Un'immagine del campo Rom River (foto LaPress)

La “terza via” di Raggi per risolvere il problema dei campi Rom è un vicolo cieco

Massimo Solani

I numeri e la realtà fotografano il fallimento del piano del Campidoglio. Salvini: “C’è un casino totale, troppa confusione e troppi soldi pubblici spesi male”

La “terza via” di Virginia Raggi per risolvere il problema dei campi Rom è un vicolo cieco. Lo dice il ministro dell’Interno Matteo Salvini, secondo il quale sul tema nella Capitale “c’è un casino totale, troppa confusione e troppi soldi pubblici spesi male”, e lo fotografano i numeri e la realtà. A partire da quella del Camping River, l’insediamento del XV Municipio dove la sindaca si preparava a mandare le ruspe proprio prima dell’arrivo di Salvini ma su cui la Corte Europea per i diritti dell’uomo ha imposto uno stop accogliendo il ricorso di alcuni ospiti.

 

  

Peccato che quel campo, ufficialmente, non esisterebbe più da quasi un anno, da quando cioè il 30 settembre scorso si è chiusa la convenzione con l’associazione che l’aveva in gestione senza che il Comune trovasse una soluzione alternativa per le persone che ci vivevano. Chiuso il campo, ma con i Rom dentro. Per dieci mesi infatti, dimostrata la fin troppo scontata impraticabilità delle soluzioni contenute nel “Piano Rom” di Virginia Raggi per aiutare gli ospiti del campo a trovare una casa in affitto, circa 400 persone hanno continuato a vivere nei moduli abitativi senza acqua corrente e senza elettricità, in una situazione per la quale Asl e Arpa hanno segnalato “il rischio per la salute pubblica degli occupanti e dei cittadini che vivono nelle zone circostanti”.

 

Poche decine soltanto quelli che in questi mesi hanno lasciato il campo, e se soltanto due famiglie sono state in grado di trovare una soluzione abitativa regolare gli altri si sono dispersi in altri campi più o meno ufficiali. Dieci giorni fa, e già in odore di “blitz” di Salvini proprio nel campo sulla Tiberina, la decisione del Comune di inviare gli agenti della Polizia di Roma Capitale per sequestrare 49 container di proprietà del Campidoglio e toglierli alla disponibilità degli abitanti. Risultato, come denunciato dalle associazioni: 37 moduli distrutti o gravemente danneggiati, con un danno erariale stimato dalla Cgil in mezzo milione di euro, 12 moduli rimossi e stoccati all’entrata del campo.

 

Venivano proprio dal campeggio sulla Tiberina, invece, le quattordici persone che hanno accettato il percorso di “rimpatrio volontario” del Comune prendendo il contributo offerto a quanti decidono di lasciare l’Italia (mille euro a persona, fino a 3mila per nucleo famigliare) per ristabilirsi in Romania. La scorsa settimana la sindaca Raggi è volata fino a Craiova per incontrarne alcuni e stringere con le autorità locali accordi per il reinserimento lavorativo dei cittadini romeni tornati in patria. Quattordici su quattrocento circa, non certo un risultato epocale, ma tanto è bastato perché la prima cittadina annunciasse festante il successo della sua “terza via”.

 

“Quattordici... – ironizzava Salvini nelle stesse ore in cui la sindaca volava in Romania - nei campi Rom in giro per l’Italia ne vivono tra i 30 e i 40mila, ne mancano alcune decine di migliaia”. Di sicuro c’è che chi oggi accetta di rientrare in patria potrà tornare in Italia liberamente quando vorrà visto che nessuna legge potrà impedire ad un cittadino comunitario di spostarsi in Europa. L’unico rischio sarà quello di perdere parte del contributo, che viene erogato in tre soluzioni distanziate nel tempo e condizionate al proseguimento del percorso. Del resto quella del “rimpatrio volontario” è una strada seguita già nel 2007 dall’allora sindaco Walter Veltroni, quando alcune centinaia di rom aderirono al progetto per poi tornare in Italia quasi tutti entro un paio di anni.

 

Nel frattempo il tanto decantato “Piano Rom” presentato da Virginia Raggi a fine maggio dello scorso anno e salutato da Beppe Grillo come un “capolavoro da applausi” si è rivelato fin qua un fallimento. Annunciato, peraltro. Doveva riguardare due soli campi dei 17 presenti nella Capitale (sei formali e undici “tollerati”) a ad oggi i lavori sono più o meno fermi al palo. Lo sono per quello della Monachina, dove un contenzioso fra le ditte che hanno partecipato al bando sta paralizzando l’iter, e lo sono anche per quello della Barbuta dove l’unico risultato tangibile ottenuto è stato l’avvio del percorso di inserimento lavorativo per quattro sole persone. Tutto questo nonostante la giunta Raggi abbia istituito un ufficio speciale affidato alla superconsulente Monica Rossi, il cui stipendio fra dicembre 2016 e ottobre 2017 è lievitato da 30mila a 55mila euro, e nonostante il Comune di Roma abbia a disposizione fondi europei destinati proprio al superamento dei campi.

  

“La realtà è che lo sgombero del River è una sorta di punizione che la giunta ha riservato ai Rom per mascherare il fallimento dei suoi piani e il naufragi di ogni politica di inclusione – commenta Carlo Stasolla, presidente dell’associazione “21 luglio” – per quanto ci riguarda invece è arrivato il momento di ribaltare il piano e chiedere conto di questo fallimento ai veri responsabili, che non sono gli ospiti dei campi che non sono riusciti a trovare una sistemazione abitative con le scarse garanzie offerte dal Comune. C’è un ufficio speciale, c’è una superconsulente, c’è una giunta, un gabinetto del sindaco e un primo cittadino: chi ha gestito in maniera così fallimentare il “Piano Rom? Vogliamo i nomi e cognomi dei responsabili e vogliamo sapere quali iniziative saranno prese nei loro confronti”.