Campagna contro le elite populiste

Francesco Cundari

Una pubblicità del Corriere ci ricorda l’anomalia italiana di una borghesia alleata con gli anticasta

I creativi del Corriere hanno offerto ai lettori una pubblicità con riferimenti anticasta per promuovere una campagna di abbonamenti. Oggi sul Foglio trovate una scorrettissima pubblicità alternativa. Abbonatevi!

 

Breve rassegna delle campagne autopromozionali che in questi tempi difficili i grandi giornali hanno deciso di adottare per riaffermare il proprio ruolo e rivendicare la propria indipendenza. Washington Post: “La democrazia muore nell’oscurità”. New York Times: “La forza dei fatti. Il potere della verità”. Corriere della Sera: “Nessun politico scappa al processo… di invecchiamento (non sempre meno è meglio, quando si tratta di informazione meno è solo meno)”. Potrebbe sembrare una di quelle rubriche da Settimana enigmistica: trova l’intruso. Ma la risposta è troppo facile.

 

Ciò che distingue la pubblicità comparsa ieri sul Corriere della Sera, a due mesi dall’insediamento del governo Conte, dallo slogan piazzato sotto la testata del Washington Post all’indomani dell’insediamento di Donald Trump, infatti, è la differenza fondamentale che da tempo separa l’Italia dal resto dei paesi occidentali, anche sul terreno del grande conflitto globale tra populisti ed élite. E la differenza, in breve, è che in Italia le élite stanno coi populisti.

 

Anche in America, naturalmente, ci sono grandi giornali e network televisivi schierati con Trump, che per parte sua non viene certo dal sottoproletariato. Ma la linea di demarcazione è ben chiara. “Make America great again”, il principale slogan del trumpismo, non è e non avrebbe mai potuto nascere da una campagna del New York Times o della Cnn. In Italia la parola d’ordine della lotta contro la “casta”, prima bandiera del grillismo, è nata più di dieci anni fa da una campagna del Corriere della sera.

 

Si sarebbe tentati di vedere in questo l’eredità di una lunga tradizione, ma è pur vero che il lessico populista, negli ultimi trent’anni, ha avuto in Italia una diffusione così ampia e universale da rendere difficile ogni unilaterale attribuzione di responsabilità. Volendo importare lo slogan del Washington Post, “Democracy dies in darkness”, più che nell’oscurità, nel buio o nell’ombra, dovremmo dire che da noi la democrazia muore nel fango.

 

Forse è vero, come ha scritto Giuliano da Empoli nel suo libro (“La rabbia e l’algoritmo”), tracciando una linea di continuità da Silvio Berlusconi a Donald Trump, che l’Italia è di fatto la Silicon Valley del populismo, capace di sperimentare e brevettare prima di tutti quello che diventerà anni dopo l’indispensabile infrastruttura ideologica del populismo globale (in tutte le sue varianti, da quella etno-localistica della Lega a quella giudiziaria di Antonio Di Pietro). Certo è che prima della campagna contro la “casta” del Corriere della sera abbiamo avuto le campagne di Repubblica a favore della “società civile” e contro i “professionisti della politica”. Una battaglia che è diventata presto senso comune. E pazienza se quando Eugenio Scalfari parlava della necessità di affidare la guida del paese a esponenti della società civile incontaminati dalla politica pensava a suoi pari come l’illustre giurista Gustavo Zagrebelsky, non certo a giovani scapestrati come Alessandro Di Battista. Per quanto quella campagna mettesse proprio la competenza professionale al di sopra di tutto (anche del consenso popolare), di fatto stava spianando la strada al “cittadino Di Battista” e a tutti gli altri “meravigliosi ragazzi” saliti oggi al vertice del potere politico in nome della loro estraneità alla politica.

 

La verità è che il discorso populista è egemone in Italia da decenni. Volete la controprova? Facciamo un esperimento. Dica il lettore chi ha pronunciato le seguenti parole, e con chi ce l’aveva: “Vedete, è interessante che se ci ammaliamo, vogliamo essere sicurissimi che i dottori siano laureati in medicina e sappiano di cosa parlano; se prendiamo un aereo, diciamo che vogliamo un pilota che sia perfettamente in grado di pilotare un aereo; e tuttavia, nella sfera pubblica, pensiamo: ‘Non voglio qualcuno che l’abbia già fatto prima’”.

 

Avrebbe potuto essere una dichiarazione di Massimo D’Alema in polemica con i girotondi o con un editorialista dell’Espresso, essendo D’Alema l’unico che per anni ha cercato di combattere la retorica antipolitica, ma solo fino al 2016, quando ha deciso di utilizzarla anche lui, insieme con molti dei suoi critici di allora, contro Matteo Renzi.

 

Avrebbe potuto essere una dichiarazione di Matteo Renzi in polemica con i cinquestelle, ma solo dal dicembre 2016 in poi, quando si è deciso a combattere quella stessa retorica antipolitica che aveva lungamente utilizzato contro i suoi avversari interni, a cominciare da Massimo D’Alema.

 

La verità, però, è che sono parole di Barack Obama, pronunciate proprio nel 2016, l’anno della Brexit, del referendum costituzionale in Italia e delle presidenziali americane vinte da Donald Trump. Che era anche il bersaglio polemico delle parole pronunciate da Obama. Un riferimento talmente scontato da non rendere necessario nemmeno nominarlo. In America.

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