Foto LaPresse

Fino a quando durerà il consenso del governo gialloverde?

Massimiliano Valerii

Per ora ha prevalso il piano emozionale sostenuto dalla comunicazione del giorno per giorno. Ma la fiducia accordata potrebbe rivelarsi volatile

Ora che l’“alleanza del rancore” è andata al governo, dopo il successo ottenuto nelle urne, è legittima l’aspettativa di cambiamento da parte degli elettori. I cui vessilli sono tre: reddito di cittadinanza, flat tax e superamento della legge Fornero sulle pensioni, come promesso in campagna elettorale e confermato nei documenti programmatici del nuovo esecutivo.

 

Tuttavia, a sentire le dichiarazioni del ministro dell’economia, Giovanni Tria, non se ne parla proprio, almeno per il momento: “I giochi per il 2018 sono fatti”, ha dichiarato più volte. Anzi, l'annunciata discontinuità, che aveva assicurato il consenso al governo giallo-verde, si traduce oggi in una tranquillizzante (per Bruxelles) continuità sulla gestione della finanza pubblica, in linea con gli impegni assunti da tutti i precedenti governi che si sono succeduti da Monti fino a Gentiloni. Il passaggio dalla retorica dell’uscita dall’euro al pieno rispetto dei vincoli europei (compreso l’impegno dell’Italia a continuare a ridurre il rapporto debito/Pil, come ha recentemente puntualizzato il vicepresidente della Commissione Dombrovskis) è una giravolta non da poco sull’asse del continuismo: altro che rottura! Per la verità, bisognerà aspettare e vedere che cosa accadrà in autunno, quando si scriverà la legge di Bilancio: un autunno che si preannuncia caldo, per quanto sembra che si sia già tirata una riga nera sui tre capisaldi del “governo del cambiamento”.

 

Se le cose dovessero andare davvero così, l’aspetto interessante su cui ragionare è se il consenso per Lega e Movimento 5 Stelle, finora rinnovato nei sondaggi e dal voto alle ultime elezioni amministrative, permarrà ‒ nonostante la eventuale (probabile) disillusione dell’elettorato rispetto a quelle promesse mancate ‒ oppure no. Perché il consenso per i partiti al governo non si basa su una tradizionale matrice ideologica o identitaria, né fa leva sulla rappresentanza degli interessi di blocchi sociali ben definiti o ceti produttivi specifici. In linea di principio, quindi, potrebbe rivelarsi aleatorio e volatile.

 

Ad esempio, la Lega guidata da Matteo Salvini è ben diversa dalla Lega Nord di Umberto Bossi. Il Senatùr faceva sindacalismo di territorio e rivendicava la secessione della Padania, facendosi interprete di interessi precisi, per quanto interclassisti e trasversali, che si coagulavano sulla piattaforma territoriale lombardo-veneta. Sparito pure il riferimento al “Nord” nel simbolo della Lega di oggi, Salvini fa campagna elettorale in Sicilia e raccoglie voti anche nelle città del Centro e del Mezzogiorno, sottolineando le sue ispirazioni transnazionali (da Marine Le Pen a Viktor Orbán, fino a Putin).

 

Il M5s, da parte sua, negli anni ha accresciuto il proprio consenso sull’onda lunga dell’avversione anti-casta. Quella che nasceva come una battaglia contro odiosi privilegi si è poi tradotta in una repulsione per l’establishment in generale, in una netta cesura tra élite e popolo, nell’infatuazione per la democrazia diretta via web. Ma ora, ambiguità dopo ambiguità, assistiamo a una pragmatica concessione al primato delle competenze, visto che sono stati chiamati a comporre le file dell’esecutivo accademici (il presidente del consiglio) e pezzi proprio di quell’establishment originariamente ripudiato in sé (Tria, Savona, Moavero Milanesi), e nei gabinetti dei ministri sono stati reclutati apparati di tecnocrazia di lungo corso. Per fare rappresentanza delle emozioni (la paura, la rabbia, la voglia di protezione), e non degli interessi, le competenze non sono indispensabili, ma per governare c’è bisogno invece di gente preparata nei posti chiave.

 

Insomma, se le tre principali promesse di cambiamento non dovessero essere mantenute e se le vocazioni originarie dei partiti al governo dovessero risultare appannate, il consenso persisterebbe comunque?

La manutenzione del consenso continua ad essere tutta giocata sulle lusinghe di una comunicazione politica intessuta nella cronaca quotidiana, attraverso i meccanismi della disintermediazione digitale (decine di tweet e di post ogni giorno da parte dei leader politici), in una fuga continuata di dichiarazioni dai toni veementi, e finisce per presentarsi come una formidabile macchina dispensatrice di rassicurazioni. Era quello che ci voleva, probabilmente, per un popolo (e un elettorato) alle prese con l’angoscia da impotenza di fronte a processi epocali che spaventano: dalla globalizzazione all’innovazione tecnologica nel mercato del lavoro, alle migrazioni internazionali. Sono i messaggi giusti per consolare la nuova antropologia dell’insicurezza che si è generata in questi anni, quando gli italiani hanno dovuto assimilare progressivamente la concezione di una solitaria privatizzazione del rischio sociale, finendo nella trappola del risentimento e della nostalgia. Mentre, dall’altra parte, assistevano all’esibizione di un potere statuale nudo, élite inerti, soggetti di rappresentanza messi fuori gioco, soluzioni politiche deboli (il bonus di 80 euro) o penalizzanti (la riforma delle pensioni). Quei messaggi confortanti sono stati offerti come un ombrello con cui proteggersi dalle piogge gelide portate dai travolgenti processi di cambiamento: dalle ondate di sbarchi nel Mediterraneo al precariato dei rider, le «vittime dirette» dello sfruttamento del nuovo capitalismo digitale. E non sono mancati bersagli simbolo su cui scaricare, almeno temporaneamente, un po’ di rancore: dai rom all’Europa franco-tedesca matrigna ed egoista.

 

Eppure, in assenza di una solida constituency incentrata sulla rappresentanza degli interessi, fino a quando la bolla calda della comunicazione politica del giorno per giorno potrà alimentare il consenso? Perché, prima o poi, la rappresentanza delle emozioni potrebbe non bastare più: il “partito del pil” o la nuova antropologia dell’insicurezza potrebbero voler passare all’incasso ed eventualmente rivolgere altrove la loro puntata. Sempre che trovino in campo un’offerta politica alternativa.

 

*direttore generale del Censis