista non potrebbe che dire “I told you so” ma un elettore populista dovrebbe guardarsi allo specchio e farsi una domanda semplice: santo cielo, ma che diavolo stiamo combinando? Oggi a Torino, nella manifestazione contro l’Italia dell’immobilismo e della bassa velocità, saranno in tanti, speriamo, a chiederselo, e sarebbe bene che da oggi in poi la parola d’ordine intorno alla quale costruire un’alternativa allo sfascio populista diventasse una e soltanto uno: resipiscenza, oh yes.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.